La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 25194 depositata il 8 novembre 2013 intervenendo in tema di licenziamento ha statuito che la giusta causa di licenziamento, quale fatto il che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.
La vicenda ha riguardato un dipendente accusato di aver pagato tangenti per consentire l’aggiudicazione di un appalto alla propria società. Il datore di lavoro gli contestava tali comportamenti corruttivi, confermati dal pattegiamento della pena. Al termine della procedura disciplinare veniva comunicato al dirigente il suo licenziamento.
Il manager impugnava il provvedimento inanzi la Tribunale, nella veste di giudice del lavoro, che rigetta la domanda del ricorrente avendo rilevato la giustificatezza del recesso non essendo risultato che gli accordi corruttivi, di cui si era reso protagonista il ricorrente, gli fossero stati imposti da superiori gerarchici avendovi invece personalmente concordato le tangenti con le relative modalità di pagamento per l’assegnazione dei contratti. Il dipendente avverso la decisione del giudice di prime cure propone ricorso alla Corte di Appello. Nel rigettare il gravame i giudici di appello puntualizzavano che le eventuali prassi invalse nel gruppo, non possono far venire meno la responsabilità dell’appellante per i fatti commessi, sia pure senza trame vantaggio personale, idonei, trattandosi pur sempre di reati, a far venire meno la fiducia e a giustificare il recesso immediato.
Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il dirigente, prospettando sei motivi di censura nel ricorso.
Gli Ermellini nel rigettare il ricorso ed affermato che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato come nel giudicare se “la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l’intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (Cass., n. 22798 del 2012, n. 17092 del 2011).”
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