La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 230 depositata l’ 8 gennaio 2020 intervenendo in tema di reati di cui all’articolo 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000 ha statuito che pur non trovando le presunzioni tributarie “applicazione nel processo penale dove, assumendo il valore di un dato di fatto, non può costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito. Evenienza questa non ricorrente nella fattispecie in esame dove la riconducibilità delle fatture emesse dall’imputato, ricostruite sulla base di quelle ricevute dai clienti e regolarmente registrate, al volume di affari della società dal medesimo amministrata non costituisce alcuna presunzione, ma soltanto il frutto di un accertamento fiscale effettuato dalla Polizia tributaria che, avendo ricostruito sulla base di quanto figurante dall’elenco fornitori le cessioni di beni da costui effettuate, si sono limitati al calcolo matematico degli importi riportati sui singoli documenti per quantificarne il volume di affari dell’anno di imposta in contestazione.”
La vicenda ha riguardato il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata accusato di essere responsabile del reato di cui all’art. 5 d. lgs. 74/2000 per omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi ed IVA. L’imputato veniva condannato, per il reato ascritto, dal Tribunale. Avverso la sentenza del giudice di prime cure. l’imputato proponeva ricorso alla Corte di Appello che integralmente confermato la decisione impugnata dal ricorrente. Avverso tale sentenza, l’imputato, proponeva ricorso in cassazione fondato su due motivi.
Gli Ermellini rigettano le doglianze del ricorrente, riconoscendo l’avvenuta prescrizione del reato, ed affermando che nel reato, di cui all’articolo 5 del D.Lgs. n. 74/2000, di omessa dichiarazione, risulta legittimo, ai fini della determinare dell’imposta evasa le annotazione presenti negli elenchi “clienti e fornitori” ed inviate all’Agenzia delle Entrate non costituisce una presunzione ma ma soltanto il frutto di un accertamento fiscale effettuato a seguito di accertamento fiscale.
Inoltre i giudici del palazzaccio riaffermano che “è ben vero che alla ricostruzione del reddito dell’impresa nell’esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ma questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo (art. 109, comma 1, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), non potendo essere puramente e semplicemente presunti. Sicché, ove a fronte dell’accertamento di ricavi non dichiarati l’imputato lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l’esistenza (artt. 187 e 190, cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali il giudice non ha tenuto conto, non essendo legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza.”
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