Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 230 depositata il 8 gennaio 2020

reati tributari – omessa presentazione, in qualità di legale rappresentante, delle dichiarazioni dei redditi e sul valore aggiunto – prescrizione

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 13.3.2017 la Corte di Appello di Roma ha integralmente confermato la condanna alla pena di due anni di reclusione inflitta a C.F. all’esito del giudizio di primo grado dal Tribunale di Velletri, ritenendolo responsabile del reato di cui all’art. 5 d. lgs. 74/2000 per omessa presentazione, in qualità di legale rappresentante della C.M. s.r.l., delle dichiarazioni dei redditi e sul valore aggiunto relative all’anno di imposta 2006 con un’evasione IRES di €576.166 ed IVA di €349.192.

2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando due motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Con il primo motivo censura l’omessa risposta alla specifica contestazione relativa alla limitata efficacia presunzioni nel processo penale, rilevando come non fosse emersa alcuna prova o elemento indiziario del reddito effettivamente percepito dalla società nell’anno di imposta in contestazione atteso che le annotazioni figuranti nell’elenco dei fornitori trasmesso all’amministrazione finanziaria erano costituite da mere autocertificazioni degli acquisti effettuate dagli stessi interessati che, in quanto rese a loro esclusivo beneficio, non avrebbero potuto veicolare i dati necessari alla quantificazione del reddito effettivamente percepito dalla società amministrata dall’imputato. Al contrario, la Corte di Appello, avendo sostenuto che incombeva sulla difesa l’onere di dimostrare i costi sostenuti aveva sostanzialmente affermato, in contrasto con l’univoco orientamento giurisprudenziale, la legittimità delle presunzioni tributarie avallando l’erronea interpretazione del giudice di prime cure che aveva quantificato l’evasione in proporzione al volume di affari presunto, anziché sul reddito effettivamente dichiarato. Sostiene il ricorrente che ai fini della determinazione dell’imposta dovuta occorra, invece, quantificare non solo i ricavi concretamente realizzati, ovverosia il volume di affari presunto, ma altresì i costi strumentali sostenuti, che andando a decurtare i ricavi complessivi concorrono a pari titolo alla determinazione del reddito di impresa.

2.2. Con il secondo motivo contesta l’entità della pena inflitta che in quanto di gran lunga superiore alla media edittale, imponeva di rendere un’adeguata motivazione di certo non costituita dal riferimento ad un eccessiva disinvoltura dell’imputato nella gestione dell’attività commerciale, di fatto contraddetta dall’omessa ricostruzione dell’imposta realmente evasa. Censura altresì l’omessa motivazione sulla durata delle pene accessorie, che in ragione della loro entità avrebbero potuto essere giustificate solo in presenza di operazioni ascrivibili a strutture criminali dotate di una complessa organizzazione, cui certamente non era riconducibile la società amministrata dall’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.La difesa contesta con argomentazioni alquanto farraginose, stante un’indebita commistione di concetti diametralmente opposti quali sono quelli dei costi e quelli dei ricavi, la ricostruzione del reddito della società sostenendo, da un canto, che le annotazioni contenute nell’elenco clienti-fornitori siano mere autocertificazioni che consentono agli interessati di effettuare le relative deduzioni sul reddito di impresa e che pertanto quelle figuranti sul registro dei clienti siano inidonee a dimostrare il reddito dell’azienda fornitrice e, dall’altro, che nel silenzio tenuto dalla società fornitrice in relazione ai costi sostenuti non possano ritenersi legittime le presunzioni tributarie.

Le doglianze sono manifestamente infondate.

Va in primo luogo rilevato che quelle rinvenute nell’elenco fornitori inviato dai clienti dell’imputato all’Agenzia delle Entrate non costituivano mere annotazioni, ma corrispondevano a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute o di beni acquistati dal soggetto emittente la corrispondente fattura sulla quale il cliente, in quanto titolare di partita IVA, è legittimato a detrarre la relativa imposta ed aventi perciò valore probatorio in ordine all’acquisto di beni, nella specie auto, ceduti dalla C.M. s.r.l.. Attraverso questo sistema è stato ricostruito il volume di affari, corrispondente ai ricavi, della suddetta società.

Ciò detto, del tutto inconferenti risultano le contestazioni relative all’inapplicabilità delle presunzioni tributarie. Ed invero in campo tributario, la presunzione vale come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all’evasione fiscale che si fonda sulla riconducibilità al reddito, inteso come frutto dell’attività produttiva, e segnatamente ai ricavi, di importi di incerta provenienza (come in via meramente esemplificativa accade per gli accrediti registrati sul conto corrente considerati secondo la presunzione tributaria ricavi dell’azienda), che non può invece trovare applicazione nel processo penale dove, assumendo il valore di un dato di fatto, non può costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito. Evenienza questa non ricorrente nella fattispecie in esame dove la riconducibilità delle fatture emesse dall’imputato, ricostruite sulla base di quelle ricevute dai clienti e regolarmente registrate, al volume di affari della società dal medesimo amministrata non costituisce alcuna presunzione, ma soltanto il frutto di un accertamento fiscale effettuato dalla Polizia tributaria che, avendo ricostruito sulla base di quanto figurante dall’elenco fornitori le cessioni di beni da costui effettuate, si sono limitati al calcolo matematico degli importi riportati sui singoli documenti per quantificarne il volume di affari dell’anno di imposta in contestazione.

Ora, è ben vero che alla ricostruzione del reddito dell’impresa nell’esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ma questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo (art. 109, comma 1, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), non potendo essere puramente e semplicemente presunti. Sicché, ove a fronte dell’accertamento di ricavi non dichiarati l’imputato lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l’esistenza (artt. 187 e 190, cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali il giudice non ha tenuto conto, non essendo legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 37131 del 09/04/2013, Siracusa, Rv. 257678).

Di nessuna censura è perciò passibile la sentenza impugnata che, a fronte del silenzio serbato dall’imputato, ha quantificato l’imposta evasa contabilizzando i maggiori ricavi conseguiti senza detrarre i costi in ordine alla cui esistenza effettiva (o anche solo al ragionevole dubbio in ordine alla loro esistenza) manchino specifiche deduzioni o allegazioni.

2. Il secondo motivo è, invece fondato per quanto attiene alle pene accessorie. Invero, pur avendo il ricorrente lamentato nell’atto di appello la durata delle sanzioni inflittegli ai sensi dell’art. 12 d. lgs. 74/2000 dal Tribunale di Velletri, ritenuta eccessivamente afflittiva rispetto all’effettivo disvalore del fatto, la relativa contestazione è stata integralmente tralasciata dalla Corte capitolina, che nessuna motivazione ha reso sul punto.

Dovendo pertanto, in ragione della non manifesta infondatezza del ricorso, ritenersi instaurato un valido rapporto di impugnazione, ed esclusa sulla base dei rilievi sovra esposti l’evidenza dell’innocenza dell’imputato che possa consentire una pronuncia di assoluzione ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., deve rilevarsi l’intervenuta estinzione del reato per effetto del decorso del termine di prescrizione. Considerati infatti i termini di prescrizione di cui all’art. 157 cod. pen., decorrenti dalla data del commesso reato (31.10.2007), con l’aumento derivante dalla contestata recidiva reiterata unitamente all’aumento conseguente all’interruzione ex art. 161 cod. pen., il delitto risulta, alla data della presente pronuncia, essersi prescritto.

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione