La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10267 depositata il 16 aprile 2024, intervenendo in tema di danno alla professionalità del lavoratore, ha ribadito che “… in presenza di adeguate allegazioni, l’esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata, poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, oltre alle l’immagine professionale, può ledere professionalmente il lavoratore dal momento che una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e conseguentemente la sua ricollocabilità sul mercato del lavoro. …”
La vicenda ha riguardato una dipendente di una società, operante nell’abbigliamento intimo femminile, che era stata posta in cassa integrazione per oltre dieci anni. La lavoratrice citava la società datrice di lavoro in giudizio, affinché il giudice adito accertasse e condannasse la datrice di lavoro al pagamento del danno alla professionalità. Il Tribunale adito, in veste di giudice del lavoro, accoglieva parzialmente le doglianze della dipendente. La sentenza di primo grado veniva impugnata dalla datrice di lavoro, la dipendente proponeva appello incidentale. La Corte di appello rigettava l’appello principale della datrice di lavoro ed accoglieva parzialmente l’appello incidentale della lavoratrice. La società, avverso la decisione di appello proponeva ricorso in cassazione fondato su tre motivi.
I giudici di legittimità rigettano il ricorso della datrice di lavoro, ritenendo che i giudici di merito hanno correttamente applicato i principi contenuti nella “… sentenza di questa Corte di Cassazione n. 10/ 2002 riferita ad un lavoratore che era stato lasciato in condizioni di inattività per lunghissimo tempo ed in cui la Corte ha affermato che il comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all’articolo 2103 c.c. ma era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; con tale affermazione il giudice d’appello ha enunciato un concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, ed ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente un danno non economico ma comunque rilevante sul piano patrimoniale per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa.
Ha poi richiamato le successive sentenze nn. 2763/2003 e 7963/ 2012 sempre tutte pronunciate in relazione a domande proposte ex art. 2103 c.c. ma pur sempre relative a comportamenti datoriali illegittimi che hanno lasciato in condizione di inattività i dipendenti, sentenze che hanno ribadito le medesime affermazioni precedentemente richiamate.
(…) la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta in ogni caso discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e dunque configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale. …”
Inoltre, in tema di quantificazione del danno alla professionalità, gli Ermellini hanno evidenziato che “… Il danno alla professionalità – per sua natura plurioffensivo – richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d’appello è ovviamente un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig; essendo il primo legato appunto alla perdita della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa, laddove il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.
Il danno patrimoniale alla professionalità per giurisprudenza consolidata può inoltre essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione (…)
ai fini della dell’esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008). …”
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