Nel processo tributario trova applicazione l’articolo 100 c.p.c. il quale statuisce che “… Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse …”.
La giurisprudenza ha precisato che in tema di contenzioso tributario, la legittimazione ad impugnare gli atti impositivi appartiene soltanto al destinatario dell’atto impugnato o a chi è parte del rapporto controverso e rientra, dunque, tra i soggetti passivi dell’imposizione tributaria, che sono gli unici a potere proporre ricorso (Cass. 24/02/2021 n. 4945 Cass. 04/04/2012, n. 5375; Cass. 10/12/2019, n. 32188; Cass. ordinanza n. 2754/2023).
Inoltre va sottolineato che l‘interesse ad agire, ed anche l’interesse ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione (o l’impugnazione), ma anche al momento della decisione, perché è in relazione quest’ultimo – e alla domanda originariamente formulata – che l’interesse va valutato (Cass. Sez. un. n. 10553/2017; Cass. sentenza n.31080/2022)
Secondo giurisprudenza costante: “il difetto di legittimazione attiva o passiva, da valutarsi in base allo schema normativo astratto al quale si riconduce il diritto fatto valere in giudizio, è questione che, pur risultando decisiva per l’esistenza della titolarità di tale diritto, è rilevabile anche in sede di legittimità alla duplice condizione che non si sia formata sulla sua esistenza cosa giudicata interna (per essere stato il punto ad essa relativo oggetto di discussione e poi di decisione rimasta priva di impugnazione) e che la questione emerga sulla base dei fatti legittimamente prospettati davanti alla Corte di Cassazione e, dunque, nel rispetto dei limiti entro i quali deve svolgersi l’attività deduttiva delle parti negli atti introduttivi del giudizio di cassazione” (Cass. Civ. n. 23568/2011).
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20978/2013, ha esaminato esaurientemente il tema ed ha precisato che: “in tema di contenzioso tributario […] il giudicato implicito sulla questione pregiudiziale della legittimazione ad agire non può formarsi qualora la questione non sia stata sollevata dalle parti ed il giudice (con implicita statuizione positiva sulla stessa) si sia limitato a decidere nel merito, restando in tal caso la formazione del giudicato sulla pregiudiziale impedita dall’impugnativa del capo della sentenza relativamente al merito. Ne consegue che il giudice del gravame può rilevare d’ufficio il difetto di uno dei presupposti della legittimazione ad agire e, ove il rilievo venga effettuato in sede di legittimità, la sentenza va cassata senza rinvio, esclusa ogni pronuncia nel merito trattandosi di impugnazione inammissibile”.
Nel processo tributario la cessazione della materia del contendere si differenzia dalla sopravvenuta carenza di interesse ad agire. Infatti, l’atto lesivo dell’interesse materiale oggetto della tutela giurisdizionale tributaria viene meno solo nel primo caso; invece, nel secondo, l’atto impugnato permane, ma cessa l’interesse meramente processuale al suo annullamento. Qualora, poi, l’atto impugnato venga meno non per una unilaterale determinazione dell’ufficio, ma per l’adozione di un atto conforme alla pretesa avanzata dal contribuente, la sentenza di cessazione della materia del contendere fa stato in merito alla definitiva realizzazione dell’interesse di quest’ultimo e, una volta passata in giudicato, impedisce all’erario di annullare, in via di autotutela, il provvedimento che aveva determinato la cessazione della “res litigiosa”. (Cassazione n. 5098/2022 )
Legittimità ad agire di soggetti diversi dal contribuente destinatario dell’atto impositivo
La Suprema Corte ha chiarito che “… un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14 d.lgs. n. 546 del 1992 deve indurre ad una lettura estensiva del destinatario dell’atto; in particolare, va considerato tale, non solo il destinatario stricto iure ma anche il destinatario potenziale e mediato. Similmente, il concetto di titolarità del rapporto controverso va esteso fino a comprendere in esso anche la titolarità di un rapporto dipendente o connesso rispetto a quello costituito dall’atto impugnato. Una simile interpretazione consente di ammettere nel processo tributario l’intervento di quei soggetti che, pur non destinatari diretti dell’atto impugnato, potrebbero essere chiamati successivamente ad adempiere in luogo di altri. In queste ipotesi il condebitore non è soggetto passivo di imposta ma è tuttavia considerato, dalla disciplina civile o fiscale, solidalmente responsabile per l’adempimento dell’obbligazione tributaria insieme con il contribuente, come nel caso dei soci di una società di persone, (illimitatamente responsabili per le obbligazioni societarie, comprese quelle tributarie), nel caso dei rappresentanti legali del soggetto passivo di imposta (talora ritenuti solidalmente responsabili con quest’ultimo), oppure nel caso, ricorrente nella specie, del cessionario di azienda o di un ramo di essa, responsabile in solido ex art. 14 d.lgs. n. 472 del 1997. In tutti questi casi non è configurabile una responsabilità solidale paritetica bensì una solidarietà dipendente (c.d. responsabilità di imposta) che si realizza quando la legge prevede la responsabilità solidale di un soggetto che, pur non avendo realizzato il fatto indice di capacità contributiva risulta collegato al fatto imponibile ovvero al contribuente sulla base di un rapporto al quale il fisco rimane estraneo …” (Cass. 12/01/2012, n. 255; Cass. ordinanza n. 2754/2023).
Legittimazione ad agire degli ex soci
Come già precisato dalle Sezioni Unite n. 6070/2013, e poi ribadito dalla successiva conforme giurisprudenza di questa Corte, «In tema di
legittimazione ad agire degli ex soci di società di capitali estinta, per i rapporti facenti capo a questa ed ancora pendenti dopo la cancellazione dal registro delle imprese si determina un fenomeno successorio rispetto al quale occorre distinguere: se l’ex socio agisce per un debito della società estinta, non definito in sede di liquidazione, la successione interessa tutti i soci esistenti al momento della cancellazione, posto che essi succedono nei rapporti debitori già facenti capo alla società, sicché sussiste un litisconsorzio di natura processuale e tutti i soci debbono essere chiamati in giudizio, ciascuno quale successore della società e nei limiti della propria quota di partecipazione; se invece l’ex socio agisce per un credito della società estinta, pur rimanendo immutato il meccanismo successorio, la mancata liquidazione comporta soltanto che si instaurerà tra i soci medesimi un regime di contitolarità o comunione indivisa, onde anche la relativa gestione ne seguirà il regime proprio, con esclusione del litisconsorzio» (v. Cass. n. 17492 del 04/07/2018; Cass. n. 15637 del 11/06/2019; Cass. sentenza n. 37611/2022).
La Corte Suprema ha anche precisato che “… in tema di contenzioso tributario, la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società prima della notifica dell’avviso di accertamento e dell’instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell’ex liquidatore, sicché eliminandosi ogni possibilità di prosecuzione dell’azione, consegue l’annullamento senza rinvio ex art. 382 c.p.c., della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, ricorrendo un vizio insanabile originario del processo, che avrebbe dovuto condurre da subito ad una pronuncia declinatoria di merito” trattandosi di impugnazione “improponibile, poiché l’inesistenza del ricorrente è rilevabile anche d’ufficio (Cass. sez. V, 5736/16, 20252/15, 21188/14), non essendovi spazio per ulteriori valutazioni circa la sorte dell’atto impugnato, proprio per il fatto di essere stato emesso nei confronti di un soggetto già estinto” (Cass. sez. V, n. 4778/17, (arg. a contrario n. 4786/17), n. 2444/17; Cass. sez. VI-5, n. 19142/16; v. anche, implicitamente, Cass. Sez. U., n. 3452/17, p.to 1.1; cfr. Cass. nn. 23029/17, 4853/15, 21188/14, 22863/11, 14266/06, 2517/00; Cass. sentenza n. 10354/2022).
Le SS.UU. (6070/13; 6071/13; 6072/13) hanno invero ulteriormente chiarito che a seguito dell’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – il che sacrificherebbe ingiustamente i diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate. Ne discende che i soci peculiari successori della società, subentrano, altresì, nella legittimazione processuale facente capo all’ente — la cui estinzione è in parte equiparabile alla morte della persona fisica, ai sensi dell’art.110 c.p.c — in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale (21188/14).
A seguito dell’estinzione della società e della conseguente perdita della capacità processuale nessuna persistente legittimazione può ravvisarsi in capo al liquidatore, poiché l’art. 2495, comma secondo, c.c. consente ai creditori sociali insoddisfatti di agire nei confronti del liquidatore solo “se il mancato pagamento è dipeso da questi”. Come precisato da questa Corte infatti “il liquidatore di una società estinta per cancellazione dal registro delle imprese può ben essere destinatario di una autonoma azione risarcitoria, ma non della pretesa attinente al debito sociale”. (7676/12) (Cass. sentenza n. 10354/2022).
Legittimazione ad agire: escluso per l’amministratore di fatto
Alla luce dei principio di diritto della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. 5, Sentenza n.26702 del 12/09/2022, Rv. 665856-01; Cass. ordinanza n. 5002/2023; Cass. ordinanza n. 4942/2023) secondo il quale l’amministratore di fatto non è legittimato ad impugnare l’avviso di accertamento rivolto alla società, poiché la rappresentanza legale della stessa spetta esclusivamente agli amministratori nominati a norma di legge, risultanti da documentazioni pubbliche, quali il registro delle imprese, e tenuto conto che, ai sensi dell’art.62 del d.P.R. n.600 del 1973, la rappresentanza dei soggetti diversi dalle persone fisiche è attribuita, ai fini tributari, a coloro che ne hanno l’amministrazione di fatto solo ove non sia determinabile secondo la legge civile.
Legittimità ad agire del successore a titolo particolare
Nei casi in cui vi è una “trasformazione” mediante il conferimento dell’impresa individuale in una società, la corte suprema ha affermato che “… il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo ma parte, essendo l’effettivo titolare della res litigiosa che costituisce l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale (proprietà, diritto reale limitato, diritto di credito); quindi il successore, il cui intervento nel processo è regolato dall’art. 111 c.p.c., può svolgere tutte le attività processuali consentite al suo dante causa ed ha il potere autonomo di impugnare la sentenza pronunciata nei confronti di quest’ultimo o di resistere all’impugnazione ex adverso proposta contro la medesima sentenza, senza che rilevi il suo mancato intervento nelle fasi pregresse del giudizio, fermo restando il litisconsorzio necessario tra dante causa (che non sia stato estromesso) e successore a titolo particolare (Cass. 27 febbraio 2002, n. 2889, in motivazione; Cass. 30 gennaio 1997, n. 965).
[…]
il passaggio dalla forma della impresa individuale a quella della società per la continuazione di una attività commerciale non comporta, né implica l’estinzione del soggetto giuridico originario, quale si ha, invece, nella successione (in universum ius) di altro soggetto alla persona fisica o giuridica estintasi ed i cui effetti nel processo sono regolati dall’art. 110 c.p.c. nel senso che il processo è necessariamente proseguito dal successore universale o in suo confronto, a differenza di quanto accade nel trasferimento del diritto controverso inter vivos ed a titolo particolare, che avvenga nel corso del processo, nel qual caso il processo prosegue fra le parti originarie, ma il successore può intervenire o essere chiamato nel processo e la sentenza spiega i suoi effetti anche contro di lui, quale avente causa della parte ed egli stesso può impugnarla (art. 111 c.p.c. e 2090 cod. civ). (Cass. 19 marzo 1991, n. 2928, in motivazione)
[…]
“la “trasformazione” di un’impresa individuale in una società di capitali non è riconducibile alla trasformazione societaria, in quanto uno dei termini del rapporto è estraneo all’ambito delle società, trattandosi, invece, di un trasferimento a titolo particolare, nelle forme del conferimento o della cessione di un diritto dell’imprenditore individuale all’impresa collettiva per atto tra vivi, atteso che l’estinzione dell’impresa individuale non costituisce il presupposto del trasferimento stesso” (Cass. 13 settembre 2016, n. 17959; Cass. 2 luglio 2013, n. 16556). Specificamente, la trasformazione di una ditta individuale in società di capitali non concretizza il fenomeno previsto dall’art. 2848 c.c. di mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, con la mera modificazione dell’atto costitutivo senza la creazione di un nuovo soggetto distinto da quello preesistente (cfr. Cass. 21 giugno 1979, n. 3480; Cass. 14 gennaio 1982, n. 198; Cass. 10 marzo 1990, n. 1963); in relazione a tale vicenda è invece configurabile un’ipotesi di successione a titolo particolare regolata dall’art. 111 c.p.c. (Cass. 27 febbraio 2002, n. 2889; Cass. 6 novembre 1992, n. 1038; Cass. 19 marzo 1991, n. 2928). …” (Cass. sentenza n. 24901 del 2023)
Carenza d’interesse ad agire
La giurisprudenza della Suprema Corte con la decisione n. 36558/2021 resa inter partes, ha definito “… l’interesse ad agire – quale condizione dell’azione ex art. 100 cod. proc. civ. – richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire (cfr. Cass. 4 maggio 2012, n. 6749; Cass. 27 gennaio 2011, n. 2051; Cass. 28 giugno 2010, n. 15355; Cass. ordinanza n. 4942/2023; Cass. ordinanza n. 5002/2023;).
I giudici di legittimità con l’ordinanza n. 13078/2022, intervenendo sul tema della carenza d’interessa ad agire hanno ribadito che “… la carenza dell’ interesse richiesto dall’art. 100 cod. proc. civ. (nel caso di specie denunciata dalla ricorrente incidentale) è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, anche in mancanza di contrasto tra le parti sul punto, poiché costituisce un requisito per la trattazione nel merito della domanda (Cass. 29/09/2016, n. 19268 e giurisprudenza ivi citata, in motivazione), e può quindi essere rilevato d’ufficio anche in Sede di legittimità, salvo l’effetto preclusivo del giudicato, ove la relativa questione abbia formato oggetto in sede di merito di specifica pronuncia non impugnata (Cass. 19/05/1980, n. 3265) …” (Cass. ordinanza n. 13078/2022)
Inoltre gli Ermellini hanno evidenziato, in caso di soccombenza, “… l’insussistenza dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 cod. proc. civ. il quale postula la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione da apprezzarsi in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento; (Cass. n. 22917/2023; Cass. n. 22907/2023) …”
il principio dell’interesse ad agire si configura diversamente rispetto al giudizio di primo grado, dovendosi tener conto dell’intervenuta pronuncia della sentenza di primo grado, idonea ad assumere la consistenza del giudicato per le parti non impugnate, a causa dei limiti dell’effetto devolutivo dell’appello. Ne discende che, nel decidere sulla sussistenza di tale interesse, e quindi sull’ammissibilità dell’impugnazione proposta, si deve aver riguardo agli effetti che potrebbero derivare dal suo accoglimento e alla loro idoneità a soddisfare un interesse della parte impugnante in relazione ai temi del giudizio. Pertanto, l’interesse, ed il conseguente onere, della parte soccombente ad impugnare è esteso, e nel contempo limitato, alle sole rationes decidendi poste a base della sentenza, ma non coinvolge le questioni sulle quali questa non si sia pronunciata, perché ritenute assorbite (Cass. 12 luglio 2016, n. 14190; Cass., 8 ottobre 2001, n. 12700; Cass. sentenza n. 10993/2023).
Fallimento del contribuente: Legittimazione ad agire
La dichiarazione di fallimento non comporta la cessazione dell’impresa, ma solo la perdita della legittimazione processuale e sostanziale del suo titolare, nella cui posizione subentra il curatore fallimentare. Ne consegue che gli atti del procedimento tributario formati in epoca successiva alla dichiarazione alla dichiarazione di fallimento del contribuente, onde essere opponibili ad essa, come nella specie, debbono
indicare quale destinatario l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale e, quale legale rappresentante della stessa, il curatore. La cartella di pagamento, i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, ovvero nel periodo di imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, ove sia stato notificato soltanto al fallito, e non anche al curatore del fallimento, è inefficace nell’ambito della procedura fallimentare, ma conserva la sua validità ove il fallito torna in bonis e può impugnarla perché riacquista la propria capacità processuale (Cass. n. 22277 del 2011).
La legittimazione processuale straordinaria del fallito trova la sua genesi nella garanzia del diritto di difesa che compete al fallito medesimo, sicchè poi, per conseguenza, l’omessa notifica al curatore, se rende inefficace la procedura esecutiva nell’ambito della procedura fallimentare, mantiene la sua validità nei confronti del fallito, proprio a causa del carattere relativo della capacità processuale di quest’ultimo. La società contribuente, infatti, non è privata a seguito della dichiarazione di fallimento della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposta ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla definitività dell’atto impositivo (Cass. n. 3667 del 1997; Cass. n. 14987 del 2000; Cass. n. 6937 del 2002). Il fallito, quindi, ha una propria legittimazione processuale al contenzioso tributario, distinta da quella della curatela, azionabile in ipotesi in cui il fallimento decida di non opporsi alla pretesa fiscale. Ciò in forza dell’interpretazione
degli artt. 43 della legge fallimentare e 10 del d.lgs. n. 546 del 1992 conforme ai principi del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa, garantiti dall’art. 24 comma 1, e 2 del Cost. (Cass. n. 3667 del 1997, Cass. n. 14987 del 2000, Cass. n. 6937 del 2002).
La giurisprudenza della Corte Suprema (vedasi anche Cass. sentenza n. 3393/2020; Cass. ordinanza n. 34529/2021) è costante nel ribadire i princìpi di diritto, (dovendoli esaminare alla luce della sentenza a sezioni unite della Cassazione n. 11287/2023 che ha dato una definizione della inerzia del curatore come comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato) superati da quanto statuito dalla sentenza a sezioni unite n. 11287/2023, nella parte in cui affermano che il fallito non conserva la capacità di stare in giudizio nel caso in cui gli organi fallimentari non hanno impugnato l’atto impositivo a seguito di una valutazione negativa, di seguito indicati:
«L’avviso di accertamento, concernente crediti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, deve essere notificato non solo al curatore, ma anche al fallito, il quale conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all’inerzia della curatela, sicché, in caso contrario, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l’atto impositivo non diventa definitivo, tenuto conto che, peraltro, costui non è parte necessaria del giudizio d’impugnazione instaurato dal curatore» (Cass. 18/03/2016, 5392);
«La dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell’art. 43 l. fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore. Se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia>> (Cass. 06/07/2016, n. 13814);
«Nell’inerzia degli organi fallimentari, ravvisabile, ad esempio, nell’omesso esercizio da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo, il fallito è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela, alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli artt. 43 della legge fallimentare e dell’art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972, conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24 ), del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa (Cass. n. 3667 del 1997, n. 14987 del 2000, n. 6937 del 2002).» (Cass. 11/05/2017, n. 11618);
«È inammissibile, per difetto di legittimazione ad agire ex 43, comma 1, l.fall., il ricorso del contribuente contro un avviso di accertamento concernente crediti fiscali cui presupposti si siano verificati prima della dichiarazione del suo fallimento, ove il curatore abbia omesso di promuovere detto ricorso non per inerzia, ma in seguito ad una esplicita presa di posizione negativa circa la sua utilità per la massa dei creditori.>> (Cass. 03/04/2018, n. 8132).
Per chiarire definitivamente il concetto di inerzia si è espressa la Cassazione a Sezioni unite, con la sentenza n. 11287 depositata il 28 aprile 2023, in un caso riguardante la legittimazione di agire dell’amministratore di una società fallita intervenuto in proprio ed in qualità di amministratore, ha stabilito i seguenti principi di diritto:
“… – in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex art. 43 l.fall., in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato;
– l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. …”
Per cui risulta chiarito dagli Ermellini, con la sentenza a SS. UU. in commento, che per stato di inerzia del curatore è da indentificarsi come comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato. Pertanto non determina il difetto di legittimazione la circostanza che il curatore rinunci ad impugnare gli avvisi di accertamento all’esito di specifiche valutazioni fatte di concerto con il giudice delegato.
La stessa sentenza a SS.UU. ha anche ribadito la sussistenza alla legittimazione ad agire dell’amministratore e del fallito “… Nel caso in cui l’inadempimento tributario possa correlarsi – in tema di imposte sui redditi e di Iva – ad un reato ai sensi del d.lgs. 74/2000, il fallito deve essere posto in grado di impugnare l’atto impositivo quali che siano le ragioni che hanno indotto il curatore a non farlo. […] [in quanto é] indubitabile l’influenza che l’accertamento in sede amministrativa-tributaria può sortire sull’indagine penale, sia nel convalidare o meno la notitia criminis in presenza di ritenuto superamento delle soglie legali di punibilità, sia nel costituire quest’ultimo accertamento un elemento, non vincolante, ma comunque probatoriamente utilizzabile dalle parti e dal giudice nel procedimento penale che ne sia scaturito. Con ciò riscontrandosi una logica di tutela non distante da quella accordata al fallito dallo stesso art. 43 l.fall. con riguardo ai giudizi dai quali possa dipendere una sua imputazione per bancarotta.
Altrettanto però è a dirsi nel caso in cui l’inadempimento tributario sia presidiato dall’applicazione di sanzioni pecuniarie di natura non penale ma amministrativa ….”
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