La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12113 depositata il 16 maggio 2017 intervenendo in tema di ritenute alla fonte ha statuito che nei casi in cui il datore di lavoro non ha versato la trattenuta alla fonte operate sulla “busta paga” il lavoratore è tenuto a pagare di nuovo l’Irpef sulla busta paga nonostante abbia ricevuto lo stipendio al netto delle imposte. Questo in considerazione del principio di responsabilità in solido, di cui all’art. 64, co. 1, dpr. 600/1973, tra il sostituto d’imposta (datore di lavoro) che il sostituito (lavoratore) nel caso di mancato versamento delle imposte da parte del primo. E ciò vale anche per i redditi da lavoro dipendente. La pronuncia in commento ripropone il contrasto presente nella giurisprudenza e nella dottrina. In particolare per i giudici di legittimità sembra ormai consolidato l’orientamento di della perfetta e immediata solidarietà tra sostituto e sostituito. Per la dottrina e soprattutto la giurisprudenza di merito continuano a sostenere la posizione opposta, considerando il sostituito, che abbia subito la regolare ritenuta sui suoi compensi, del tutto estraneo alle conseguenze dell’omesso versamento del sostituto.
La vicenda ha riguardato un dipendente a cui l’Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di accertamento per la omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ed il mancato versamento delle ritenute operate da parte del datore di lavoro fallito. Il contribuente avverso tale atto impositivo proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale, i cui giudici accolgono le motivazioni del lavoratore annullando l’accertamento. L’Amministrazione finanziaria, avverso la decisione di primo grado, proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di appello rigettavano le doglianze del Fisco ribadiscono che le trattenute erano state operate ed il dipendente aveva ricevuto gli emolumenti al netto di imposta, per cui ritenevano che, per il divieto di doppia imposizione, non potesse operare la solidarietà passiva tra sostituto e sostituito.
Avverso la decisione della CTR l’Agenzia proponeva ricorso in cassazione fondato su due motivi.
Gli Ermellini accolgono le doglianze dell’Amministrazione finanziaria riconfermando il principio di diritto secondo cui: “Il fatto che il Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 64, comma 1, definisca il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge e’ obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri… ed anche a titolo di acconto” non toglie che anche il sostituito debba ritenersi fin dall’origine (e non già solo in fase di riscossione) obbligato solidale al pagamento dell’imposta: in tale qualità, anch’egli e’ pertanto soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l’abbia versata all’Erario, in tal modo esponendolo all’azione del fisco” (cfr. Cass. n. 14033/2006; Cass. n. 8653/2011, Cass. n. 24962/2010 Cass. n. 23121/2013, Cass. n. 19580/2014, Cass. n. 24611/2014 e Cass. n. 9933/2015; id. n. 12076/2016).
Per la Corte Suprema il dipendente ha sempre la possibilità di rivalersi, anche instaurando una controversia legale, contro l’azienda datore di lavoro per chiedere la restituzione delle somme che ha dovuto versare allo Stato a titolo di imposte sul proprio reddito.
I giudici del palazzaccio, dimenticano, sia la difficoltà per il lavoratore di iniziare un contenzioso con chi lo ha assunto se non quando i rapporti tra le parti sono ormai pregiudicati e incancreniti. Ma altro aspetto, non analizzato, è perchè l’Erario agisce per il recupero delle ritenute nei confronti del lavoratore, anche con il contenzioso, è non lo fà nei confronti del datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, anche in funzione di economicità ( si pensi che in tal modo si “risparmia” una procedura giudiziaria.
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