La sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado delle Marche, sezione 2, n. 223 depositata il 6 marzo 2024, intervenuta sull’applicazione del principio ne bis in idem, ha riaffermato il principio di diritto statuito dalla Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 21694 depositata l’ 8 ottobre 2020 secondo cui “… In materia di IVA e in relazione a fatti oggetto delle disposizioni di cui al Titolo II, d.lgs. n. 74 del 2000:
a) va escluso che il procedimento amministrativo sanzionatorio debba essere dichiarato improcedibile in ragione dell’intervenuta sentenza penale irrevocabile di assoluzione ancorchè pronunciata con la formula ‘perché il fatto non sussiste’;
b) la sentenza irrevocabile di assoluzione con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ determina l’ineseguibilità definitiva della sanzione, ferma la necessità di valutare l’identità del ‘fatto’ in relazione agli elementi costitutivi vuoi dell’illecito amministrativo tributario vuoi di quello penale; il relativo accertamento di fatto va operato, in concreto, nel giudizio avente ad oggetto l’eventuale riscossione avviata dall’Ufficio. …”
Il Supremo consesso, sempre con la sentenza n. 21694 del 2020 ha statuito il seguente principio di diritto “… in materia tributaria, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, relativa ai medesimi fatti oggetto della sanzione tributaria tuttora controversa, può essere prodotta in cassazione ex art. 372 c.p.c. ove la parte intenda far valere l’improcedibilità, l’improponibilità o, comunque, l’estinzione, in tutto o in parte, del giudizio stesso per la violazione – pur dedotta per la prima volta in sede di legittimità e semprechè pertinente alle questioni ritualmente in giudizio – di principi di ordine pubblico unionale (nella specie, del principio del ne bis in idem) …” (vedi anche Cass., sez. V, sentenza n. 25880 del 2023)
Per cui nei casi in cui il recupero delle maggiori imposte e l’azione penale si fondano sul medesimo fatto ed intervenga, nelle more del contenzioso tributario, la condanna penale o l’assoluzione dal reato penale con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ comporta l’estinzione della pretesa delle sanzioni amministrative in quanto non suscettibili di esecuzione.
La contestazione dell’ineseguibilità delle sanzioni può avvenire con il giudizio di impugnazione della cartella di pagamento che fa seguito alla pronuncia con la quale se ne riconosce la debenza, oltre ad imposte ed interessi. Pertanto il giudice di merito deve procedere, a seguito della sentenza penale assolutoria con formula piena (“perché il fatto non sussiste”), a valutare, alla luce del principio del ne bis in idem, l’identità degli elementi costitutivi dell’illecito penale e di quello amministrativo e, una volta accertata tale corrispondenza, deve dichiarare ineseguibile la sanzione tributaria.
Si evidenzia che l’articolo 21, comma 2, del Dlgs 74/2000 prevede la possibilità della riscossione della sanzione amministrativa irrogata solo in caso di assoluzione penale, tranne che con la formula «perché il fatto non sussiste», in cui è necessario verificare se permane comunque l’evasione.
Rapporto distinto tra processo penale e tributario: doppio binario
Sussiste indipendenza tra processo tributario e procedimento penale anche se ad essere sanzionata è la medesima condotta. La separazione tra i due procedimenti è affermata dall’articolo 20 del Dlgs 74/2000, il quale statuisce che sia il procedimento amministrativo che quello tributario non possono essere sospesi per la presenza di un procedimento penale per gli stessi fatti.
Non è inconsueto, pertanto, che sulla medesima condotta si risolva nell’assoluzione in sede penale e nella soccombenza in ambito tributario.
Ne bis in idem e sanzioni
L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è alla base del principio del ne bis in idem, a più riprese affermati dalla Corte di Giustizia (da ultimo v. Corte di Giustizia, 3 aprile 2019, in C-617/17, Powszechny Zaklad Ubezpieczeri na 2ycie S.A.; Corte di Giustizia, 20 marzo 2018, in C524/15, Menci; Corte di Giustizia, 20 marzo 2018, nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma).
Il suddetto articolo statuisce che nessuno può essere perseguito o condannato due volte per lo stesso reato. La complessa evoluzione giurisprudenziale che ne è seguita ha poi ammesso la coesistenza di due regimi sanzionatori, ma con il limite rappresentato dal carico afflittivo, che deve rispondere a criteri di proporzionalità, e alla necessaria simultaneità dei procedimenti.
Evoluzione giurisprudenziale
Gli Ermellini nell’ordinanza n. 21694 del 2020 hanno effettuato un excursus sul principio “… l’evoluzione degli orientamenti della Corte EDU, della Corte di Giustizia e della stessa Corte costituzionale ha condotto ad un approdo dove la questione del ne bis in idem, che ha di per sè rilievo sia sostanziale che processuale, trova una sua unitaria composizione, in linea tendenziale, sul piano del procedimento e del processo.
Senza ripercorrere l’intero iter della citata giurisprudenza (che trova il suo leading case nella decisione CEDU, 2 marzo 2014, Grande Stevens), va rilevato che la stessa Corte EDU, con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, (poi ribadita dalla successiva sentenza Bjarni Armannsson c. Islanda del 16 aprile 2019) ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorchè tra i due procedimenti amministrativo e penale – che sanzionano il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto. Un tale legame va ravvisato, in particolare, quando (a) le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta, (b) la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato, (c) esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti, ferma (d) la proporzionalità del cumulo sanzionatorio, che non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato in rapporto alla gravità dell’illecito.
In termini sostanzialmente coincidenti si è poi espressa la Corte di Giustizia con tre coeve sentenze del 20 marzo 2018 (in C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri; nelle cause riunite C-596/16 e C597/16, Di Puma; in C-524/15, Menci): non si realizza la violazione dell’art. 50 della Carta se (sentenza Menci, punto 63) la disciplina contestata persegua un “obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari, contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti, e preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti” (v. anche la successiva sentenza 3 aprile 2019, in C-617/17, Powszechny, dove esclude la pertinenza del principio in caso di applicazione parallela della duplice normativa sanzionatoria, mancando la “ripetizione di un procedimento conclusosi con una decisione definitiva”).
I medesimi principi, infine, ispirano anche la Corte costituzionale che, nel declinare con le sentenze n. 43 del 2 marzo 2018 e n. 222 del 24 ottobre 2019 la questione di legittimità, in riferimento specifico alle sanzioni tributarie, dell’art. 649 c.p.c. (nel primo caso con la restituzione degli atti al giudice remittente, nel secondo con una declaratoria di inammissibilità delle questioni; successivamente v. anche, in termini specifici, O. 12 giugno 2020, n. 114, nonchè, con riferimento all’art. 709 ter c.p.c., comma 2, n. 4, in tema di inadempimento degli obblighi di assistenza familiare, la sentenza n. 145 del 10 luglio 2020), ha esplicitamente richiamato le decisioni della Corte EDU e della Corte di Giustizia.
La prima decisione ha sottolineato che, nell’interpretazione di tale concetto, “si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata”.
Tali affermazioni, poi, sono state specificamente arricchite con la sentenza n. 222 del 2019, che ha operato un’accurata ed ampia disamina dei rapporti tra indagine penale e accertamento tributario e dei regimi probatori e di circolazione della prova tra i diversi ambiti.
30.2. Il nucleo del principio del ne bis in idem, dunque, fuori dall’ipotesi dell’avvio di un nuovo giudizio dopo la conclusione del primo, appare riconducibile, con peculiare riguardo alle sanzioni tributarie, al seguente enunciato: la sostanziale simultaneità del procedimento penale e di quello amministrativo-tributario, che assolvono a scopi diversi e complementari in relazione ai parametri normativi che giustificano l’esercizio dell’azione penale e attesa la pacifica circolazione probatoria tra i due giudizi del materiale ritualmente prodotto (v. Cass. n. 17258 del 27/06/2019; Cass. n. 28174 del 24/11/2017; parallelamente nel giudizio penale v. Cass. pen. 50127 del 27/09/2018), non osta alla irrogazione di una duplice sanzione (penale e tributaria), ferma la necessità di una valutazione, in concreto, della complessiva afflittività del cumulo sanzionatorio che deve rispondere a criteri di proporzionalità (in termini v. anche Cass. n. 7131 del 13/03/2019). …”
Infine si rileva che per la Corte Suprema “… Solo la definizione del giudizio penale è suscettibile di attivare la procedura di esecuzione ma in termini selettivi.
In particolare:
a) se la sentenza è di condanna la sanzione amministrativa resta definitivamente ineseguibile;
b) se invece la sentenza penale è favorevole al contribuente la sanzione diviene eseguibile solamente se il procedimento penale è definito “con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto”.
La locuzione impiegata dal legislatore, invero informale rispetto alle indicazioni di cui all’art. 530 c.p.p., sembra deporre nel senso che la possibilità di dare corso all’esecuzione della sanzione richieda che il fatto sussista, esclusa solo la “rilevanza penale” dello stesso.
Si può ritenere, dunque, che l’assoluzione o il proscioglimento per l’insussistenza del fatto determini, di norma, l’ineseguibilità definitiva della sanzione. In una prospettiva generale, del resto, solo in una tale ipotesi era astrattamente configurabile una potenziale frizione tra gli esiti nei diversi procedimenti, la cui composizione viene risolta nella fase ultima della concreta attuazione della misura.
Al tempo stesso, tuttavia, proprio l’impiego di una espressione atecnica e non pienamente collimante con le categorie penalistiche non può comportare l’automatica e ineludibile trasposizione delle formule assolutorie, pur di più ampia latitudine, alla fattispecie sanzionatoria amministrativa.
In via meramente esemplificativa, va rilevato che l’orientamento prevalente della Cassazione penale, con riguardo al reato di omesso versamento dell’Iva, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, reputa che la soglia di punibilità configuri “un elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che la sua mancata integrazione comporta l’assoluzione con la formula “il fatto non sussiste”” (v. Cass. pen. 35611 del 16/06/2016) e, dunque, sembra imporsi anche in una simile evenienza una valutazione in concreto, in ispecie per le eventuali evasioni al di sotto della soglia di punibilità.
In altri termini, il “fatto” va necessariamente riguardato sotto il versante naturalistico in relazione agli elementi costitutivi vuoi dell’illecito amministrativo vuoi di quello penale. …” (Cass. sentenza n. 21694 del 2020)
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