La Confindustria ha avanzato istanza di interpello al Ministero del lavoro per sapere se anche le società aventi ad oggetto la gestione di siti internet mediante l’attività cd. di crowdsourcing debbano richiedere l’autorizzazione preventiva, come previsto per le agenzie per il lavoro per l’espletamento dell’attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale.
Infatti, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 4 del Dlgs n. 276/2003, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è istituito un apposito albo (articolato in cinque sezioni) delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale. Il Ministero, verificata la sussistenza dei requisiti giuridici e finanziari previsti dalle legge, provvede a rilasciare l’autorizzazione entro sessanta giorni dalla richiesta, provvedendo contestualmente all’iscrizione delle agenzie nel predetto albo.
Ai sensi dell’art. 6 del citato decreto, inoltre, sono autorizzati allo svolgimento delle attività di intermediazione, anche (…) i gestori di siti internet a condizione che svolgano la predetta attività senza finalità di lucro e che rendano pubblici sul sito medesimo i dati identificativi del legale rappresentante (comma 1, lett.f). Ferme restando le normative regionali vigenti per specifici regimi di autorizzazione su base regionale, l’autorizzazione allo svolgimento di tali attività di intermediazione è subordinata all’interconnessione alla borsa continua nazionale del lavoro per il tramite del portale «cliclavoro», nonché al rilascio alle Regioni e al Ministero del lavoro e delle politiche sociali di ogni informazione utile relativa al monitoraggio dei fabbisogni professionali e al buon funzionamento del mercato del lavoro.
I dubbi avanzati dall’interpellante derivano dalla definizione che il legislatore fornisce, ai sensi dell’art. 2, Dlgs n. 276/2003, come modificato recentemente dal Dlgs n. 24/2012, di:
– «intermediazione»: l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, anche in relazione all’inserimento lavorativo dei disabili e dei gruppi di lavoratori svantaggiati, comprensiva tra l’altro: della raccolta dei curricula dei potenziali lavoratori; della preselezione e costituzione di relativa banca dati; della promozione e gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; dell’effettuazione, su richiesta del committente, di tutte le comunicazioni conseguenti alle assunzioni avvenute a seguito dell’attività di intermediazione; dell’orientamento professionale; della progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo (lett. b);
– «ricerca e selezione del personale»: l’attività di consulenza di direzione finalizzata alla risoluzione di una specifica esigenza dell’organizzazione committente, attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative in seno all’organizzazione medesima, su specifico incarico della stessa, e comprensiva di: analisi del contesto organizzativo dell’organizzazione committente; individuazione e definizione delle esigenze della stessa; definizione del profilo di competenze e di capacità della candidatura ideale; pianificazione e realizzazione del programma di ricerca delle candidature attraverso una pluralità di canali di reclutamento; valutazione delle candidature individuate attraverso appropriati strumenti selettivi; formazione della rosa di candidature maggiormente idonee; progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo; assistenza nella fase di inserimento dei candidati; verifica e valutazione dell’inserimento e del potenziale dei candidati (lett. c).
Pertanto, illustrati i riferimenti normativi della disciplina in materia, prima di esporre le conclusioni cui è pervenuto il Ministero, con la risposta a interpello n. 12 del 27 marzo 2013 (in Guida al Lavoro n. 15/2013, pag. 38), è opportuno evidenziare le caratteristiche peculiari dell’attività di crowdsourcing.
Il fenomeno di crowdsourcing
Il fenomeno dell’esternalizzazione od outsourcing non rappresenta una novità sotto il profilo dei modelli di organizzazione aziendale. Infatti, i datori di lavoro hanno sempre aspirato a realizzare strutture interne più leggere per garantire maggiore efficienza sia dal punto di vista economico sia per poter fruire di prestazioni lavorative ad un costo più basso senza dover sopportare gli oneri amministrativi e le garanzie di stabilità connesse alla stipulazione diretta di lavoro subordinato. Perseguendo tali interessi, si sono venute quindi a realizzare diverse costruzioni economiche/giuridiche (quali il contratto d’appalto, il trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda …).
Sulla base di tali presupposti, è necessario ricercare un corretto equilibrio tra la tutela al lavoro e diritto alla libera iniziativa economica che include altresì la libertà dell’imprenditore di gestire in piena autonomia la propria azienda scegliendo le forme e le modalità della propria organizzazione produttiva, nel rispetto delle leggi vigenti.
Tali finalità vengono riscontrate anche nel fenomeno organizzativo che, oggigiorno, risulta essere di grande attualità: il crowdsourcing. Con tale termine, che letteralmente sta a significare, crowd «folla» e outsoursing «esternalizzare una parte delle proprie attività», si intende una metodologia di collaborazione con la quale le imprese chiedono un contributo attivo alla rete (attraverso delle open call), delegando ad un insieme distribuito di persone, che si aggregano attorno ad una piattaforma web, lo sviluppo di un progetto o di una parte di un’attività di un’azienda. Vista tale definizione, si conviene che esso è cosa ben diversa dall’outsourcing , proprio in virtù del fatto che la realizzazione del progetto o la soluzione del problema viene esternalizzata ad un gruppo indefinito di persone enon ad uno specifico soggetto.
Si tratta di una Co-creazione del brand (come sostenuto anche dal marketing classico), una possibilità aperta anche alla Co-innovazione, nel caso in cui l’azienda si rivolga a segmenti specifici di clienti/utenti. Anche per il mercato del lavoro, il crowdsourcing rappresenta un paradigma innovativo che offre la possibilità ai lavoratori freelance (professionisti e dilettanti insieme) di offrire i propri servizi su un mercato completamente delocalizzato.
In buona sostanza, tale metodologia rappresenta una recente ed innovativa strategia di business aziendale che estende il modello outsourcing per attingere al tempo, al lavoro, all’intelligenza e alla capacità risolutiva di una collettività distribuita di lavoratori/collaboratori mondiali (il cd. «crowd»), tramite le tecnologie di comunicazione. In particolare, un’azienda esternalizza una parte delle proprie attività ad un vasto insieme e indefinito e distribuito di persone (il crowd), richiamate da un bando pubblico. Quindi, presupposti praticamente indispensabili per l’attività di crowdsoursing sono l’esistenza del web e di strumenti che la rete rende disponibili, in open call, attraverso dei portali.
Il modello crowdsourcing ha la sua origine e trae la sua forza da una serie di tendenze che stanno emergendo a vari livelli della società e dell’economia, soprattutto grazie alla costante evoluzione e diffusione delle Ict.
Il crowdsourcing, che nasce nel Regno Unito e in Sud America, si sta ora imponendo come uno strumento di grande potenzialità per le «aziende senza confini» (open enterprise, virtual corporation, network organisation …).
Gli studi sui progetti di crowdsourcing hanno rilevato che esistono due categorie di utenti/contribuenti: gli «heavy user» (utenti assidui) e i «casual user» (utenti occasionali), ovvero che la maggior parte del lavoro viene svolto da una piccola frazione di utenti assidui.
Le motivazioni che spingono gli utenti sono le ricompense indirette per le attività compiute: in tal senso, possono essere remunerazioni pecuniarie, ma anche essere rappresentate dall’utilità del prodotto o del servizio per l’utente che vi contribuisce. Possono inoltre esservi ricompense non immediate ma che producono vantaggi futuri, come la crescita delle abilità professionali o maggiori possibilità di carriera.
Da un punto di vista remunerativo, le attività si distinguono in crowdsoursing:
– non remunerato, le aziende che si avvalgono di tale attività possono impiegare unicamente motivazioni extramonetarie per attivare i lavoratori/collaboratori: quali ad esempio, senso di appartenenza ad una comunità (on line), costruzione di una reputazione all’interno di tale comunità, autostima e soddisfazione per la risoluzione di sfide/problemi);
– remunerazione minima: solitamente vengono ricompensati con pochi soldi i singoli compiti eseguiti;
– remunerazione competitiva (a premio): in questa modalità – solitamente ristretta alle attività creative – i lavoratori sono in competizione tra di loro per un premio, e solo i vincitori vengono remunerati;
– remunerato con mark-up, provvigione sulle vendite o simili: con tale modalità, i lavoratori non vengono ricompensati direttamente per il loro lavoro ma solo in relazione alle vendite risultanti del prodotto che hanno disegnato;
– remunerato in relazione alle ore lavorative: in tal caso, vi è la diretta remunerazione oraria del lavoro eseguito. Vengono comunque remunerate solo le ore effettive di lavoro impiegate per il compito affidato e non alcun eventuale tempo extra.
I benefici per l’impresa
In base agli studi effettuati, i benefici più apparenti del crowdsourcing per un’impresa sono collegati ai minor costi, sia diretti che indiretti e gestionali: inoltre, poiché i compiti non sono delegati ad una singola impresa – come nel normale outsourcing – viene ridotto il rischio di dipendenza da impresa. Vi sono ancora i vantaggi derivanti dalla fluidità e facilità di gestione della forza lavoro e i benefici generali apportati all’immagine aziendale.
Si può quindi parlare di benefici innovativi: con il crowdsourcing è possibile sfruttare una forza lavoro di dimensione vasta e totalmente dinamica, attingendo a talenti non presenti nell’azienda, il tutto in modalità, come si usa dire:
– scalabile (quanto ne serve, senza limiti minimi o massimi);
– «on-demand» (solo su richiesta); e
– «just-in-time» (al momento in cui serve).
In tal modo, si può ottenere un elevato livello di innovazione sfruttando risorse intellettuali esterne, con una migliore allocazione delle risorse umane: ciò senza dover effettuare selezioni di personale o complesse contrattazioni. Oltre ad offrire possibilità totalmente nuove, questi fattori riducono quindi una tipologia di costi di transazione: i bargaining costs.
I benefici per il lavoratore
Per quanto riguarda i benefici del crowdsourcing per il lavoratore, si possono distinguere in tre principali gruppi: ambientali , psicologici e sociali.
Nei primi rientra sicuramente:
– la libertà di luogo: il lavoratore in crowdsourcing può lavorare da casa o da qualunque altro luogo, sotto tale profilo rientra nella particolare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa del telelavoro. Ciò è sicuramente un vantaggio per la maggior parte dei casi, ma è di fondamentale importanza per alcune categorie di persone che altrimenti rimarrebbero fuori dal mercato del lavoro;
– la libertà di tempo: è il lavoratore a gestire in maniera autonoma le proprie ore lavorative, e ciò permette agli utenti di impiegare con il crowdsourcing il loro tempo libero oppure di dedicare ad esso un periodo di inattività professionale;
– la facilità d’entrata: vengono meno quelle barriere che nella maggior parte dei casi si riscontrano, non vi è un colloquio e non servono credenziali; la ricerca del lavoro è svolta completamente on line e non vi sono ragioni di temere di essere discriminati per la propria età, sesso od origine etnica.
Tra i benefici psicologici, vi è:
– la selezione del lavoro: il lavoratore può scegliere autonomamente quali compiti affrontare e quali ignorare, dedicandosi a quelli più adatti alle proprie abilità, attitudini o gusti;
– mancanza di controllo diretto: il lavoratore ha un minore stress lavorativo, mancando – o comunque percependo in modo ridotto – il controllo diretto dei superiori. Tale controllo infatti può avvenire ex post, valutando il risultato, il progetto finale.
Infine, tra i benefici sociali si annovera:
– l’appartenenza: il lavoratore è membro partecipe di una comunità e non un semplice dipendente salariato;
– la facilità d’uscita: il lavoratore è libero di decidere di non far parte più dell’attività senza ripercussioni con la possibilità di rientrare nel sistema.
Limiti del modello organizzativo
Evidenziati, in extrema sintesi, i vantaggi di tale modello organizzativo, è d’uopo evidenziare anche i suoi limiti .
In primis, il limite principale viene rappresentato dalla restrizione sulle tipologie di progetti che possono essere effettivamente delegati in crowdsourcing: innanzitutto, per la natura della collaborazione on line, possono essere delegati solo quei compiti la cui esecuzione possa avvenire in remoto, richiedenti minimo apprendimento e con obiettivi chiari e specifici.
Un altro limite è quello relativo alle competenze: non vi è modo di identificare a priori la possibile carenza di qualità o professionalità dei lavoratori, di avere garanzie o referenze ex ante sul livello professionale dei collaboratori.
Ancora, per la sua natura di bando pubblico, il crowdsourcing non è adatto a quei lavori in cui le informazioni da raccogliere o il progetto stesso a cui si contribuisce siano di natura segreta o confidenziale. Data l’assenza di vincoli contrattuali, altro limite è rappresentato dell’impossibilità di legare stabilmente a sé i lavoratori e quindi l’impossibilità di sfruttare la loro crescita professionale, le loro migliorate competenze. D’altra parte, l’azienda deve invece continuamente attirare l’interesse dei lavoratori, anche pianificando e valutando attentamente gli incentivi alla loro collaborazione. Inoltre, e non da ultimo, vi sono fattori di rischio relativi al monitoraggio del lavoro e dei risultati (in particolare nei casi di attività creative), necessitando un’adeguata protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Infatti, gli studi di settore sottolineano come siano tra i principali svantaggi di tali attività, i rischi derivanti dalla mancanza di controllo sul know-how generato, specialmente se non adeguatamente protetto da vincoli contrattuali sulla proprietà intellettuale.
Per il lavoratore, come sopra detto, gli svantaggi principali derivano dall’esiguità delle remunerazioni corrisposte, inadeguate a rappresentare la sua sola fonte di reddito.
Tanto premesso in linea generale, non si può nascondere che il numero di applicazioni di crowdsourcing è in continua crescita anche nel nostro Paese(1). Bisogna però affermare che il crowdsourcing è semplicemente uno strumento organizzativo come altri che deve essere considerato e valutato in uno specifico contesto.
Quindi, in quest’ottica, ad avviso di chi scrive, gli interessati a tale fenomeno, più che incentrarsi sulla domanda se il crowdsourcing sia «buono» o «utile», dovrebbero prendere in considerazione quali attività possono essere svolte in crowdsourcing, cioè se il crowdsourcing è adatto per un certo compito e quale.
Pertanto, l’auspicio rivolto alle aziende che intendano avvalersi di tale modello organizzativo, è quello di considerare attentamente i risvolti legali e, in particolare, riguardo la proprietà delle idee contribuite in crowdsourcing.
La risposta del Ministero del lavoro
Dopo aver illustrato le caratteristiche del fenomeno di crowdsourcing ed evidenziato, in extrema sintesi, in base agli studi di settore, i benefici e gli svantaggi derivanti dal ricorso a tale metodologia, si provvede ad esporre la risposta che il Ministero del lavoro ha fornito con la citata nota.
Il Ministero, in primis, ha evidenziato il quadro definitorio del crowdsourcing.
In particolare, il Ministero ha dapprima chiarito che con tale locuzione si intende individuare un «modello di business aziendale in forza del quale un’impresa affida la progettazione, ovvero la realizzazione di un determinato bene immateriale ad un insieme indefinito di persone, tra le quali possono essere annoverati volontari, intenditori del settore e freelance, interessati ad offrire i propri servizi sul mercato globale (cd. community di utenti iscritti ai siti a titolo gratuito ».
Si tratta, quindi, di un particolare sistema agevolato da strumenti disponibili sul web in open call, nonché sviluppato mediante alcuni portali presenti sulla rete internet (siti) attraverso i quali si realizza l’incontro tra domanda ed offerta dei prodotti (beni immateriali e servizi) da parte degli utenti.
A tal proposito, il Ministero ha precisato che l’identità degli utenti non rileva ai fini della scelta dei prodotti, in quanto quest’ultima si realizza esclusivamente in base alla valutazione delle caratteristiche tecniche dell’offerta.
Inoltre, sempre ad avviso del Ministero del lavoro, ulteriori elementi caratterizzanti tale attività sono la presenza di un gruppo di committenti interessati ai prodotti nonché la completa gestione a distanza dell’offerta dei prodotti stessi da parte di un soggetto terzo, di regola proprietario del sito, pagato pro quota dai committenti.
Proprio dall’analisi di tali elementi, il Ministero, in risposta al quesito avanzatogli, ha concluso come non sia necessaria l’autorizzazione preventiva di cui agli articoli 4 e 6, Dlgs n. 276/2003 per lo svolgimento dell’attività di crowdsourcing qualora quest’ultima promuova la stipulazione di contratti di natura commerciale tra i quali la compravendita o l’appalto.
In altre parole, l’attività di gestione di siti internet mediante l’attività di crowdsourcing non è in genere un’attività che rientra nell’intermediazione di lavoro in quanto finalizzata non alla conclusione di contratti di lavoro ma alla mera stipulazione di contratti di natura commerciale.
Diversamente l’autorizzazione ex articolo 4 è richiesta, ai sensi del citato articolo 2, lettera c), Dlgs n. 276/2003, nella misura in cui l’eventuale attività di consulenza di direzione si configuri quale attività di ricerca e selezione del personale «finalizzata, dunque, alla risoluzione di una specifica esigenza dell’organizzazione committente , attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative in seno all’organizzazione medesima su specifico incarico della stessa …».
Si ricorda che in passato, lo stesso Ministero, aveva rimarcato che l’attività per la quale era necessaria l’autorizzazione riguardasse non solo i lavoratori subordinati ma qualsiasi lavoratore a prescindere dalla natura del rapporto (la fattispecie riguardava agenti di commercio).
Infatti, così veniva precisato nella risposta a interpello n. 53/2009, «(…) il legislatore, utilizzando le generiche locuzioni personale e posizioni lavorative, intende quindi individuare quali destinatari dell’attività di ricerca e selezione tutti i soggetti in cerca di lavoro, in possesso delle specifiche competenze richieste dall’organizzazione committente a prescindere dalla natura subordinata, autonoma o parasubordinata del rapporto di lavoro che le parti contrattuali concorderanno di instaurare » . Pertanto, soggette al regime autorizzatorio, sono quelle attività volte alla realizzazione dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, nonché quelle che riguardassero la conclusione di contratti d’opera professionale ex articolo 2222 del codic ecivile, quando dalla stipulazione di questi contratti conseguisse un’attività prolungata in favore del committente tale da configurare la costituzione di posizioni lavorative in seno alla sua organizzazione.
In base alle conclusioni del Ministero, dunque, il crowdsourcing pur potendo rappresentare una forma di recruiting su internet, non deve però essere considerato alla stregua di una vera e propria agenzia per il lavoro, e le stesse piattaforme per il reclutamento in modalità crowdsourcing non debbono essere soggette all’autorizzazione prevista dall’articolo 6 dello stesso Dlgs n. 276/2003 con riferimento specifico all’attività di intermediazione svolta dai gestori di siti internet.
Osservazioni conclusive
Il Ministero del lavoro, in linea con lo spirito del Dlgs n. 276/2003, volto ad incrementare l’occupazione attraverso nuove tipologie contrattuali, ha delimitato i contorni del nuovo fenomeno in commento.
Pertanto, laddove le attività di tale nuovo istituto siano finalizzate – come accade in generale – alla stipulazione di contratti commerciali (e quindi con nessun potenziale impatto sui lavoratori) allora non sarà necessario richiedere alcuna autorizzazione, mentre il Ministero del lavoro ha correttamente ribadito come in relazione alla peculiarità dell’attività di ricerca e selezione che è «volta alla realizzazione dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro» sia necessario comunque un controllo preventivo (ad intendersi l’autorizzazione).
Come è noto, infatti, la necessità di un’autorizzazione ministeriale garantisce (o almeno dovrebbe garantire) la serietà, la competenza e l’affidabilità degli operatori che agiscano in tale mercato ed è pertanto opportuno che i soggetti che si muovono in tale delicato ambito (seppur in un modo innovativo – come capita nel caso del crowdsourcing) siano comunque sottoposti alle regole generali.
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