Anche nel processo tributario, come nel processo civile, le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado e non specificamente riproposte in appello si intendono rinunciate.
Il codice di procedura tributaria (D. Lgs. n. 546 del 1992) con l’articolo 56 intitolato “Questioni ed eccezioni non riproposte” dispone che “Le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della corte di giustizia tributaria di primo grado, che non sono specificamente riproposte in appello, s’intendono rinunciate“.
La sopra indicata norma è analoga all’art. 346 cod. proc. civ., a mente del quale “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.
Pertanto per vincere la presunzione di rinuncia ed estendere l’effetto devolutivo in appello alle questioni rimaste assorbite sussiste l’onere processuale di riproporle.
Sul tema la Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 25239 del 19 settembre 2024 ha precisato che “La norma dispone che la permanenza, rectius la devoluzione del contraddittorio in appello sulle questioni originariamente proposte in primo grado e rimaste assorbite dalla pronuncia di primo grado, sia subordinata a iniziativa della parte, già vittoriosa in primo grado.
In assenza di iniziativa della parte interessata (già vittoriosa in primo grado), viene meno o, comunque, non sopravvive l’effetto devolutivo dell’appello in relazione alle questioni proposte dalla parte vittoriosa e rimaste assorbite, perché l’ordinamento prefigura l’insorgenza di una presunzione di rinuncia di detta parte alla trattazione delle questioni già proposte e non trattate dal giudice di primo grado.
(…) La presunzione di rinuncia alla devoluzione in appello delle questioni assorbite viene, tuttavia, impedita da uno specifico onere processuale imposto della parte già vittoriosa, onere che viene assolto con la riproposizione delle questioni alle quali l’appellato dimostra ancora interesse alla trattazione.
Pur non essendo previste formule sacramentali per la riproposizione delle questioni rimaste assorbite, l’inserimento nell’art. 56 D.Lgs. n. 546-1992 dell’avverbio “specificamente” – come per l’analogo avverbio “espressamente” nell’art. 346 cod. proc. civ. – impone alla parte appellata, vittoriosa in primo grado, la quale chiede l’estensione dell’effetto devolutivo alle questioni assorbite, di indicare quali siano le questioni, già proposte in primo grado, per la cui trattazione persiste interesse alla trattazione in appello.
(…) Trattandosi di sopravvivenza dell’effetto devolutivo rimessa a istanza di parte appellata, onerata dell’indicazione di quali siano le questioni su cui persiste l’interesse alla trattazione, la riproposizione non può essere affidata a formule di mero stile o di contenuto generico, ma deve indicare specificamente (pur in assenza di proposizione di impugnazione incidentale), in modo chiaro e univoco, quali siano le questioni alle quali l’appellato abbia ancora interesse alla trattazione in appello.
Non è, pertanto, sufficiente il generico richiamo dell’appellato al complessivo contenuto degli atti della precedente fase processuale (Cass., Sez. V, 27 marzo 2003, n. 4625; Cass., Sez. V, 29 ottobre 2010, n. 22118; Cass., Sez. V, 20 maggio 2011, n. 11215; Cass., Sez. VI, 1 ottobre 2015, n. 19683; Cass., Sez. V, 27 novembre 2015, n. 24267; Cass, Sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 30444; Cass., Sez. VI, 18 maggio 2018, n. 12191; Cass., Sez. VI, 30 settembre 2020, n. 20815; Cass., Sez. V, 7 marzo 2023, nn. 6790, 6774), in quanto comportamento processuale inidoneo a vincere l’insorgenza della presunzione di rinuncia.
(…) Deve, pertanto, ritenersi che, al fine di vincere la presunzione di rinuncia ed estendere l’effetto devolutivo in appello alle questioni rimaste assorbite, il ricorrente abbia l’onere processuale di indicare, nell’atto di controdeduzioni entro il termine di costituzione in giudizio, quali siano le singole e specifiche questioni – tra quelle originariamente proposte – alle quali ha ancora interesse alla trattazione in appello (Cass., Sez. V, 12 dicembre 2023, n. 34775).
In assenza del tempestivo assolvimento di tale onere processuale, viene ad esistenza la presunzione di rinuncia e, conseguentemente, non può più sopravvivere la devoluzione in appello delle questioni assorbite non specificamente riproposte, in termini analoghi a una decadenza processuale.
Verificatasi tale decadenza, tale onere non può più essere assolto successivamente alla scadenza del termine per la costituzione in giudizio, né può essere surrogato dalla indicazione di tali questioni nelle successive memorie, le quali esplicano una funzione meramente illustrativa delle questioni indicate nell’atto di costituzione in giudizio (Cass., n. 34775-2023, cit.; Cass., Sez. V, 18 dicembre 2014, n. 26830).
(…)
La generica indicazione delle questioni assorbite, del tutto aspecifica, non costituisce assolvimento dell’onere di specifica individuazione delle questioni alle quali avrebbe avuto ancora interesse alla trattazione in appello, così incorrendo il ricorrente nella presunzione di rinuncia. “
La Corte Suprema con l’ordinanza n. 2573 del 2023 ha illustrato che “un principio consolidato quello secondo cui, nel processo tributario, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 c.p.c., all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione “non accolte”, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perché ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via riproposizione/rinuncia- rappresentata dall’art. 56 del detto D.Lgs. e art. 346 c.p.c., rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazione- principale o incidentale- o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno (Sez. 5, Sentenza n. 7702 del 27/03/2013; conf. Sez. 5, Sentenza n. 14534 del 06/06/2018).
In particolare, se è vero che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non è tenuta a proporre appello incidentale avverso la sentenza impugnata dalla controparte, relativamente alle eccezioni disattese o rimaste assorbite (essendo, sul punto, carente di interesse), è altrettanto vero, tuttavia, che essa ha l’onere di riproporle, in base alla disposizione normativa di cui del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 56, la quale riproduce la norma dell’art. 346 c.p.c., dettata per il processo ordinario (Sez. 5, Sentenza n. 14925 del 06/07/2011).”
Il Supremo consesso, con l’ordinanza n. 12691 del 2020, ha chiarito che ” è onere del ricorrente – al fine di dimostrare che la decisione della controversia non fosse esaurita, all’atto della decisione da parte del giudice di appello della questione astrattamente pregiudiziale – dimostrare di avere riproposto in grado di appello le singole domande e questioni pregiudicate già proposte in prime cure e non esaminate in quanto parte vittoriosa, a termini dell’art. 346 cod. proc. civ. (Cass., Sez. V, 18 dicembre 2019, n. 33580).
(…) La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non ha, difatti, l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni e questioni non accolte nella sentenza di primo grado ma non esaminate perché assorbite, ma è tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello, al fine di manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, evitando la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi del richiamato art. 346 cod. proc. civ. (Cass., Sez. Lav., 28 novembre 2016, n. 24124).
(…) Analoga disposizione si trova nel processo tributario, laddove l’art. 56 d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado e non specificamente riproposte in appello si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 cod. proc. civ., all’appellato (e non all’appellante, principale o incidentale), onerando l’appellato di riproporre le domande assorbite, nonostante l’impiego della generica espressione «non accolte» (Cass., Sez. V, 6 giugno 2018, n. 14534; Cass., Sez. V, 27 marzo 2013, n. 7702). “
Definizione del concetto di assorbimento
Il concetto di assorbimento è stato compiutamente illustrato dalla Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 10993 del 2023 in cui è stato spiegato che ” in mancanza di una definizione normativa del concetto di assorbimento, quest’ultimo lemma è stato utilizzato per designare situazioni eterogenee. Innanzitutto, si ritiene comunemente la sussistenza di un’ipotesi di assorbimento nel caso in cui la decisione sulla domanda cd. “assorbita” diviene superflua perché la parte non vi ha più interesse, avendo già con la decisione cd. “assorbente” ottenuto la tutela richiesta nel modo più pieno (ad esempio, perché è stata adottata una decisione su domanda “comprensiva” dell’altra). Ma si parla anche di assorbimento in tutte quelle ipotesi in cui, dopo la decisione cd. assorbente, non vi è più necessità di provvedere sulle altre questioni (ad es.: rigetto della impugnazione principale in rapporto alle impugnazioni incidentali condizionate), oppure non vi è più possibilità di farlo (ad es. decisione con la quale si dichiara il difetto di giurisdizione, l’incompetenza del giudice adito, l’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio). A tale ultimo proposito, deve rilevarsi che impropriamente si fa talora riferimento all’assorbimento anche nei casi di “pregiudizialità”, in cui è la stessa disciplina processuale a stabilire gli affetti della decisione pregiudiziale sulla questione “pregiudicata. Si parla, infine, di assorbimento anche nei casi in cui la decisione sulla domanda cd. assorbente comporta un implicito rigetto di altre domande (fondate ad esempio su presupposti antitetici o alternativi) (Cass. 16 maggio 2012, n. 7663, in motivazione).
Fermi tali principi, è stato anche evidenziato che tutte le ragioni di assorbimento sono riconducibili alle categorie logiche o della implicazione necessaria, tanto unilaterale quanto bilaterale (e si parla in tal caso di assorbimento improprio); o della esclusione, anche solo unilaterale, tra la domanda decisa e quella assorbita (e si parla in questo caso di assorbimento proprio (cfr. Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663); di conseguenza, mentre l’ipotesi di assorbimento improprio ricorre allorché la pronuncia sulla questione assorbente comporta di per sé una pronuncia anche sulla questione assorbita, perché questa è implicata in quella, sì che la soluzione finale della controversia non ne possa essere modificata (Cass., 14 aprile 1966, n. 945), la seconda ipotesi di assorbimento proprio ricorre allorché la decisione sulla questione assorbente faccia venir meno l’interesse delle parti ad ottenere una decisione su altra questione, poiché l’utilità della prima decisione esclude l’utilità della seconda. In questo caso tra le due questioni esiste un nesso non di implicazione, ma di esclusione (Cass., 27 dicembre 2013, n. 28663, in motivazione).
Più di recente, questa Corte ha precisato che l’assorbimento di una domanda in senso proprio ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte che, con la pronuncia sulla domanda assorbente, ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, mentre quello in senso improprio è ravvisabile quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass. 22 giugno 2022, n. 12193; Cass. 30 maggio 2018, n. 13534).
Questa Corte ha pure precisato, distinguendo tra assorbimento proprio che consegue all’accoglimento della pretesa con riguardo ad una domanda, onde viene meno l’interesse della parte a conseguire la pronuncia sulle altre domande da essa formulate e assorbimento improprio che si determina quando la decisione sulla questione assorbente preclude l’esame delle altre o ne comporta l’implicito rigetto, che la declaratoria di assorbimento “non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita anche sulle questioni assorbite” (Cass. 6 aprile 2018, n. 8571; Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663).
(…) come affermato da autorevole dottrina, le forme di assorbimento proprio sono rinvenibili quando tra le censure formulate ricorre una condizione logica di subordinazione, condizionalità o di connessione e si caratterizzano per il fatto che tra profilo assorbente e profili dichiarati assorbiti si configura un nesso di implicazione logica, per cui la questione assorbente è risolutiva di questioni ulteriori e per questo assorbibili. Nel caso di assorbimento improprio, invece, viene dichiarato l’assorbimento improprio di censure che non presentano alcun vincolo di interdipendenza logica e in cui l’accoglimento del profilo ritenuto assorbente realizza il risultato processuale cui tendeva l’atto introduttivo del giudizio.
(…)
In particolare, è stato affermato che “Nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353 del 1990 e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema decidendum” del giudizio di primo grado (Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940).
E’ stato, inoltre, precisato che, in mancanza di una norma specifica sulla forma con la quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea a evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse (Cass. 11 maggio 2009, n. 10796; Cass. 20 agosto 2004, n. 16360); tale riproposizione, tuttavia, seppur libera da forme, dev’essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice (Cass. 15 ottobre 2020, n. 22311).
Ancora è stato evidenziato che, in materia di impugnazioni, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni o le questioni superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente, in modo tale da manifestare la volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo ai sensi dell’art. 346 c.p.c. (Cass. 23 settembre 2021, n. 25840).
Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, poi, lo scrutinio in appello delle questioni (domande o eccezioni che siano) non accolte dalla sentenza di primo grado postula, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 56 una “specifica” riproposizione di esse, vale a dire un’espressa riformulazione che, sia pure per relationem, non può essere ravvisabile nel generico richiamo del complessivo contenuto di atti della precedente fase processuale. Non è sufficiente, dunque, ai fini della rituale riproposizione di una questione, che deve essere effettuata in maniera chiara e univoca, il generico quanto vacuo riferimento a tutte le difese e/o alle argomentazioni difensive prospettate nel ricorso di primo grado (cfr. Cass. 19 dicembre 2017, n. 30444; Cass. 27 novembre 2015, n. 24267; Cass. 6 luglio 2011, n. 14925; Cass. 20 ottobre 2010, n. 21506). “