La Corte di Cassazione con la sentenza n. 16415 del 28 giugno 2013 interviene in materia di licenziamento chiarendo che qualora la dipendente in gravidanza venga resa destinataria del provvedimento espulsivo, in deroga al divieto previsto dalla particolare fattispecie legata alla chiusura dell’azienda, lo stesso deve considerarsi illegittimo se l’attività produttiva prosegue per sfociare in un affitto d’azienda.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha precisato che, ferma restando l’illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro non può giustificare il suo comportamento, anche qualora dimostri un ipotetico mancato interesse della lavoratrice alla prosecuzione del rapporto. Ciò perché il provvedimento espulsivo risulta viziato in radice e non richiede alcuna manifestazione di volontà da parte del prestatore.
La vicenda ha visto protagonista una dipendente di una società a cui veniva comunicato il provvedimento di licenziamento. La lavoratrice impugnava il licenziamento inanzi al Tribunale, nella veste di giudice del lavoro, chiedendo la nullità del licenziamento intimato in periodo di gravidanza e la continuità giuridica del rapporto di lavoro con ogni conseguenza economica. Il giudice del lavoro accoglieva il ricorso della lavoratrice intimando, al datore di lavoro, la reintegrazione della lavoratrice e condanando la società al risarcimento dl danno.
La società alberghiera proponeva appello, avverso la sentenza del giudice di prime cure. Il giudice di appello rigettava il gravame proposto dal datore di lavoro confermando la sentenza di primo grado.
Il datore di lavoro proponeva ricorso alla Corte Suprema per la cassazione della Corte di Appello basandola su cinque doglianze.
Gli Ermellini, nel rigettare tutte e cinque le doglianze, affermano che “l’omessa indicazione nell’epigrafe della sentenza e nel corpo della stessa del nome di una delle parti rende nulla la sentenza quando né dallo svolgimento del processo né dai motivi della decisione sia dato desumere la sua partecipazione al giudizio, con conseguente incertezza assoluta nell’individuazione del soggetto nei cui confronti la sentenza è destinata a produrre i suoi effetti (cfr. Cass. 28.9.2012). Tuttavia, la possibilità di eccepire la nullità della pronunzia giudiziale non è indistintamente consentita ad ogni parte diversa da quella rispetto alla quale si è verificata \’ omissione, essendo tale deduzione ritenuta validamente formulabile in ipotesi particolari, nelle quali sussiste l’interesse a fare valere il vizio in questione. Ciò è stato specificamente ritenuto con riguardo alla posizione del contraddittore necessario, ritualmente evocato in giudizio, in capo al quale è pacificamente riconosciuto l’interesse a far valere con il ricorso per cassazione il vizio di nullità della sentenza derivante dalla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di altri litisconsorti necessari, ancorché egli, costituitosi nel giudizio di merito, non abbia denunziato tale situazione o sollevato al riguardo eccezioni, trattandosi di nullità non suscettibile di sanatoria né per i presenti né per gli assenti e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado (cfr. Cass. 1.7.1998 n. 6416; Cass. 19.9.2006 n. 20260; Cass. 6.11.2006 n, 23628).” In particolare i giudici di legittimità hanno evidenziato che in merito al presunto vizio motivazionale della sentenza essa attiene alla operatività della “deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza in relazione all’ipotesi, sancita dalla lettera b) del comma 3° dell’art. 2 della legge 30 dicembre 1971 n. 1204. Tale norma prevede l’esclusione del divieto suddetto per i casi di cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta. Con motivazione, immune dai vizi denunziati, la Corte territoriale ha accertato, con giudizio di fatto non censurabile nella presente sede – se non in base a rilievi idonei a denotarne l’illogicità o l’omessa valutazione di circostanze ritualmente dedotte aventi carattere di decisività – che l’azienda affittante non aveva cessato fattività.”
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