CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 giugno 2013, n. 16415
Lavoro subordinato – Licenziamento durante la gravidanza – Prosecuzione dell’attività aziendale – Legittimità – Non sussiste
Svolgimento del processo
Con sentenza del 10,4.2010, la Corte di Appello di Napoli rigettava il gravame proposto dalla s.r.l. Grand Hotel II M. avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato, in accoglimento della domanda di T. C., la nullità del licenziamento intimato alla predetta nell’aprile 1998, in periodo di gravidanza, e la continuità giuridica del rapporto di lavoro con ogni conseguenza economica, riferita alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla comunicazione del recesso fino all’aprile del 1998, poste a carico della SRL LG A – che aveva ceduto in affitto l’Hotel E. alla srl Grand Hotel M. – in solido con quest’ultima e, per il periodo successivo all’indicata data, a carico del Grand Hotel M., fino alla riammissione in servizio della lavoratrice.
In merito al motivo di gravame con il quale l’appellante società Grand Hotel M. aveva sostenuto l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2, comma 3, lett. b) della legge 1204/1971, che contemplava la facoltà di licenziare la lavoratrice madre in caso di chiusura dell’azienda, la Corte del merito osservava che l’azienda aveva continuato ad operare, sia pure limitatamente, e che quindi non poteva sostenersi la cessazione dell’attività, circostanza questa confermata dai fatto che nel marzo 1998 vi era stata cessione con stipula di contratto di affitto dell’azienda alla società appellante. Vi era poi stata comunicazione dell’intenzione della lavoratrice di riprendere il lavoro all’esito del periodo di astensione obbligatoria nell’agosto 1998, né gravava su quest’ultima l’onere di comunicare nuovamente la propria disponibilità al rientro, onde non poteva essere escluso il pagamento delle retribuzioni per il periodo successivo al termine dell’astensione obbligatoria. L’eccezione relativa alla sospensione dell’attività per i periodi dal novembre all’aprile di ogni anno, proposta dall’appellante, non aveva trovato riscontro in sede di conclusioni dell’atto di appello, sicché, secondo la Corte del merito, la stessa non doveva essere esaminata, né, d’altra parte, era stata concordata tra le parti alcuna sospensione in relazione a rapporto avviato nell’aprile 1997 ed interrotto nel settembre 1997 per gravidanza della ricorrente, per cui non poteva esservi alcuna questione di sospensione dell’obbligo retributivo. Non potevano, infine, rilevare ai fini considerati le proposte di nuove assunzioni, atteso che le stesse erano relative ad un rapporto da valere ex novo e riguardavano assunzioni a tempo determinato, laddove il rapporto che aveva interessato la T. era a tempo indeterminato, né alcuna prova era stata prodotta in relazione alla percezione, da parte della stessa, di indennità che comportassero la riduzione delle somme da corrisponderle a titolo retributivo.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la s.r.l. Gran Hotel M., affidando l’impugnazione a cinque motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste la T.C. con controricorso, laddove la s.r.l. Ischia Grandi Alberghi è rimasta intimata.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia violazione, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c. degli artt. 112 e 132 c.p.c, rilevando la nullità della sentenza, per avere omesso la Corte del merito, sia nell’intestazione, che nel corpo dell’atto, di indicare come parte processuale la s.r.l. Ischia Grandi Alberghi, costituitasi regolarmente nel giudizio di appello con comparsa di costituzione depositata in cancelleria il 24.4.2008, ed avendo ciò comportato il mancato esame delle difese formulate dalla stessa. Assume che la sentenza impugnata doveva pertanto essere cassata, con rimessione al giudice del gravame per l’esame dei motivi dedotti dall’indicata società.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c, omessa e carente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, in riferimento all’esimente di cui all’art. 2, comma 3, lett. b) della legge 1204/1971, osservando che nel mese di marzo 1998, diversamente da quanto affermato in sentenza, all’atto della cessione, l’azienda affittante non aveva alcun dipendente, essendo stati tutti licenziati, e che pertanto non poteva presumersi lo svolgimento di attività dopo il mese di ottobre 1997, dovendo ritenersi che tutte le attività fossero iniziate ad aprile 1998. A ciò doveva conseguire la valutazione di legittimità del licenziamento della lavoratrice, attesa l’erroneità del riferimento alla continuazione dell’attività.
Con il terzo motivo, la società si duole, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c, dell’ omessa e carente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, e della violazione dell’art. 115 c.p.c, sull’assunto che la Corte del merito, prescindendo dalla documentazione prodotta, ha ritenuto che non fosse significativo dell’estinzione del rapporto il mancato rientro della lavoratrice in servizio il giorno successivo alto scadere del periodo di astensione, ossia in data 17.8.1998, avendo la stessa anche presentato domanda di disoccupazione, considerando in tal modo risolto il rapporto, pur contraddittoriamente – nel mese di dicembre – avendo la stessa lavoratrice chiesto la reintegra in servizio quando il rapporto era ormai da considerare risolto. Osserva che la domanda di disoccupazione doveva ritenersi incompatibile con la volontà di ripristino del rapporto, che la Corte ha ritenuto non necessariamente da formalizzare in apposita istanza, e che, inoltre, non sono state prese in esame ulteriori circostanze relative a proposte di assunzione fatte alla Tortoricì e non accettate da quest’ultima.
Con il quarto motivo, la ricorrente deduce violazione, ai sensi dell’ art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 414, 112 e 132 c.p.c. con riguardo alla questione della sospensione del rapporto, in relazione alla quale si duole dell’erroneità della motivazione, avulsa dagli atti, per non avere valutato la Corte territoriale l’eccezione di sospensione dell’attività nel periodo ottobre – marzo, ritenendo erroneamente che la mancata riproposizione della questione nelle conclusioni fosse indice di rinunzia alla sua deduzione.
Lamenta, altresì, con il quinto motivo, vizio motivazionale con riferimento al tema dell’aliunde perceptum, deducendo anche violazione dell’art. 115 c.p.c.
Il ricorso è infondato. Il primo motivo va disatteso alla luce del rilievo che la parte che ha dedotto le violazioni procedurali è priva di interesse rispetto al chiesto accertamento.
Indubbiamente l’omessa indicazione nell’epigrafe della sentenza e nel corpo della stessa del nome di una delle parti rende nulla la sentenza quando né dallo svolgimento del processo né dai motivi della decisione sia dato desumere la sua partecipazione al giudizio, con conseguente incertezza assoluta nell’individuazione del soggetto nei cui confronti la sentenza è destinata a produrre i suoi effetti (cfr. Cass. 28.9.2012). Tuttavia, la possibilità di eccepire la nullità della pronunzia giudiziale non è indistintamente consentita ad ogni parte diversa da quella rispetto alla quale si è verificata \’ omissione, essendo tale deduzione ritenuta validamente formulabile in ipotesi particolari, nelle quali sussiste l’interesse a fare valere il vizio in questione. Ciò è stato specificamente ritenuto con riguardo alla posizione del contraddittore necessario, ritualmente evocato in giudizio, in capo al quale è pacificamente riconosciuto l’interesse a far valere con il ricorso per cassazione il vizio di nullità della sentenza derivante dalla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di altri litisconsorti necessari, ancorché egli, costituitosi nel giudizio di merito, non abbia denunziato tale situazione o sollevato al riguardo eccezioni, trattandosi di nullità non suscettibile di sanatoria né per i presenti né per gli assenti e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado (cfr. Cass. 1.7.1998 n. 6416; Cass. 19.9.2006 n. 20260; Cass. 6.11.2006 n, 23628).
A tale ipotesi non è sovrapponibile o parificabile quella verificatasi nel caso in esame, non potendo ravvisarsi analogo interesse a far valere l’omissione, posto che il contraddittorio era stato validamente instaurato anche nei confronti della parte premessa nella sentenza, in capo alla quale soltanto potrebbe ravvisarsi l’interesse all’accertamento della mancata decisione anche nei suoi confronti.
La seconda censura, con la quale si rileva un vizio motivazionale, attiene all’operatività della deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza in relazione all’ipotesi, sancita dalla lettera b) del comma 3° dell’art. 2 della legge 30 dicembre 1971 n. 1204. Tale norma prevede l’esclusione del divieto suddetto per i casi di cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta. Con motivazione, immune dai vizi denunziati, la Corte territoriale ha accertato, con giudizio di fatto non censurabile nella presente sede – se non in base a rilievi idonei a denotarne l’illogicità o l’omessa valutazione di circostanze ritualmente dedotte aventi carattere di decisività – che l’azienda affittante non aveva cessato fattività. Il licenziamento degli altri dipendenti è stato ritenuto non provato o quanto meno non significativo nella misura in cui l’appellante avrebbe inteso trarne le conseguenze volute e, a fronte della ricostruzione in fatto e diritto effettuata dal giudice del gravame, si mira a contrapporre alla stessa la propria versione dei fatti. Si tende, invero, a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che l’assunto dell’inoperatività del divieto di licenziamento poggia sulla considerazione della inidoneità dell’apprezzamento compiuto dal giudicante con riguardo alla continuazione dell’attività. In proposito deve osservarsi che, attesa la rilevanza del solo vizio di motivazione, te censure mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 n.4 cod. proc. civ., che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell”‘iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n.5 cod. proc. civ. in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né Cuna né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà delta motivazione nei termini consentiti nella presente sede, indicati dalla pronunzia di legittimità richiamata, né si riporta il testo integrale dell’atto di affitto di azienda per evidenziarne l’erroneità della valutazione compiuta dal giudicante.
Il terzo motivo presenta analoghi profili di inammissibilità, in quanto con lo stesso, da un lato, si rileva che l’iter argomentativo sarebbe viziato da omessa valutazione di documentazione prodotta, ma non si indica specificamente a quali documenti la doglianza si riferisca, né si consente di individuarne le modalità e la ritualità della produzione, e, sotto altro versante, si tenta di conferire rilievo a circostanze, quali domanda di disoccupazione presentata dalla lavoratrice, mancato immediato rientro della stessa alla scadenza del periodo di astensione, che avrebbero dovuto essere considerati come indici contrari alla volontà di ripristino del rapporto lavorativo. Sul punto è pacifico l’orientamento giurisprudenziale espresso anche in sede di legittimità, secondo cui, in tema di licenziamento nel periodo successivo al matrimonio e nel periodo di gravidanza e puerperio, il recesso non ha effetti risolutori sul rapporto, il quale giuridicamente permane, mentre l’attuazione del rapporto non si verifica per fatto addebitabile esclusivamente al datore di lavoro. Ne consegue che, una volta terminato il periodo tutelato dalla legge con il divieto di licenziamento, non vi è necessità di costituzione in mora del datore e la lavoratrice non ha l’onere di offrire la propria prestazione (cfr. Cass. 10.8.2007 n. 17606, Cass. 1.2.2006, n. 244). Non colgono nel segno, dunque, i rilievi intesi a desumere dal contegno della lavoratrice una volontà dismissiva, la cui dimostrazione non poteva essere ancorata ad elementi e circostanze con riferimento alle quali nel motivo di impugnazione non si indica se abbiano costituito oggetto del thema decidendum e comunque anche il richiamo a proposte di assunzione fatte alla Tortortci e non accettate si rivela generico, a fronte della motivazione contenuta in sentenza – non censurata con rilievi conferenti e specifici – circa la non incidenza e significatività di offerte di lavoro riferite a rapporti da valere ex novo e riferibili ad assunzioni a tempo determinato.
Il quarto motivo, riferito alla violazione degli articoli 414, 112 e 132 c.p.c. sul rilievo che erroneamente la Corte del merito aveva ritenuto rinunciata l’eccezione dedotta sulla sospensione dell’attività con incidenza sull’ammontare delle retribuzioni dovute, per non essere stata la stessa reiterata in sede di conclusioni, si fonda sull’erroneo presupposto che quanto contenuto nel ricorso fosse da ribadire nell’udienza di conclusioni. Non è questo il significato da attribuire alla motivazione, con la quale il giudice del gravame è pervenuto a ritenere non esaminabile l’eccezione sulla sospensione dell’attività per i periodi dal novembre all’aprile di ogni anno, in quanto il riferimento è alla mancanza di richiesta subordinata, nel ricorso in appello, della esclusione del diritto alle retribuzioni durante i suddetti periodi, per l’ipotesi in cui fosse stata accertata la invalidità del licenziamento, onde II motivo deve ritenersi inconferente.
In relazione all’aliunde perceptum, la Corte, con motivazione conforme ai principi operanti in tema di riduzione del risarcimento, ha rilevato che le offerte lavorative erano riferite ad assunzioni a fronte delle quali non poteva ritenersi illegittimo il rifiuto della lavoratrice ed il riferimento all’indennità di disoccupazione era relativo alla presentazione della relativa istanza, senza che se ne deducesse anche la materiale percezione, sicché le deduzione al riguardo sono del tutto infondate, oltre che generiche.
Alla stregua delle svolte argomentazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate nei confronti della parte costituita nella misura liquidata in dispositivo.
Nulla va statuito nei confronti dell’I.G.A. srl, essendo la stessa rimasta intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente ai pagamento delle spese di lite dei presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per esborsi, euro 3500, oltre accessori come per legge, nei confronti di Torturici C.. Nulla per spese nei confronti dell’I.G.A. s.r.l.
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