Corte di Cassazione sentenza n. 22129 del 25 ottobre 2011
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – SANZIONI DISCIPLINARI – CODICE DISCIPLINARE AZIENDALE – CONTENUTO – ESTREMI
massima
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Al fine del rispetto dell’art. 7 della legge n. 300/1970, il codice disciplinare aziendale non deve necessariamente contenere un’analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e, in relazione alla loro gravità, delle corrispondenti sanzioni, secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale statuale, essendo sufficiente per la sua validità che esso sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazioni, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni del singolo, e che indichi, in corrispondenza, le previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 18 luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 4 dicembre 2006 che ha rigettato la domanda di M.G., dipendente della S.P. s.p.a. in qualità di cassiere presso la sede di Via O. in Milano, intesa a far accertare l’illegittimità del licenziamento intimatogli in data 5 agosto 2005 per giusta causa, ed a condannare la società S.P. alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno. La Corte territoriale ha motivato tale sentenza ritenendo che la condotta contestata al lavoratore, e consistita nell’avere accreditato su una propria fidelity card punti conseguenti a spese compiute da terzi, con conseguente appropriazione di premi in possesso della società datrice di lavoro e destinati a premiare i clienti più assidui, rientra tra le infrazioni disciplinari previste; inoltre tale condotta è passibile di licenziamento per giusta causa in quanto, ripetuta nel tempo, lede il rapporto fiduciario rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. Il M.G. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolandolo su cinque motivi.
Resiste la S.P. con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 2119 c.c. e dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 con riferimento alla sussistenza della giusta causa del licenziamento. In particolare il ricorrente deduce che la condotta addebitata al lavoratore non configurerebbe giusta causa di licenziamento stante la lieve entità della condotta e del danno procurato all’azienda, e stante le circostanze di fatto che giustificherebbero la condotta contestata, e consistente nella diffusa prassi di consentire l’utilizzo di punti relativi a spese di terzi.
Con secondo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2104, comma 2, e 2106 c.c., e dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 in ordine al principio di certezza e predeterminazione delle sanzioni disciplinari, nonché omessa o insufficiente motivazione sulla circostanza controversa dell’assoluta incertezza della sanzione. In particolare si assume che il codice disciplinare non conterrebbe la condotta contestata né la sanzione prevista.
Con il terzo motivo si lamenta contraddittoria ed insufficiente motivazione sulle circostanze controverse della reiterazione della condotta nel tempo e della lievità del fatto, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, comma 2, e 2106 c.c., nonché dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 in ordine al principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione.
Con il quarto motivo si deduce omessa motivazione sulla circostanza controversa della tardività della contestazione.
Con il quinto motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 118 e 421 c.p.c. per omesso ordine, nonostante l’espressa domanda, di esibizione delle registrazioni di cassa relative a tutte le registrazioni della tessera nominativa del ricorrente dal giorno della sua sottoscrizione nell’anno 2002 al luglio 2005.
Il primo motivo è infondato, in quanto l’accertamento di fatto dal quale deriverebbe la tolleranza dell’azienda a condotte simili a quella in questione, e la prassi consolidata in tal senso, sono riservati al giudice di merito. Inoltre deve considerarsi che il ricorrente non ha affatto allegato la prassi dedotta nel motivo di ricorso e secondo la quale i dipendenti avevano l’usanza di raccogliere punti devoluti da terzi.
Parimenti infondato è il secondo motivo con il quale si deduce, sostanzialmente, la mancata predeterminazione della pena. A tale riguardo deve considerarsi che l’istituto invocato ha rilevo esclusivamente in sede penale, mentre in tema di illeciti disciplinari, stante la stretta affinità delle situazioni, deve valere il principio – più volte affermato in tema di norme penali incriminatrici “a forma libera” – per il quale la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione sono validamente affidate a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice (nella specie, quello disciplinare) opera (Cass. 3 maggio 2005 n. 9097). Al fine del rispetto delle prescrizioni contenute nell’art. 7 dello statuto dei lavoratori il codice disciplinare aziendale non necessariamente deve contenere un’analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e, in relazione alla loro gravità, delle corrispondenti sanzioni secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale statuale, essendo invece sufficiente per la sua validità che esso sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazioni, sia pur dandone una nozione schematica e non dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni del singolo e che indichi, in corrispondenza, le previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze.
È invece fondato il terzo motivo relativo alla proporzionalità della sanzione. Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 o all’art. 2106 c.c., che dettano tipiche “norme elastiche”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca (Cass. 13 dicembre 2010 n. 25144). Nel caso in esame la Corte territoriale, al fine di giudicare la proporzionalità della sanzione, ha omesso ogni considerazione riguardo alla graduazione della pena, limitandosi ad affermare la sussistenza della fattispecie disciplinare.
Il quarto motivo è infondato in quanto il ricorrente non ha indicato le circostanze per le quali la contestazione disciplinare sarebbe tardiva, né è consentito nel giudizio di legittimità un accertamento di fatto al fine di verificare la circostanza addotta dal ricorrente.
Il quinto motivo è inammissibile per l’assoluta carenza della formulazione del quesito di cui all’art. 366 bis c.p.c.
La sentenza impugnata va dunque cassata con riferimento al terzo motivo, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che, adeguandosi a quanto affermato più sopra, dovrà verificare la proporzionalità della sanzione con particolare riferimento alla graduazione delle sanzioni previste dal contratto di lavoro.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri; Cassa l’impugnata sentenza in relazione alla censura accolta e, rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma il 29 settembre 2011.
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