CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 gennaio 2017, n. 796
Infortunio sul lavoro – Onere della prova – Timbratura badge
Svolgimento del processo
1. – La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 7 gennaio 2014, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato il 28 luglio 2010 da Poste Italiane Spa nei confronti di G. A., con le pronunce consequenziali.
La Corte territoriale, concordemente con il primo giudice, ha ritenuto che la società, che aveva contestato al proprio dipendente di aver falsamente dichiarato di aver subito un infortunio sul lavoro mentre scendeva da un bus di servizio, non avesse dato prova dell’addebito; quanto alla seconda contestazione disciplinare, secondo cui in data 8 giugno 2010 il collega P. avrebbe timbrato in luogo dell’A., la Corte ha ritenuto che il fatto “anche a ritenerlo effettivo, dal momento che è stato negato dal lavoratore e non risulta fornita alcuna prova dello stesso, da parte della società, sia consistito, come già ritenuto dal Tribunale, in una mera irregolarità, dal momento che l’A. era comunque presente in servizio quel giorno”.
2. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Poste Italiane Spa con due motivi. Ha resistito con controricorso G. A..
Motivi della decisione
3. – Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.
4. – Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo che, in relazione alla denuncia di infortunio ritenuta fraudolenta dalla società, la Corte di Appello, nella valutazione delle prove offerte da Poste Italiane Spa, avrebbe “omesso di considerare elementi decisivi”.
La censura è inammissibile perché, nonostante il formale riferimento anche alla violazione di norme di diritto, nella sostanza ci si duole della “valutazione delle prove” effettuata dai giudici cui compete il sovrano accertamento del merito, travalicando i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., applicabile alla fattispecie, come interpretato da Cass. SS.UU. n. 8054 del 2014.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 I. n. 604 del 1966 in relazione al secondo comportamento addebitato all’A., assumendo che la circostanza di essere fisicamente in azienda ma formalmente in pausa pranzo, come attestato mediante l’utilizzo del badge da parte di altro soggetto, rappresenterebbe comunque una condotta fraudolenta di gravità tale da giustificare il licenziamento.
Anche tale motivo deve essere respinto perché, oltre a non tenere conto che nella sentenza risulta che la Corte territoriale ha ritenuto “non fornita la prova” di tale addebito (con affermazione che non risulta adeguatamente censurata dalla società ricorrente), comunque la valutazione di gravità è stata di certo effettuata dal giudice del merito cui compete e non è sindacabile in questa sede di legittimità.
5. – Pertanto il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso per cassazione risulta nella specie proposto in data 7 luglio 2014 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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