CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 19180 depositata il 28 settembre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – SICUREZZA SUL LAVORO – MOBBING – RISARCIMENTO DEL DANNO – ONERE DELLA PROVA – COMPORTAMENTI DI NATURA ASSERITAMENTE VESSATORIA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Roma notificato in data 29.1.2003 F.F., dipendente della BANCA A.P.V. spa, addetto al Servizio di Prevenzione e Protezione, agiva nei confronti del datore di lavoro lamentando di essere stato oggetto di condotte mobbizzanti da parte di un dirigente della Banca, architetto E., responsabile del servizio, dal settembre 2000 al giugno 2002, epoca delle dimissioni dell’E., concretizzatesi nella sottrazione delle mansioni, nella privazione degli strumenti di lavoro, nella eliminazione dalla lista dei docenti dei corsi di formazione ed aggiornamento professionale, nel mancato avanzamento in carriera, nella sottoposizione a soprusi e derisioni. Chiedeva accertarsi la responsabilità della Banca ai sensi degli articoli 2043 e 2087 cc. e condannarsi I’istituto al risarcimento dei danni, in misura di € 500mila oltre accessori.
Il Giudice del Lavoro, con sentenza del 23.11.2006/15.3.2007 (Nr. 4982/07), accoglieva parzialmente la domanda.
Proponeva appello il F., contestando il mancato riconoscimento di alcune voci di danno e la quantificazione della voci di danno (danno biologico, all’immagine ed alla reputazione professionale) riconosciute.
La banca M.P.S. spa, già BANCA A. spa, proponeva appello incidentale, chiedendo il rigetto integrale della domanda.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 18 novembre 2011- 17 gennaio 2012 (nr. 8752/2011), rigettava l’appello principale ed, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, riduceva la condanna della Banca ad €. 7.162 oltre accessori.
La Corte territoriale preliminarmente riteneva non provata la esistenza del mobbing, per la mancata acquisizione della prova sia della molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio sia dell’intento persecutorio.
Quanto alla privazione delle mansioni, riteneva accertata (con la escussione dei testi, tra i quali particolarmente attendibile il teste L.S.) la esistenza di un periodo di stasi lavorativa dell’intero ufficio dall’agosto 2000 all’agosto 2001, in concomitanza con la fusione della B.N.A. nella Banca A., durante il quale il F. sì era occupato solo della formazione e non anche degli impianti di sicurezza per il rumore.
Erano invece sforniti di prova la lamentata cancellazione dall’elenco dei docenti (elenco del quale i testi avevano escluso l’esistenza), l’arresto di carriera (in quanto nel periodo della fusione nessuno degli addetti allo stesso ufficio aveva avuto avanzamenti in carriera), la sottrazione degli strumenti di lavoro (che erano in dotazione all’ufficio e non alla persona del F.).
Doveva ritenersi integrato, dunque, unicamente il demansionamento per privazione delle mansioni, giacché la realizzazione della fusione non escludeva la integrazione della fattispecie di cui all’articolo 2103 cc.
Da ciò derivava la condanna della banca a risarcire il danno biologico, in misura dell’8% di invalidità permanente, come dalla ctu svolta nel primo grado .
Non poteva essere riconosciuto il rimborso delle spese mediche, in quanto la relativa domanda era stata formulata per la prima volta in appello; del pari era nuova la eccezione del difetto di legittimazione passiva, sollevata dalla banca soltanto con l’appello incidentale.
L’appello incidentale andava accolto in ordine alle altre voci di danno liquidate nella sentenza impugnata, per carenza dì allegazioni nel ricorso introduttivo del giudizio; le affermazioni contenute in ricorso in ordine al verificarsi di danni diversi da quello biologico erano assolutamente generiche ed il danno veniva fatto coincidere con l’inadempimento .
Per la cassazione della sentenza ricorre F.F., articolando un unico motivo.
Resiste con controricorso la B.M.P.S. spa, illustrato con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo il ricorrente denunzia- ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 cpc- violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 32 e 41 co. 2 C., dell’articolo 2087 cc. e della legge 300/1970 nonché- ai sensi dell’articolo 360 co. 1 nr. 5 cpc- omessa insufficiente e contraddittoria motivazione ed omesso esame di un punto decisivo delta controversia ex articolo 360 nr. 5 cpc.
Il ricorrente – richiamate diverse pronunzie questa Corte non solo in tema di mobbing ma anche di discriminazione sul luogo di lavoro – assume che la Corte territoriale si sarebbe discostata dai principi in esse espressi, basando la sua decisione sulla ritenuta insussistenza di un intento persecutorio unificante le condotte denunziate ed omettendo di valutare se alcuni dei comportamenti, pur non accomunati dal fine persecutorio, potessero essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro.
Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.
Il giudizio in Cassazione ha carattere chiuso, in quanto ancorato alla valutazione di specifiche statuizioni della sentenza alla luce di specifici motivi di impugnazione.
Il motivo neppure individua la statuizioni della sentenza rispetto alle quali si ravviserebbe il vizio censurato.
In particolare, quanto alla lamentata violazione di norme di diritto, le stesse massime di legittimità riportate in ricorso affermano il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’intento persecutorio- unificante i comportamenti lesivi- costituisce elemento costitutivo della fattispecie di mobbing (cfr: Cass. nn. 5230 del 2016; 17698 del 2014 e 18836 del 2013); a tale principio la Corte di merito si è conformata sicché sotto questo profilo il motivo di ricorso non è conferente al decisum .
Neppure si ravvisa la utilità del richiamo al principio di diritto (per cui si veda Cass. n. 18927 del 2012) secondo cui, nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito – pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio unificante le condotte (e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing) – è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati possano essere considerati di per sé vessatori e mortificanti e come tali causa di responsabilità del datore di lavoro .
Il giudice del merito si è attenuto anche tale principio ed ha ravvisato la responsabilità del datore di lavoro per demansionamento pure nella ritenuta assenza del mobbing; le richieste risarcitone sono state rigettate non sotto il profilo della assenza di inadempimento ma per la ritenuta carenza di allegazione del danno-conseguenza patito dal lavoratore.
Quanto al vizio della motivazione, il ricorrente non indica il fatto decisivo ed oggetto di contraddittorio nelle fasi di merito rispetto al quale la motivazione sarebbe omessa insufficiente e contraddittoria, come richiesto dall’articolo 360 nr. 5 cpc, nel testo vigente ratione temporis.
La norma processuale, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, prevede l‘ “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” relativamente ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (il testo previgente riferiva, invece, il medesimo vizio ad un “punto decisivo della controversia”).
I “fatti” in ordine ai quali assume rilievo il vizio di motivazione sono i “fatti principali”, ossia i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto controverso come individuati dall’art. 2697 c.c. ovvero i “fatti secondari”: in ogni caso il termine “fatto” non può considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione” , dovendo per fatto intendersi un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico, non assimilabile a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate al riguardo (Cfr. Cassazione civile, sez. trib., 08/10/2014, n. 21152).
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla refusione delle spese, che liquida in € 100 per esborsi ed €. 3.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
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