CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 luglio 2019, n. 17897
Imposte dirette – IRPEF – Accertamento – Art. 38 d.P.R. n. 600/1973 – Contenzioso tributario
Rilevato che
Con sentenza in data 6 settembre 2017 la Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la pronuncia di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da A.C. contro l’avviso di accertamento con il quale, ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n. 600/1973, era stato rettificato, ai fini IRPEF, il reddito della contribuente in relazione all’anno d’imposta 2008. Riteneva la CTR che erroneamente i giudici di primo grado, in presenza di fattori – indice di capacità contributiva (disponibilità di veicoli ed immobili), pur in difetto di prova contraria offerta dalla contribuente, avevano disposto l’annullamento dell’atto impositivo. Osservava, in particolare, il giudice di appello che la CTP, nel censurare l’accertamento perché fondato su beni nella disponibilità dell’intero nucleo famigliare ma con attribuzione del maggior reddito alla sola ricorrente, non aveva considerato che era stata detratta dal maggior reddito accertato la metà del valore dell’abitazione, posseduta al 50% dall’altro coniuge, ed era stato altresì detratto il reddito dell’unico membro del nucleo famigliare percettore di reddito, mentre non erano state offerte idonee prove circa eventuali redditi esenti, eventualmente di competenza degli altri membri della famiglia.
Avverso la suddetta sentenza, con atto del 5 marzo 2018, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale.
Considerato che
Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la CTR accolto il gravame sulla base di circostanze mai dedotte con l’atto di appello, relative all’avvenuta detrazione dal maggior reddito accertato della metà del valore dell’abitazione, in quanto posseduta al 50% dall’altro coniuge, e al reddito dell’unico membro del nucleo famigliare percettore di reddito.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha affermato che «Il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato può ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti; ne consegue che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate» (Cass. n. 22595 del 2009). Più di recente, in linea con il principio di diritto innanzi richiamato, si è precisato che «Il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione, implica unicamente il divieto, per il giudice, di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti» (Cass. n. 29200 del 2018).
Orbene, alla luce di tali principi, la sentenza impugnata non merita censura, atteso che l’Agenzia delle entrate, nel ribadire con l’atto di appello la legittimità del proprio operato, si è implicitamente riportata a tutte le ragioni e argomentazioni poste a fondamento dell’avviso di accertamento, al quale fa riferimento il passaggio motivazionale censurato dalla ricorrente.
Il secondo motivo è articolato in due censure.
Con la prima la ricorrente lamenta che la CTR abbia determinato il reddito dell’intero nucleo famigliare in violazione e falsa applicazione dell’art. 38, commi 3 e 4, d.P.R. n. 600/1973.
La censura è inammissibile, in quanto la ricorrente, sotto lo schermo di una violazione di legge, deduce in realtà un vizio motivazionale, richiedendo una riformulazione del giudizio di fatto, riservato in via esclusiva al giudice di merito. Va, difatti, rammentato che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (tra le tante, Cass. n. 9097 del 2017).
Con la seconda censura si deduce la violazione dell’art. 38, comma 7, d.P.R. n. 600/1973 in tema di contraddittorio endoprocedimentale.
La doglianza è infondata.
Posto che l’avviso di accertamento impugnato è relativo ad IRAP in relazione all’anno d’imposta 2008, va richiamato il principio di diritto affermato da Cass. n. 11283 del 2016, secondo cui «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’amministrazione finanziaria è gravata esclusivamente per i tributi «armonizzati» di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, mentre, per quelli «non armonizzati», non essendo rinvenibile, nella legislazione nazionale, una prescrizione generale, analoga a quella comunitaria, solo ove risulti specificamente sancito, come avviene per l’accertamento sintetico in virtù dell’art. 38, 7° comma, d.p.r. n. 600 del 1973, nella formulazione introdotta dall’art. 22, 1° comma, d.l. n. 78 del 2010, conv. in I. n. 122 del 2010, applicabile, però, solo dal periodo d’imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle precedenti annualità sono legittimi anche senza l’instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale».
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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