La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 22626 depositata ol 3 ottobre 2013 intervenendo in materia di licenziamento disciplinare ha statuito che la validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. Fatta eccezione per comportamenti che potrebbero integrare mere prassi per cui sorgerebbe la necessità di far conoscere che tali comportamenti siano ritenuti illegittimi.
La vicenda esaminata dalla Corte ha riguardato un lavoratore di un istituto di credito che veniva sottoposto a procedimento disciplinare venendogli addebitate varie infrazioni, tra cui cambio assegni, superamento della soglia di competenze deliberative, operatività su posizioni incagliate con rischio di illiquidità, reiterazioni di violazioni segnalate in un precedente accertamento eseguito su posizioni nominativamente indicate, acquisizione di documentazione e distinte di cassa con firme non conformi allo specimen, forzature per partite illiquide, omessa vigilanza sulla correttezza delle registrazioni “antiriciclaggio”, ed alla conclusione dello stesso veniva licenziato in tronco.
Il dipendente impugnava il provvedimento di espulsione inanzi al Tribunale, in veste di giudice del lavoro, chiedendo l’annullamento del licenziamento contestando la gravità degli addebiti e rilevando comunque che, in violazione dell’art. 7 St. Lav., l’azienda non aveva provveduto alla affissione di un codice disciplinare recante l’indicazione delle infrazioni e delle relative sanzioni. Il Tribunale, in accogliemento della domanda, ha annullato il licenziamento.
Il datore di lavoro impugnando la decisione del giudice di prime cure ricorreva alla Corte di appello che riformava la sentenza di primo grado, affermando la legittimità del licenziamento. In particolare per i giudici di territoriale la mancata affissione del codice è stata ritenuta irrilevante in quanto gli addebiti concernevano la violazione dei doveri fondamentali del direttore di filiale nonché di normative di legge.
Per la cassazione della sentenza del giudice di seconde cure, il dipendente tramite il suo difensore, proponeva ricorso, basato su sette motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini cassano la sentenza impugnata, con riferimento al primo motivo, rinviando ad altra sezione della Corte di Appello. I giudici di legittimità pur riconoscendo la validità del principio statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 14997 del 2010 hanno puntualizzato che in applicazione del suddetto principio deve ritenersi che mentre alcune condotte del direttore di filiale, quali l’accettazione distinte e documenti con firme non corrispondenti al c.d. specimen, o la mancata effettuazione delle registrazioni antiriciclaggio, ex sé, contrastano con il c.d. minimo etico o con norme penali, altre, come nel caso di specie, connesse alle possibili modalità di applicazione di alcuni istituti bancari, ad es. con riguardo ai termini di valutazione del rischio di illiquidità, possono integrare o collidere con mere prassi, non integranti usi normativi o negoziali, variabili nel tempo in ragione di congiunture economiche e di mercato, assunte dall’Istituto di credito, con la conseguente necessità della conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l’affissione del codice disciplinare.
Attesa la illegittimità delle contestazioni relative a condotte non contrarie al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, mosse pur in assenza dell’affissione del codice disciplinare – ha concluso la Corte – spetta, quindi, al giudice di merito qualificare le stesse, e valutare, se le restanti contestazioni integrino o meno, di per sé, per la gravità dell’inadempimento, giusta causa di licenziamento.
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