CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2014, n. 1812
Evasione Iva – Reverse charge – Irrilevanza
Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale per il Riesame, in parziale accoglimento dell’istanza difensiva, ha ridotto l’ammontare dell’importo, sino alla concorrenza del quale, era stato disposto il sequestro preventivo di beni immobili e partecipazioni azionarie nella diretta disponibilità dell’odierno ricorrente.
La misura cautelare reale per equivalente era stata disposta a suo carico in relazione alla accusa di avere, unitamente ad altri, partecipato ad una associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari, segnatamente di omessa presentazione della dichiarazioni dei redditi, e truffa aggravata in danno dell’Agenzia delle Entrate per mancato versamento dell’IVA. A capo dell’associazione e suo promotore sarebbe V.G., coadiuvato dal B. e da altri soggetti indagati tra i quali V. A., padre di G.. In particolare, poi B. avrebbe avuto il compito specifico di reclutare persone da utilizzare come prestanome nella qualità di rappresentanti legali delle società che venivano interposte nei fittizi passaggi delle merci.
Secondo l’accusa, si sarebbe al cospetto di un duplice sistema fraudolento finalizzato alla evasione dell’IVA, posto in essere (il primo) mediante la creazione di società cosiddette “cartiere” che restavano debitrici nei confronti dell’Erario del pagamento della imposta, fittiziamente corrisposta alle prime dalle società acquirenti mentre (il secondo) sarebbe stato realizzato facendo transitare la merce per la Repubblica di San Marino, ove non veniva pagata l’imposta, in quanto merce in transito, e facendo successivamente figurare, mediante l’alterazione delle fatture, che l’imposta era stata pagata nello Stato estero. Anche in questo caso, vi sarebbe stata, comunque, la interposizione fittizia di società cartiere tra le venditrici e le società destinatarie della merce.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’indagato ha proposto ricorso, tramite difensore deducendo:
1) violazione di legge in quanto l’ordinanza impositiva della misura cautelare non spiega, rispetto alla data del commesso reato, come sia stato determinato l’ammontare.
Si ricorda, in proposito, che l’ordinanza riferisce che la richiesta del P.M. era stata limitata fino alla concorrenza delle imposte concretamente evase negli anni 2008 e 2009. Si ricorda, perciò che essendo indubbia la natura sanzionatoria del sequestro preventivo per equivalente, esso non può essere applicato con efficacia retroattiva. Invece, il modo di procedere del G.i.p. è stato indifferenziato;
2) violazione di legge perché l’ordinanza impugnata non valuta gli elementi a favore dell’imputato. Ed infatti, sia il G.i.p. che il Tribunale per il Riesame avrebbero ignorato del tutto la utilizzazione del c.d. sistema del “reverse charge”.
Ed infatti, secondo il ricorrente, gli obblighi di assolvimento dell’IVA gravavano sul cessionario dei beni.
Tale sistema è stato introdotto con l’art. 71 D.P.R. 633/72 ed, a seguito dell’emanazione del D.L. 223/2006 e la modifica dell’art. 17, comma 5, DPR 633/72, esso è stato generalizzato con il risultato che l’IVA viene pagata obbligatoriamente dal cessionario, come avveniva in precedenza per la Repubblica di San Marino o la Città del Vaticano.
Erroneamente, perciò, gli inquirenti hanno ritenuto che il mancato pagamento dell’IVA da parte del cessionario dovesse ricadere sul cedente.
Nella tesi difensiva, il G.I.P. di Civitavecchia ed il Tribunale del riesame hanno ricostruito la vicenda in modi diversi, ma entrambi errati: il G.I.P., senza tener conto dell’art. 71 del DPR n. 633/1972, ha affermato che le società sanmarinesi vendevano a società cartiere, che poi non pagavano l’IVA e dietro le quali vi erano V. e B.; il Tribunale del riesame ha, per parte sua, affermato che la O. e la P. vendevano in esenzione IVA per frodare il fisco e che tutta la merce era destinata alla società B & V del B.. Il Tribunale, così facendo, non si sarebbe nemmeno reso conto che, tra le società cartiere, vi erano note società commerciali come B., la G. o G..
Si tratta di due ricostruzioni alternative che non consentono agli imputati di difendersi adeguatamente, essendo cambiata la stessa ragione della interposizione.
Si sottolinea, per contro, che, dalle risultanze delle indagini riportate nell’ordinanza genetica della misura, emerge che le società O. e P. hanno utilizzato il sistema previsto dal citato art. 71 per l’acquisto e la vendita delle merci in esenzione con il “reverse charge” e che gli amministratori delle predette società, che si sono succeduti nel tempo, vale a dire, A. V., padre di V.G., nonché G.R., hanno correttamente osservato la normativa fiscale italiana e sanmarinese.
Né, si soggiunge, il dolo specifico del reato può essere desunto – come invece avvenuto – dal mancato ritrovamento delle scritture contabili delle società acquirenti, ritenute cartiere.
Peraltro – si sottolinea – alla B & V S.r.l. del B., sono state sequestrate tutte le scritture contabili, regolarmente tenute, dalle quali era emerso che la stessa aveva acquistato, dalle società cartiere, merci per un valore di nove milioni di euro sul fatturato complessivo di oltre venti milioni.
Di tale elemento favorevole non si è tenuto conto nell’ordinanza in violazione dell’art. 292 c. p. p..
3) violazione degli artt. 407. comma 3. 406. comma 8. 350 c.d.p.. Si deduce, infatti, che la maggior parte degli atti di indagine sono stati compiuti successivamente alla richiesta di proroga, che non risulta essersi mai perfezionata, con la conseguente inutilizzabilità degli stessi anche a norma dell’art. 406, comma 8 c.p.p.. Si fa notare che la stessa richiesta del P.M. di misure cautelari fa espresso riferimento alle più pregnanti indagini effettuate successivamente alla richiesta di proroga, analiticamente indicate, e, tra queste ultime, figurano le dichiarazioni rese da soggetti che dovevano essere sentiti quali indagati come ad esempio, B. che, pur essendo già indagato, è stato sentito nel corso delle indagini in qualità di teste, senza la presenza di un difensore, salvo assumere successivamente la veste di compartecipe del sodalizio criminoso.
A tal fine, si ricorda che il procedimento penale era sorto inizialmente presso la Procura della Repubblica di Paola, che aveva proceduto al compimento di atti di perquisizione e sequestro presso gli indagati; l’incarto era, poi, è stato, poi, trasmesso per competenza territoriale alla Procura di Civitavecchia, che aveva proceduto ad una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato nel 2009;
4) mancanza di “sufficienti indizi di colpevolezza” per il reato di cui all’art. 416 c.p.. Si evidenzia che il sig. V. ed il sig. B. sono stati coinvolti solo sulla base delle dichiarazioni del B. e per la carica da essi rivestita non certo perché raggiunti da alcun indizio di colpevolezza. In ogni caso, in relazione al reato associativo, si eccepisce il difetto di competenza del Tribunale di Civitavecchia a favore di quello di Roma.
Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.
Considerato in diritto
3. Motivi della decisione – Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
3.1. Quanto al primo motivo, a parte una certa genericità della critica, si deve osservare che la stessa è priva di pregio dal momento che l’ampia e motivata ordinanza impugnata ha dettagliatamente replicato sul punto facendo notare (f. 7) che è, innanzitutto, pacifico che il G.i.p., ha, in adesione a quanto richiestogli dal P.M., limitato il sequestro fino alla concorrenza delle sole imposte concretamente evase dall’anno di imposta 2008 «nel pieno rispetto, quindi, della disposizione normativa di cui all’art. 1, comma 143 della legge 244/2007, la quale, essendo entrata in vigore il gennaio 2008, non avrebbe consentito di computare nel valore complessivo da sottoporre a sequestro anche gli importi delle imposte evase negli anni precedenti al 2008».
Ciò premesso, il Tribunale ha anche spiegato in modo chiaro e corretto che la determinazione del valore complessivo sul quale è stato disposto il vincolo reale sui beni del B. (pari a 9.064.321,92) è avvenuto tramite la «sommatoria degli importi relativi alle singole imposte evase (IRES, IVA ed IRAP) come ricostruiti nei prospetti redatti nella informativa della Guardia di Finanza e specificamente indicati per ogni singolo capo di imputazione, ciascuno dei quali è riferibile alla singola società fittizia coinvolta». L’ordinanza si diffonde, quindi ulteriormente in una illustrazione specifica degli importi evasi società per società e conclude giustamente – anche in considerazione della presente sede cautelare (fase nella quale la contestazione e le indagini sono ancora “fluide”) – con la considerazione che per quel che attiene alla «correttezza estimativa di tali importi», non solo, vi è una sostanziale assenza di contestazioni specifiche da parte del ricorrente ma che, in ogni caso, proprio per l’assenza (conseguente a loro occultamento o distruzione) delle scritture contabili deve ritenersi «legittimo ricavare l’imponibile dalla sommatoria degli importi delle fatture rinvenute» (f. s) ottenendo, poi, da tale imponibile gli importi delle singole imposte evase previa detrazione dell’IRAP (come, per l’appunto effettuato dallo stesso Tribunale per il Riesame) a dimostrazione della puntualità del ragionamento svolto.
3.2. La questione del “reverse charge” sviluppata con ampiezza di argomenti nel secondo motivo, all’apparenza, non affrontato nel provvedimento impugnato, è, in realtà, stato oggetto di vasta disamina, da parte dello stesso Tribunale, nell’ambito dei procedimenti paralleli (n. 894/13 e n. 896/13), relativi alla misura cautelare personale alle cui ordinanze viene fatto esplicito richiamo ricettizio (ff. 3 e 4). Vi è da dire che la giustezza di quella decisione è confortata dalla sentenza (n. 42365/13) con la quale questa S.C., in data 18.9.13, ha confermato integralmente rigettando i ricorsi di B. e V.G. contro l’ordinanza con la quale il Tribunale per il Riesame aveva, comunque, sostituito la custodia in carcere con gli arresti domiciliari nei confronti dei predetti indagati proprio per le accuse che sona alla base del provvedimento cautelare reale qui in discussione. E’, quindi, possibile rinvenire, in tale ultimo provvedimento, una dettagliata replica alla (praticamente speculare) questione qui posta in tema di “reverse charge”. L’argomento viene, infatti, recisamente, confutato da questa S.C. con l’affermazione che il teorema difensivo (secondo cui, per le importazioni da San Marino, il pagamento dell’IVA dovesse avvenire necessariamente con il sistema del reverse change) «non trova fondamento nel sistema normativo che viene concretamente applicato nei rapporti con la predetta Repubblica extracomunitaria». Nella sentenza di questa stessa sezione, infatti, si precisa che, con D.M. 24.12.93, il pagamento dell’IVA per le merci da, e verso, la Repubblica di San Marino è stato modellato sul sistema vigente per le merci intracomunitarie.
Su questa e sulle restanti questioni di merito qui sollevate dal ricorrente (anche in punto di dolo) non si può, quindi, che richiamare la citata sentenza di questa S.C. soggiungendosi che, nello specifico, le argomentazioni difensive – come sopra riassunte – sono palesemente espressive di un tentativo di ricostruire la vicenda sotto un’ottica differente. Il che, oltre a rappresentare uno sconfinamento dei limiti di questa Corte (che è giudice di legittimità e non di merito), è anche un fuor d’opera per il fatto che la presente sede ha ad oggetto un provvedimento cautelare reale che – come noto (per tutte, 29.5.os, ivanov, Rv. 239692) può essere oggetto di ricorso in cassazione solo per violazione di legge, «in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in judicando” sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (conf. s.u., 29 maggio 2008 n. 25933, Malgioglio, non massi mata sul punto).
Come visto, però, tale non è il caso in esame ove, al contrario, si rinviene una motivazione più che accurata (sia in termini diretti che per relationem con richiamo ad altro analogo provvedimento in materia personale) sì da risultare evidente che l’unica censura che il ricorrente qui punta a muovere è l’espressione di un dissenso verso il contenuto della decisione stessa. La qual cosa, di certo, non è inquadrabile in alcun vizio impugnabile di per sé.
3.3. Nell’affrontare la doglianza contenuta nel terzo motivo di ricorso, non si può fare a meno di evidenziarne, in primo luogo, la identità di contenuti con la questione sollevata dinanzi al Tribunale per il Riesame (sia in questa sede che in quella personale – come evincibile dalla già citata sentenza di questa sezione) e che ha già trovato attenzione e corretta risposta. A tale stregua, si dovrebbe concludere, addirittura per una inammissibilità di un motivo che è, sostanzialmente, apparente perché non contiene critiche puntuali alla replica dei giudici di merito ma è meramente reiterativa della medesima questione. Il tutto, peraltro, viene portato all’attenzione di questa S.C. in modo alquanto “confuso” insieme ad una (qui) non esplicitata eccezione di incompetenza territoriale.
Il vero è che la risposta che il Tribunale ha fornito in relazione alla eccezione di inutilizzabilità di alcuni atti, si segnala per precisione e completezza. Per quel che attiene, infatti, alla informativa della G.d.F. del 5.11.11 il Tribunale ricorda i provvedimenti di proroga e le loro date sottolineando che essi rientrano nella data del 10.5.10 (data di deposito della richiesta di proroga da parte del p.m.); peraltro, essendo ancora in corso le indagini e le notifiche degli avvisi (preliminari alla emissione del decreto di proroga), ogni valutazione sulla eventuale inutilizzabilità delle indagini già compiute è sicuramente intempestiva, fermo restando che l’informativa e le sommarie informazioni testimoniali di cui si assume la inutilizzabilità sono atti dei quali si potrebbe fare a meno «senza intaccare la robusta provvista indiziaria relativa alle incolpazioni per cui si procede» (f. 4).
3.4. La quarta censura qui mossa è decisamente infondata perché errata. Con essa, infatti (a definitiva riprova del fatto che il presente ricorso appare essere una mera reiterazione di quello precedentemente predisposto avverso la misura cautelare personale) si solleva un tema, degli “indizi di colpevolezza” decisamente fuori luogo in materia di sequestro. Come bene ricordato dal Tribunale (f. e), per il sequestro preventivo funzionale alla confisca, non occorre la prova della sussistenza di indizi di colpevolezza né della loro gravità essendo sufficiente accertare la confiscabilità dei beni una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato (s.u., Montella, n. 920/03; SEZ. II, 16.2.06, n. 9829). Ad ogni buon conto, anche in questo caso, per brevità, si deve fare riferimento alla chiara affermazione contenuta nella sentenza di questa sezione del 18.9.13 secondo cui vi sono «elementi pienamente giustificativi della ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine a tutti i reati ascritti agli imputati» e, a fortiori deve qui soggiungersi che sussiste il fumus dei reati ipotizzati tra i quali quello associativo che si cerca di porre in discussione con il motivo in esame. Come ampiamente illustrato sia nell’ordinanza impugnata che nella sentenza di questa S.C. (che ha deciso in materia personale) il sistema instaurato dal ricorrente e dai suoi correi aveva dato vita ad uno schema fraudolento con la creazione di società “cartiere” di cui si è ampiamente constatata la “sostanziale” inesistenza.
Generica e, come tale inammissibile è, infine la doglianza relativa alla presunta incompetenza del Tribunale di Civitavecchia; senza tralasciare di sottolineare che la questione è stata già brillantemente risolta, sia dall’ordinanza impugnata (f. 3) che da questa S.C. nella citata sentenza n. 42365/13 (f. s) cui si rinvia per brevità.
Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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