CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 dicembre 2017, n. 30607
Licenziamento per giusta causa – Assenza per malattia – Attività lavorativa a favore di altro esercizio commerciale – Intempestività dell’impugnazione – Non sussiste – Telegramma non sottoscritto ma consegnato all’ufficio postale dal lavoratore – Principio della proporzionalità tra sanzione del licenziamento e fatti commessi – Diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare – Necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti – Possibilità di individuare anche solo in alcuni o in uno dei fatti il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva
Fatti di causa
1. In data 17.1.1998 la spa D., poi incorporata nella G. spa, licenziò per giusta causa il dipendente S.S. per avere prestato attività lavorativa a favore di altro esercizio commerciale nel periodo in cui era assente per malattia.
2. Impugnato il provvedimento dal lavoratore, con ricorso del 2.11.1998, il Tribunale di Napoli con sentenza del 21.12.99 rigettò la domanda per mancata dimostrazione circa la tempestività dell’impugnazione del licenziamento in quanto il documento prodotto, originale del telegramma, non risultava sottoscritto dal ricorrente.
3. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 25.3.2004, rigettò l’appello del S..
4. Su ricorso di quest’ultimo la Corte di Cassazione, con pronuncia del 6.10.2008, cassò con rinvio la decisione osservando che la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare, ai fini di valutare la tempestività dell’impugnazione, se fosse stato il lavoratore ad avere consegnato personalmente l’originale del telegramma o fatto consegnare, da altri soggetti da lui incaricati, il detto originale.
5. La Corte distrettuale, adita in sede di rinvio, con sentenza del 4.2.2010 rigettò l’appello rilevando che solo in sede di gravame, e quindi tardivamente, il S. aveva chiesto di provare per testi le suddette circostanze mentre nel ricorso introduttivo non era stato allegato alcun elemento relativo alle circostanze che chiedeva di provare in appello.
6. Proposto nuovamente ricorso la Suprema Corte, con sentenza n. 3186/2012, cassò nuovamente la decisione di appello ritenendo che il giudice di rinvio non avrebbe potuto rifiutare l’accertamento demandatogli ed avrebbe dovuto, quindi, attenersi al principio di diritto affermato in sede di legittimità.
7. Riassunto il giudizio ad istanza del S. ed espletata l’attività istruttoria, la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 9249/2014, respinse l’originario appello proposto dal dipendente, sia pure con diversa motivazione, avverso la pronuncia di rigetto, emessa dal Tribunale della stessa città del 21.12.99, della richiesta di declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa.
8. A fondamento della decisione la Corte distrettuale rilevò che: a) dalla prova per testi era emerso che il telegramma, pur non essendo stato sottoscritto dal S., comunque era stato da quest’ultimo personalmente consegnato all’ufficio postale dal quale era stato spedito alla società datrice di lavoro, per cui la contestazione del recesso fu tempestiva ed idonea ad impedire la decadenza dall’impugnazione; b) dal dato testuale della lettera di contestazione, si evinceva (in particolare dall’inciso “attività incompatibile con il preteso stato di malattia”) che la condotta contestata era quella di avere il S. svolto presso terzi attività lavorativa (la stessa di ausiliario di vendita che avrebbe dovuto svolgere presso la società datrice di lavoro) in una situazione di simulazione dello stato di malattia o, comunque, tale da comportare l’aggravamento di esso; 3) dalla documentazione prodotta e dalle risultanze istruttorie condotte in sede di rinvio era emerso che la società di lavoro avesse fornito la prova del fatto addebitato e, quindi, della giusta causa di licenziamento; 4) la condotta posta in essere dal lavoratore integrava una grave violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede nonché degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e, quindi, costituiva giusta causa di licenziamento; 5) il vincolo fiduciario, a causa di tale comportamento, era stato leso in maniera irreparabile.
9. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione S.S. affidato a tre motivi.
10. Ha resistito con controricorso la GS spa.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 1 legge n. 604/1966 e dell’art. 2119 cc, in relazione al disposto di cui agli artt. 2967 e 2729 cc perché erroneamente i giudici di seconde cure avevano ritenuto, idonei all’assolvimento dell’onere della prova, elementi i quali non potevano assurgere al rango di prova: in particolare, le relazioni dell’agenzia investigativa Security Quality Service; la denunzia presso i Carabinieri sporta il 7.1.1998 da I.P., responsabile dei servizi di sicurezza e ispettorato della società nonché la deposizione del teste G.A..
2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 132 cpc e, per altro verso, dell’art. 112 cpc, per motivazione contraddittoria e, in parte, apparente circa una violazione del principio della proporzionalità tra sanzione del licenziamento e fatti commessi, essendosi gli accertamenti investigativi riferiti a quattro giorni, quando, invece, era stata contestata la prestazione dell’attività lavorativa presso terzi per un periodo di giorni dodici.
3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione del disposto di cui agli artt. 2087 e 2110 cc, in relazione al DL n. 463/1983, assumendo che: a) in alcun modo era risultato che egli fosse guarito in data antecedente alla certificazione medica cui aveva fatto riferimento la datrice di lavoro nella lettera di contestazione; b) per il periodo di protrazione dello stato morboso il lavoratore doveva essere esonerato dalla prestazione; c) il datore di lavoro, qualora non avesse ritenuto sussistente lo stato di malattia per tutta la durata della prognosi, avrebbe dovuto rivolgersi ai competenti organi ispettivi per valutare la verifica delle condizioni di salute del lavoratore: circostanza che non era avvenuta nel caso in esame.
4. Il primo motivo è inammissibile.
5. In primo luogo, infatti, con riferimento alle dedotte violazioni di legge, difettano gli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalle disposizioni di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013 n. 16038; Cass. 28.2.2012 n. 3010).
6. In secondo luogo, l’inammissibilità consegue anche al fatto che le doglianze sono essenzialmente intese alla sollecitazione di una rivisitazione del merito della vicenda ed alla contestazione della valutazione probatoria operata dalla Corte territoriale, sostanziale il suo accertamento in fatto, di esclusiva spettanza del giudice del merito e insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011 n. 27197; Cass. 18.3.2011 n. 6288).
7. Il secondo motivo è invece infondato.
8. Giova preliminarmente richiamare il principio sancito da questa Corte, cui si intende dare seguito, secondo cui in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa idonea” a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 cc (Cass. 2.2.2009 n. 2579; Cass. n. 11674/2005; Cass. n. 19343/2007).
9. Per quanto sopra esposto non rileva, quindi, ai fini della correttezza giuridica delle argomentazioni della Corte di merito, che la valutazione sulla giusta causa sia stata limitata ai quattro giorni, oggetto degli accertamenti investigativi, mentre la contestazione aveva riguardato la prestazione di attività lavorativa presso terzi, durante lo stato di malattia, per dodici giorni di assenza.
10. In ordine, poi, alle doglianze circa la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 cpc e 112 cpc, per motivazione contraddittoria e in parte apparente sulla violazione del principio di proporzionalità tra la sanzione del licenziamento e i fatti commessi (riferiti a quattro giorni), deve rilevarsi che il vizio previsto dal citato articolo 132 cpc, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, sussiste solo quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nell’indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, rinviando genericamente e “per relationem” al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, né disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito.
11. Nella fattispecie in esame, invece, la Corte territoriale con argomentazioni logiche, coerenti e complete, ha sottolineato che la condotta posta in essere dal lavoratore, nei limiti dell’accertamento effettuato, aveva dimostrato la simulazione dello stato di malattia e, quindi, aveva integrato una grave violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede nonché degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e, conseguentemente, era idonea a ledere in maniera irreparabile il vincolo fiduciario, in quanto la società non avrebbe potuto fare alcun affidamento su un dipendente che, simulando uno stato di malattia per propri interessi personali e familiari, si era sottratto all’adempimento dei propri obblighi.
12. Si tratta di conclusioni chiare, idonee ad esprimere la ratio deciderteli e che rendono prive di fondamento le censure contenute nel motivo di ricorso.
13. Il terzo motivo è, infine, anche esso inammissibile perché le censure ivi contenute non sono pertinenti rispetto alla decisione atteso che tutte le prospettazioni del ricorrente non colgono il senso della sentenza che ha ritenuto una simulazione dello stato di malattia e, in relazione ad esso, ha rilevato la sussistenza di una giusta causa di licenziamento.
14. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
15. Al rigetto segue la condanna del ricorrente, sebbene ammesso al gratuito patrocinio, al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente atteso che l’ammissione comporta che lo Stato è tenuto a corrispondere solo le spese necessarie alla difesa della parte non abbiente (cfr. Cass. 19.6.2012 n. 10053; Cass. 31.3.2017 n. 8388), ma non si estende anche al pagamento delle spese all’altra parte risultata vittoriosa.
16. Il ricorrente, però, in quanto ammesso in cassazione al patrocinio a spese dello Stato, non è tenuto al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’art. 13 comma 1 quater DPR 30.5.2002 n. 115 (Cass. n. 18523/2014).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, la Corte dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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