CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 marzo 2018, n. 4883
Licenziamento per giusta causa – Simulazione dello stato di malattia – Intento ritorsivo della parte datoriale – Diniego di rassegnare le proprie dimissioni – Vizi prospettati come violazione di legge – Sindacato dell’accertamento di fatto condotto dal giudice del merito
Fatti di causa
La Corte d’appello di Cagliari confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva dichiarato nullo, per il suo carattere ritorsivo, il licenziamento intimato per giusta causa in data 25/9/2010 dalla I.H.C.S.G. s.r.l. nei confronti di G.M., e condannato la società alla reintegra di quest’ultimo nel posto di lavoro.
Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale, all’esito dello scrutinio del materiale probatorio acquisito, dopo aver rimarcato che il recesso datoriale era stato intimato per avere il lavoratore simulato lo stato di malattia iniziato il 4/8/2010, ha ritenuto che fosse stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo della parte datoriale avverso il diniego del M. di rassegnare le proprie dimissioni, alle quali era stato indotto dalla società, onde porre fine al rapporto di lavoro inter partes, ormai significativamente deteriorato.
Avverso tale decisione la società interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Resiste G.M. con controricorso successivamente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Il Collegio ha autorizzato la stesura di motivazione semplificata ai sensi del decreto del Primo Presidente in data 14/9/2016.
1.1. Con il primo e il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 comma 1 c.p.c. nonché dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c..
Si critica la sentenza impugnata per il malgoverno del materiale istruttorio, avendo la Corte di merito posto a fondamento della decisione in ordine alla natura ritorsiva del licenziamento, dati non acquisiti agli atti. Si deduce in particolare che l’assunto secondo cui il recesso era stato motivato da una reazione della parte aziendale al rifiuto del M. di aderire ad una proposta transazione relativa alle questioni, anche di natura economica, insorte in relazione al rapporto di lavoro inter partes, e tradottasi in una serie di condotte volte ad indurre il dipendente alle dimissioni, era smentito per tabulas. Diversamente da quanto argomentato dalla Corte, nel periodo considerato il ricorrente era stato regolarmente retribuito, come desumibile dalla documentazione versata in atti. Inoltre le testimonianze richiamate nella pronuncia a conferma della richiesta della società di restituire l’appartamento fornitogli in comodato, erano risultate smentite da diverse deposizioni testimoniali che erroneamente non erano state considerate dai giudici del gravame.
In definitiva, gli approdi ai quali era pervenuta la Corte distrettuale erano da ritenersi fondati su risultanze fattuali diverse da quelle allegate, e comunque “imprecise, e certamente non gravi e concordanti”.
2. Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 comma 1 c.c. ex art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.. Si deduce che l’intento ritorsivo sotteso al licenziamento, non sia stato in alcun modo dimostrato dal lavoratore, dovendo ritenersi del tutto inesistente se solo si considera che risultava intimato a distanza di sei mesi dal rifiuto della proposta di risoluzione del rapporto.
3. Il quarto motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 115 – 116 comma 1 c.p.c. nonché dell’art. 2110 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.. Si ribadisce che, diversamente da quanto argomentato dai giudici del gravame, lo stato patologico in cui versava il ricorrente era da ritenersi simulato. Tanto era desumibile dalla circostanza che il Manca aveva anticipato, già dieci giorni prima di assentarsi, l’intento di porsi in stato di malattia, che non poteva ritenersi dimostrata dalla documentazione fiscale prodotta.
4. I motivi, la cui trattazione congiunta è consentita dalla connessione che li connota, vanno disattesi.
Va osservato che i rilievi formulati dal ricorrente, riferiti a vizi prospettati come violazione di legge, sono volti, essenzialmente, a sindacare un accertamento di fatto condotto dal giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere dimostrata, alla stregua delle circostanze di fatto riferite dai testi escussi e dai dati documentali acquisiti agli atti, la effettività dello stato patologico in cui versava il Manca – verificata anche alla stregua della visita di controllo svolta dal medico fiscale e di certificazioni rese da istituto di cura psichiatrico – ed il carattere ritorsivo del recesso.
A tale ricostruzione il ricorrente ne contrappone una difforme, non censurando puntualmente quella effettuata in sentenza, ma proponendo una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti, peraltro senza specificamente riportare per esteso il testo dei documenti il cui contenuto sarebbe stato erroneamente valutato (vedi buste paga sottoscritte dal Manca, modelli CUD) e dai quali sarebbe desumibile l’integrale soddisfazione delle pretese di natura retributiva avanzate dal lavoratore, che smentirebbero l’assunto posto a base della pronuncia impugnata, secondo cui il mancato pagamento delle retribuzioni sarebbe stato motivato dall’intento di provocare le dimissioni del lavoratore.
La quaestio facti rilevante in causa è stata, poi, trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur pervenendo il giudice del gravame a conclusioni opposte a quelle indicate da parte ricorrente, osservandosi al riguardo che, in tema di ricorso per cassazione, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.
5. Il discrimine tra le distinte ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (vedi Cass. 11/1/2016 n. 195, Cass. 16/7/2010 n. 16698).
E l’ipotesi considerata rientra certamente nel paradigma da ultimo delineato in quanto i motivi tendono a conseguire – per il tramite della violazione dell’art. 115 c.p.c. – una rivisitazione degli approdi ermeneutici ai quali è pervenuta la Corte, che, per quanto sinora detto, si palesa inammissibile in questa sede di legittimità, anche alla luce dell’art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. nella versione di testo applicabile ratione temporis, di cui alla novella del d.l. 22/6/12 n. 83 conv. in l. 7/8/12 n. 134.
Nella interpretazione resa dai recenti arresti delle Sezioni Unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053), la disposizione va letta in un’ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Scompare, quindi, nella condivisibile opinione espressa dalla Corte, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta quello sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.
Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne, dunque, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo.
6. Applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che lo specifico iter motivazionale seguito dai giudici dell’impugnazione non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità.
A fondamento del decisum la Corte ha infatti argomentato da, un canto, che lo stato morboso in cui versava il Manca non era simulato, sulla scorta di dati obiettivi e di logiche considerazioni che muovevano dall’intento manifesto del lavoratore, di continuare nello svolgimento della attività alle dipendenze della società, così escludendosi la ricorrenza della giusta causa di licenziamento; dall’altro, che il quadro probatorio delineato era univoco nel senso di collegare l’atto di recesso datoriale, al rifiuto da parte del dipendente, di accettare una transazione delle questioni economiche inerenti al pregresso rapporto di lavoro, così configurandosi l’intento ritorsivo che lo ispirava.
In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni il ricorso è respinto.
Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio si pongono a carico della ricorrente nella misura in dispositivo liquidata.
Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell’ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente il pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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