CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 luglio 2020, n. 16182
Tributi – Acquisto simulato di beni ammortizzabili per ottenere un finanziamento pubblico – Conseguenze – Utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – Costi indeducibili
Ritenuto in fatto
D. S. S.r.l. impugnava un avviso di accertamento con il quale veniva rideterminato il reddito di impresa e recuperati a tassazione costi indeducibili con maggiori imposte Ires, Irap e Iva.
L’avviso scaturiva da un pvc emesso dalla Guardia di Finanza di Caserta la quale aveva verificato che la contribuente, nell’anno di imposta 2007, aveva annotato nelle scritture contabili fatture passive per l’acquisto di beni ammortizzabili relativi ad operazioni inesistenti. La contribuente impugnava l’avviso davanti la Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, la quale, con sentenza n. 509/7/2011 accoglieva il ricorso.
L’Agenzia delle Entrate proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 261/39/13, depositata in data 17.9.2013, lo accoglieva sul presupposto della fittizietà delle fatture relative ad operazioni inesistenti, relative all’acquisto di strutture e macchinari già in possesso della società che aveva simulato l’acquisto di beni ammortizzabili da imprese facenti capo a parenti e conoscenti, dai quali si faceva rilasciare fatture che servivano a fingere il regolare impiego di un finanziamento pubblico e ad annotare costi indeducibili.
Avverso la sentenza di appello D. S. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidando il suo mezzo a tre motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo la contribuente deduce insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
Lamenta che la CTR aveva fondato il proprio convincimento sulla base di quattro motivi carenti di sufficiente motivazione.
La censura è inammissibile
Come chiarito da questa Corte anche a Sezioni Unite, La nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5 (applicabile nella specie) introdotta ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b) (conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (ex plurimis, Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053, Rv. 629831-01, e successive conformi tra le quali, tra le più recenti, anche Cass. sez. 2, 29/10/2018, n. 27415, Rv. 651020-01).
L’«esplicita scelta» del legislatore del 2012 «di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità», ha limitato la censurabilità ai soli casi di omissione grafica, di motivazione apparente, di manifesta e irriducibile contraddittorietà «tale da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum» e infine di motivazione perplessa o incomprensibile.
Nella specie la ricorrente lamenta un vizio di insufficiente motivazione della sentenza, come tale inammissibile.
Nella specie, peraltro, la motivazione, come richiamata nell’esame del secondo motivo, è perfettamente adeguata a fondare la decisione della CTR.
2. Con il secondo motivo l’ufficio deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. e degli artt. 54 del DPR 633/72 e dell’art. 39 del DPR 600/73 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Lamenta che nessuna prova era stata fornita dall’Ufficio che aveva fondato il suo accertamento sulla base di mere congetture.
La censura non è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte nel caso, come quello in esame, in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o deduzione dei costi, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr. Cass. n. 24426 del 30/10/2013); quest’ultima prova non potrà consistere, però, nella esibizione della fattura, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (tra le altre, Cass. 33915/2019; Cass. 17619/2018; Cass. 15228/2011; Cass. 12802/2011).
Inoltre, questa Corte ha reiteratamente ribadito che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura se il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, ossia attribuendo l’onus probandi ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni, ma non quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 21 febbraio 2018, n. 4241; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26769).
Nella fattispecie in esame, la Commissione regionale ha fatto corretta applicazione dei criteri che governano l’onere della prova in materia di operazioni oggettivamente inesistenti.
La Commissione tributaria regionale, nella specie, come emerge dalla motivazione, ha ricostruito l’operazione fraudolenta osservando che l’amministratore della azienda, già dotata di edifici e di attrezzature era riuscito ad ottenere un finanziamento di €553.536,00 con contributi ed agevolazioni della legge 488/1992, fingendo di voler investire complessivi €1.345.000,00 per l’acquisto di strutture e macchinari in realtà già in suo possesso. Per dare apparenza legale alla frode il legale rappresentante simulava l’acquisto dei beni ammortizzabili da imprese facenti capo a parenti e conoscenti dai quali si faceva rilasciare le fatture per operazioni inesistenti che gli servivano per fingere il regolare impiego del finanziamento e per annotare in deduzione costi fasulli; la prova risiede negli accertamenti bancari della Guardia di Finanza di Caserta, dai quali risulta che la maggior parte dei pagamenti di siffatti acquisiti venivano poi restituiti ai soci della D. S. e reimpiegati in investimenti personali a loro nome.
Il meccanismo fraudolento era reso ancora più certo dalle sommarie informazioni rese da un fornitore il quale aveva confermato la falsità delle fatture da lui emesse su pressione del legale rappresentante M.A..
La CTR ha osservato che in tal modo la D. s.r.l. si era procurata truffaldinamente il duplice illecito profitto di un finanziamento con contributi ed agevolazioni pubblici e di una rilevante evasione fiscale mediante la deduzione di costi fittizi.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c..
Lamenta che nella specie non sarebbero state applicate le norme che regolano la fattispecie e la CTR avrebbe motivato la decisione in base a personali soggettive convinzioni e pregiudizi, non suffragate da validi motivi.
3.1. Il motivo è inammissibile.
Costituisce ius receptum che, nel ricorso per cassazione, il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione. (Cass. 26/06/2013, n. 16038; in senso conforme: Cass. 15/01/2015, n. 635; 28/02/2012, n. 3010). Nel caso di specie, la doglianza non è intelligibile, si appalesa appena abbozzata, generica, e non indica sotto quale profilo la sentenza della CTR si porrebbe in contrasto con norme di diritto e, perciò, avrebbe dovuto essere diversa.
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna D. S. s.r.l. al pagamento delle spese processuali che liquida in €5.600,00 oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
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