Corte di Cassazione sentenza n. 1323 del 21 gennaio 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – MANSIONI DEL LAVORATORE – ADIBIZIONE DEL LAVORATORE A MANSIONI INFERIORI – PER SOPPRESSIONE DEL POSTO A SEGUITO DI RISTRUTTURAZIONE AZIENDALE – PATTO DI DECLASSAMENTO – CONSENSO DEL LAVORATORE – LEGITTIMITÀ – CONTRASTO CON LE ESIGENZE DI RISPETTO DELLA DIGNITÀ DELLA PERSONA – ESCLUSIONE
massima
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In tema di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle assegnate in presenza di soppressione del posto a seguito di ristrutturazione aziendale, deve ritenersi legittimo il patto di declassamento quale alternativa al licenziamento, con la conseguenza che la modifica in “peius” delle mansioni è legittima quando sia stata disposta con il consenso del lavoratore – nonostante l’art. 2103 cod. civ. preveda la nullità di ogni patto contrario – e per evitare il licenziamento, giacché in tal caso la sua diversa utilizzazione non contrasta con le esigenze di rispettare la dignità della persona, configurandosi anzi come situazione più favorevole per il lavoratore.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso, depositato il 23.20.2002, S. P. chiedeva pronuncia di illegittimità del licenziamento, a lui intimato dalla T.V.E. T. V. E. S.p.A. (poi divenuta I. di V. e T. V. in liquidazione) per soppressione del reparto commerciale, presso il quale il ricorrente era addetto con mansioni di mantenimento ed acquisizione di contratti con i commercianti, e la reintegrazione nel posto di lavoro con le conseguenti statuizioni di carattere risarcitorio, anche in relazione a condotte mobizzanti posto in essere dalla società convenuta.
L’adito Tribunale di Roma, ammessa ed espletata prova testimoniale, con sentenza del 14.03.2005 condannava la società convenuta al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 9.929,50, oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno per gli illeciti denunciati dal lavoratore; respingeva le altre domande.
Tale decisione, a seguito di appello dell’originario ricorrente ed appello incidentale dell’I. di V. e T., è stata parzialmente riformata, nel resto confermata, dalla Corte di Appello di Roma con sentenza n. 1955 del 2007, che ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento anzidetto, con ordine di reintegra nel posto precedentemente occupato o in diverse mansioni e con condanna in solido delle società appellate a corrispondere all’appellante P. a titolo risarcitorio una indennità, pari alle retribuzioni spettanti per euro 2.647,80 mensili, dalla data del licenziamento fino alla data di scadenza del terzo anno successivi alla risoluzione del rapporto, oltre interessi legali dalle scadenze al saldo e rivalutazione monetaria dalle scadenze alla sentenza.
Il giudice di appello, nel rigettare l’appello incidentale dell’I. di V. T. e V., ha condiviso la decisione di primo grado sul punto dell’affermazione della responsabilità della datrice di lavoro e conseguente liquidazione del danno con riguardo alle condotte mobizzanti in danno del P., osservando che la circostanza risultava confermata dai testi B., D. S. e F..
La stessa Corte, nell’accogliere l’appello principale del lavoratore, non ha condiviso l’assunto del primo giudice, il quale aveva affermato che il datore di lavoro aveva assolto all’onere di dimostrare l’insussistenza, al momento del licenziamento, di altra posizione di lavoro analoga a quella soppressa, a cui il lavoratore avrebbe potuto essere destinato, e aveva aggiunto che non giovava al lavoratore la circostanza dell’assunzione di una impiegata amministrativa dopo il licenziamento del ricorrente, non potendo quest’ultimo essere addetto alla contabilità o alla segreteria, giacché l’obbligo del repechage non implica il demansionamento del lavoratore per evitare il licenziamento, a meno che lo stesso lavoratore non si sia specificamente offerto alla dequalificazione, cosa non risultata allegata o provata.
Le ragioni della non condivisione da parte del giudice di appello dell’assunto del primo giudice sono ancorate al punto 27 del ricorso introduttivo, laddove il P., inquadrato peraltro come impiegato, ha testualmente dedotto di poter essere collocato presso l’Ufficio di Segreteria oppure presso il Magazzino e presso l’Ufficio Amministrativo, con ciò offrendosi, pur di mantenere il posto di lavoro, di svolgere mansioni inferiori.
La Corte ha determinato l’entità del danno subito dal lavoratore per un triennio dal licenziamento, considerando, in via probabilistica, per tale periodo perdurante uno stato di disoccupazione.
L’I. di V. T. e V. S.r.l. in liquidazione e la TVE V. S.r.l. ricorrono per cassazione con due motivi.
Il P. resiste con controricorso, contenente ricorso incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare i ricorso vanno riuniti ex art. 335 C.P.C., essendo diretti contro la stessa sentenza.
Con il primo motivo le ricorrenti principali denunciano violazione degli artt. 36 e 41 Cost., art. 3 della legge n. 604 del 1966, degli artt. 83, 84, 112, 155 C.P.C., nonché degli artt. 2103 e 2697 Cod. Civ..
Le ricorrenti deducono non corretta applicazione delle richiamate norme nonché erroneo utilizzo del materiale probatorio acquisito, per avere ritenuto che il P. avesse dedotto in maniera specifica ed espressa la volontà di poter esser collocato in una posizione lavorativa inferiore rispetto a quella precedentemente goduta, richiamandosi al punto 27 del ricorso introduttivo, che è atto del difensore e come tale, in mancanza di uno specifico mandato, non contiene una seria ed esplicita offerta del lavoratore alla dequalificazione.
Le ricorrenti riscontrano, poi, contraddittorietà nel ragionamento seguito dalla Corte di merito, in quanto, da un lato, sostiene l’esistenza del consenso del lavoratore, e, dall’altro lato, richiamandosi al contenuto della sentenza di questa Corte n. 896/2007, afferma la possibilità per il datore di lavoro, in caso di ristrutturazione aziendale, di potere autonomamente adibire il lavoratore a mansioni inferiori pur mantenendo immutato il livello retributivo, in violazione dell’art. 36 della Cost. riguardante la proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Sui punti riportati le ricorrenti hanno formulato cinque distinti quesiti di diritto.
Ciò premesso sul contenuto delle doglianze, va osservato che le stesse sono prive di giuridica consistenza e vanno disattese, anche a voler ritenere ammissibili i quesiti di diritto, non del tutto in linea con il dettato dell’art. 366 bis C.P.C. in relazione alla loro molteplicità e alla mancanza di un momento di sintesi logico-giuridica della questione (cfr Cass. n. 7197 del 25 marzo 2009; Cass. SU n. 26020 del 2008).
Invero il giudice di appello ha evidenziato che la datrice di lavoro nel caso di specie non ha assolto all’obbligo del repechage, atteso che dopo il licenziamento del P. era stata assunta una impiegata amministrativa e in ogni caso lo stesso lavoratore si era detto disponibile ad essere collocato a mansioni inferiori presso l’Ufficio Segreteria oppure presso il Magazzino e presso l’Ufficio Amministrativo.
Nessun rilievo assume l’assunto delle ricorrenti principali, le quali, come già detto, hanno ritenuto che dal punto 27 del ricorso introduttivo non potesse desumersi una offerta del P. a svolgere mansioni inferiori, per essere l’atto riferibile al solo difensore, in quanto la Corte di Appello con valutazione di merito adeguata e logica, non sindacabile in sede di legittimità, è giunta alla conclusione che le deduzioni contenute nello stesso ricorso erano pur sempre riferibili al lavoratore, che aveva conferito procura al difensore.
Nel senso della possibilità del lavoratore di essere adibito a mansioni inferiori a quelle assegnate in presenza di soppressione del posto a seguito di ristrutturazione aziendale si è pronunciata più volte questa Corte, in particolare ritenendo legittimo il patto di declassamento come alternativa la licenziamento e traendone la conseguenza che la modifica in peius delle mansioni è legittima quando sia stata disposta con il consenso del lavoratore (nonostante l’art. 2013 Cod. Civ. prevederla nullità di ogni patto contrario) e per evitare il licenziamento, perché in tal caso la sua diversa utilizzazione non contrasta con le esigenze di rispettare la dignità della persona, configurandosi anzi come una situazione più favorevole per il lavoratore (cfr Cass. n. 6552 del 2009; Cass. SU n. 25033 del 2006; Cass. n. 11727 del 1999; Cass. n. 6441 del 1988).
Orbene la sentenza impugnata, che ha fatto corretta applicazione dei principi in precedenza evidenziati, è immune dal vizio di contraddittorietà nella motivazione, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti principali, in quanto a fronte del licenziamento per giustificato motivo oggettivo il lavoratore si era esplicitamente offerto, pur di mantenere il posto di lavoro, ad espletare mansioni inferiori, sicché tale scelta rappresentava l’unica alternativa praticabile e non si poneva in contrasto con il dettato del codice civile.
Con il secondo motivo le ricorrenti deducono violazione degli artt. 1227 e 2909 Cod. Civ., dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e dell’art. 41 Cost., nonché vizio di motivazione.
Le ricorrenti contestano la statuizione della sentenza di appello nel punto relativo alla misura risarcitoria parametrata su un triennio, che considerano eccessivo e irragionevole, ben potendo il lavoratore attivarsi per il reperimento di una nuova occupazione entro un termine più breve.
La censura è infondata, avendo il giudice di appello fornito ragionevole spiegazione circa l’adozione del parametro del triennio, utilizzato per la liquidazione del danno, e ciò in considerazione dell’età del lavoratore e della crisi del mercato del lavoro, che non consente il reperimento di un’altra occasione di lavoro in tempi brevi.
Da parte sua il P. ha proposto ricorso incidentale condizionato, con riferimento alla inferiorità – ipotizzata dal giudice di appello – delle mansioni impiegatizie assolte dalla neo assunta F..
Tale ricorso, proprio perché proposto in via condizionata, può ritenersi assorbito in conseguenza e per effetto dei rigetto del ricorso principale.
In conclusione il ricorso principale è destituito di fondamento e va rigettato, mentre va assorbito l’incidentale.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo con riferimento alle disposizioni di cui al D.M. 20 luglio 2012 n. 140 e alla tabella, ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 D.M. citato), con distrazione a favore dell’Avv. G. C..
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale; condanna le ricorrenti alle spese a favore del resistente P., che liquida in euro 40,00 per esborsi ed euro 3000,00 per compensi, oltre accessori di legge, con distrazione a favore dell’Avv. G. C. dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Roma addì 27 novembre 2012
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