CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 23325 depositata il 1° agosto 2023
Lavoro – Demansionamento – Risarcimento del danno – Retribuzione globale di fatto – Mensilità aggiuntive e accessori – Salvaguardia della professionalità – Articolo 46 del c.c.n.l. 1994 – Infungibilità tra le mansioni per mancanza di omogeneità – Divieto di variazione in “pejus” – Rigetto
Rilevato che
1. La Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale di stessa città che aveva accolto il ricorso di M.M. ed aveva accertato che nel periodo dal 20.5.99 al 16.1.02 e poi di nuovo dal 14.11.2005 al 9.3.2006 era stato illegittimamente demansionato e quindi aveva condannato la società P.I. s.p.a. a risarcire il danno commisurato al 20% della retribuzione globale di fatto, per la qualifica ricoperta comprese le mensilità aggiuntive, per ogni mese di demansionamento, oltre accessori dalle singole scadenze al saldo.
2. Il giudice di appello, richiamandosi ai principi dettati in materia dalla Cassazione anche a sezioni unite, ha ritenuto che essendo l’art. 2103 c.c. posto a salvaguardia della professionalità, non è consentito al datore di lavoro assegnare mansioni che, pur riconducibili alla medesima area di inquadramento, concretizzino di fatto un mutamento in pejus delle stesse e che al giudice è demandata la verifica dell’omogeneità delle mansioni svolte.
3. Nello specifico il giudice di secondo grado ha accertato che il lavoratore era stato in precedenza assegnato a compiti di coordinamento del personale tecnico con assunzione di responsabilità e professionalità superiore rispetto ad un semplice operatore di macchine, mansioni alle quali era stato adibito successivamente.
4. Con riguardo al secondo periodo di denunciato demansionamento, dal 14.1.2005 – 9.3.2006, durante il quale era stato adibito all’ apertura delle “bolgette”, la Corte ha ritenuto che si trattasse di mansioni prive del tratto del coordinamento, prive di poteri di iniziativa e svolte individualmente nell’ambito di procedure definite. Ha evidenziato inoltre che la richiesta del lavoratore di essere adibito ad un lavoro compatibile con l’esigenza di assistere i familiari durante il giorno era stata avanzata in un periodo successivo a quello preso in esame dal Tribunale. Quanto al danno alla professionalità la Corte lo ha ritenuto sufficientemente allegato e successivamente poi confermato dalla prova testimoniale assunta. Quanto alla contestazione della percentuale di retribuzione da prendere come parametro per il risarcimento la Corte l’ha ritenuta generica a fronte di una congrua motivazione del primo giudice.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso tempestivamente notificato la società P.I. s.p.a. affidato a tre motivi. M.M. è rimasto intimato.
Ritenuto che
6. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 2103, 2095, 2697 e 2727 c.c. oltre che degli artt. 41, 43, 46, 47 e 53 c.c.n.l. del 1994 e degli artt. 1 e 24 del c.c.n.l. del 2001. Deduce il ricorrente che erano stati previsti meccanismi convenzionali di mobilità e temporanea fungibilità tra mansioni della medesima area senza che ne risultasse violato l’art. 2013 c.c..
7. Il motivo è infondato.
7.1. Va ricordato che ai sensi dell’art. 46 del c.c.n.l. 1994 l’intercambiabilità delle mansioni è possibile laddove vi siano “necessità di servizio” ovvero all’esito di percorsi professionali collegati a filoni operativi omogenei. All’interno delle aree, in fase di prima applicazione, è stata prevista la possibilità di attuare la fungibilità attraverso corsi di riqualificazione nell’ambito di accordi sindacali in materia di mobilità collettiva.
7.2. Alla luce delle emergenze istruttorie la Corte di merito, dando corretta attuazione ai principi dettati da questa Corte con la sentenza delle sezioni unite n. 25022 del 2006, ha accertato che le mansioni alle quali il lavoratore era stato assegnato per un lungo periodo, peraltro in due diverse occasioni, non presentavano i requisiti di omogeneità necessari ed anzi comportavano una perdita di professionalità.
7.3. Con riguardo al primo periodo, oggetto della presente censura, la Corte di merito con accertamento di fatto a lei riservato ha verificato che era venuto a mancare il tratto del coordinamento del personale dipendente, prima sussistente, ed ha quindi condivisibilmente affermato che la riconduzione di mansioni diverse ad un’unica area non implica di per sé l’equiparazione delle stesse quanto al loro contenuto sotto il profilo della specifica professionalità acquisita. Certamente la circostanza che, successivamente, il lavoratore sia stato restituito alle precedenti mansioni non è di per sé idonea a restituire legittimità al periodo demansionamento già disposto.
8. Anche il secondo motivo di ricorso con il quale è denunciata la violazione degli artt. 2103, 2697 e 2727 c.c. e dell’art. 414 c.p.c. per il secondo periodo in cui il lavoratore, dal 14 gennaio 2005 al 9 marzo 2006, era stato assegnato all’apertura delle bolgette. Deduce la ricorrente che il lavoratore non aveva descritto le mansioni svolte e non le aveva confrontate con quelle precedenti così trascurando di offrire al giudice elementi dai quali desumere l’esistenza di una dequalificazione.
8.1. Va qui ribadito che qualora il lavoratore alleghi un demansionamento professionale riconducibile a un inesatto adempimento dell’obbligo posto dall’art. 2103 c.c. a carico del datore di lavoro, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento, dimostrando l’inesistenza, all’interno del compendio aziendale, di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità in precedenza raggiunto dal lavoratore (cfr. Cass. 19/10/2018 n. 26477). Come già sopra ricordato il divieto per il datore di lavoro di variazione in “pejus” ex art. 2103 cod. civ., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso (cfr. Cass. 05/08/2014 n. 17624 e già 09/03/2004 n. 4790). Ne consegue che a fronte dell’allegata denuncia di assegnazione a mansioni differenti e ritenute dequalificanti era onere della datrice di lavoro dimostrarne l’equivalenza.
9. Il terzo motivo di ricorso denuncia infine la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1218, 1223, 1226, 2697, 2727 e 2729 c.c. e si sostiene che erano mancate specifiche allegazioni del danno alla professionalità sofferto – dedotto sulla base del mero rilievo che il lavoratore, dal 1999, era stato costretto a prendere ordini da lavoratori che appartenevano a livelli inferiori al proprio – non poteva essere accordato alcun risarcimento.
Deduce che, così facendo, la Corte di merito avrebbe confuso il danno biologico e morale con quello professionale che invece era inesistente, ed ha riconosciuto il risarcimento di un pregiudizio di natura meramente emotiva e interiore e non di un danno oggettivo e documentato. Inoltre, ribadisce che non era stato considerato che le mansioni nel tempo assegnate erano tra loro equivalenti.
10. Anche tale motivo non può essere accolto.
10.1. In tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno – avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore – determinandone l’entità, anche in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr. Cass. 23/07/2019 n.19923 e 19/09/2014 n.19778).
10.2. A tali principi, condivisibili, si è attenuta la Corte di merito che ha tenuto conto delle allegazioni complessivamente presenti nel ricorso introduttivo della lite con il quale era stato chiesto sia il danno biologico che quello alla professionalità poi riconosciuto sulla base di quanto specificatamente dedotto dal lavoratore in fatto e con valutazione di merito qui non più censurabile.
Peraltro, la censura presenta anche profili di genericità che non consentono comunque un più approfondito esame, nei limiti del consentito, in quanto trascura di riprodurre il contenuto del ricorso di primo grado e della memoria di appello così che si deve ritenere confermato, come detto nella sentenza impugnata, che le allegazioni c’erano e che la prova le aveva confermate.
11. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Non v’è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità stante la mancata costituzione del lavoratore rimasto intimato. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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