CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 giugno 2013, n. 14206
Lavoro – Lavoro subordinato – Promozione – Discriminazioni basate sul sesso – Rimedi giudiziali – Onere probatorio attenuato
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, A. S., impiegata di prima categoria, conveniva in giudizio la San Paolo Imi S.p.A. dolendosi della mancata promozione al grado di funzionario cui da tempo aspirava. Rilevava che, pur in presenza di tutti i presupposti di fatto e contrattuali per il richiesto avanzamento, tale mancata promozione era da considerarsi ingiusta e frutto di discriminazione sessuale in suo danno. Il giudice di primo grado, nel contraddittorio con la Banca convenuta, rigettava il ricorso. Proposto appello da parte della lavoratrice, la Corte di appello di Roma, con sentenza non definitiva del 18 dicembre 2006, accertava la sussistenza della discriminazione relativamente al periodo dal 1° luglio 1994 al 3 giugno 1996 (cioè fino a quando la S. aveva chiesto ed ottenuto di essere collocata in part-time) ritenendo che, in base alle disposizioni di cui alle leggi n. 125/1991 e n. 903/1977, la lavoratrice non avesse altro onere di allegazione se non quello (a) dell’effetto pregiudizievole personale – come nella fattispecie in esame, il mancato avanzamento di carriera – e (b) della verosimiglianza del fatto che tale pregiudizio dipendesse da una discriminazione (diretta e personale ovvero indiretta). Rilevava che la S. avesse proposto la domanda affermando di avere subito una discriminazione in via personale e diretta a causa della violazione da parte del datore di lavoro dei criteri di valutazione dell’avanzamento in carriera. Riteneva che, a fronte della dimostrata attitudine alla nomina a funzionario (di per sé non sufficiente a fondare il diritto alla nomina), sussistesse la ragionevole presunzione che la medesima fosse stata vittima di discriminazione. Richiamava, altresì, a tale ultimo riguardo, due interpellanze parlamentari (rispettivamente del 10/3/1987 e del 15/11/1995) aventi ad oggetto l’esiguità delle promozioni ottenute dal personale femminile dell’Istituto Mobiliare Italiano ed il parere rilasciato dal Collegio Istruttorio del Comitato nazionale di parità e pari opportunità nel novembre 1997 evidenziante la totale mancanza di specificazione dei criteri di misurazione degli obiettivi ai fini della progressione in carriera. Quindi, con sentenza definitiva pronunciata il 4 febbraio 2007 e depositata il 4 giugno 2008, la Corte territoriale dichiarava inammissibile la domanda diretta ad ottenere una pronuncia di avanzamento in carriera (tutela in forma specifica) ritenendo che la S. avesse agito con l’azione ordinaria di cui all’art. 15 dello statuto dei lavoratori e non ai sensi della normativa speciale di cui alle leggi n. 903/1997 e n. 125/1991 che solo prevedono la possibilità di far cessare gli effetti del comportamento discriminatorio con condanna dell’autore dell’illecito. Sul presupposto, però, che anche un’azione ordinaria come quella intrapresa dalla ricorrente potesse dal luogo a risarcimento del danno, condannava la società appellata al pagamento in favore di controparte di una indennità risarcitoria pari alle differenze retributive tra il trattamento corrisposto alla S. nel periodo dal 1° luglio 1994 al 3 giugno 1996 e quello proprio del funzionario.
Avverso le sentenze ricorre la Intesa San Paolo S.p.A. (già San Paolo IMI) con un unico ricorso (notificato e depositato prima della pubblicazione della sentenza definitiva) affidato ad un motivo, cui la S. resiste con controricorso, formulando ricorso incidentale autonomo affidato a quattro motivi (tutti riferiti alla sentenza non definitiva) al quale, a sua volta, resiste la Banca con controricorso.
Ricorre, poi, autonomamente contro la sentenza definitiva A. S. affidandosi a cinque motivi riferiti alla sentenza definitiva e riproponendo i quattro motivi di cui al ricorso incidentale. Resiste con controricorso la Intesa San Paolo S.p.A..
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. I ricorsi hinc et inde proposti avverso la stessa sentenza sono stati riuniti ex art. 335 cod. proc. civ..
2. Con unico motivo di ricorso principale la Banca Intesa San Paolo denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 Cost., 1, 2 e 3 della legge 9/12/1977 n. 903, 1, 2 3, 4 della legge 10/4/1991 n. 125 e, per quanto possa occorrere, dell’art. 2 della legge 13/5/1990 n. 135, nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia”. Lamenta la ricorrente il fatto che la Corte territoriale abbia accolto la domanda ritenendo sussistente una discriminazione per ragioni di sesso, pur limitatamente al periodo 1/7/1994 – 3/6/1996, sotto le suggestioni di un’erronea e fuorviante applicazione della normativa di legge a tutela del lavoro femminile e sulla base di una motivazione del tutto inadeguata. Rileva, in particolare, che la Corte capitolina, erroneamente integrando la norma elastica di cui all’art. 1 della legge della legge n. 903/1977, ha dapprima fatto riferimento ad una discriminazione diretta, senza tuttavia indicare alcun significativo elemento di prova fornito dalla lavoratrice da cui evincere che quest’ultima fosse stata postergata nell’inquadramento come funzionario nei confronti dei dipendenti di sesso maschile, in una tornata di promozioni collettive o in un episodio di promozione individuale, salvo poi a ritenere comunque sussistente una discriminazione indiretta, ed in questo caso senza spiegare come una attitudine possa assumere rilevanza a tale fine e facendo riferimento, per dimostrare la praticata discriminazione, a circostanze tutt’altro che precise e concordanti.
Il motivo, che si conclude con un quesito di diritto idoneo ad intercettare la questione devoluta alla Corte e ad assolvere alla funzione di costituire il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, è fondato nei termini di seguito illustrati.
I divieti di discriminazione previsti nel nostro ordinamento completano la disciplina garantista del diritto del lavoro affiancandosi alle disposizioni sulla parità di trattamento ed anzi assicurando a queste ultime concreta attuazione attraverso uno specifico contenuto precettivo e misure strumentali alla realizzazione dell’obiettivo della parità.
Di atti antidiscriminatori nei rapporti di lavoro si occupa, invero, già la legge 20 maggio 1970, n. 300 che all’art. 15, appunto intitolato “Atti discriminatori” e costituente una prima attuazione del principio di parità nel rapporto di lavoro, sanziona con la nullità qualsiasi patto o atto diretto a discriminare un lavoratore, tra l’altro, nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari e dunque caratterizzato ex lege da un motivo illecito anche al di là degli specifici ed ulteriori presupposti richiesti dall’art. 1345 cod. civ. (non occorrendo che il motivo discriminatorio sia esclusivo, né che sia comune alle parti essendo rilevante l’intento discriminatorio del solo datore di lavoro).
Detta norma, in linea con il filone principale dello Statuto dei lavoratori, nella sua iniziale formulazione, si riferiva alle discriminazioni per motivi sindacali, terreno originario di applicazione del principio anche in altri ordinamenti.
Una esplicita attuazione del principio di parità uomo-donna desumibile dagli artt. 3, 37 e 51 Cost, dall’art. 119 del Trattato CEE e dalle direttive CEE 10/2/75 n. 117 e 12/2/76 n. 207, si è avuta con la legge 9/12/77 n. 903 che ha previsto, tra l’altro: il divieto di discriminazioni fondate sul sesso relativamente all’accesso al lavoro, formazione e aggiornamento professionale (art. 1), il diritto alla parità retributiva e a criteri di classificazione comune (art. 2), il divieto di discriminazione in materia di attribuzione delle qualifiche e delle mansioni e di progressione nella carriera (art. 3), la parità in materia di cessazione dal lavoro (art. 4), le modalità di partecipazione delle donne al lavoro notturno ed divieto assoluto dall’inizio dello stato di gravidanza fino al compimento del settimo mese di età del bambino (art. 5) ed ha aggiunto all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori l’ultimo comma prevedente espressamente il divieto di discriminazione per ragioni politiche, religiose, di sesso, razza e lingua (art. 13) e, dunque, esteso la nullità anche ai patti o atti diretti a fini di tali tipologie di discriminazione (successivamente il decreto legislativo n. 216/2003 ha ulteriormente esteso l’indicata sanzione anche alle discriminazioni in base all’ handicap, all’età, all’ orientamento sessuale e alle convinzioni personali).
Sempre la legge n. 903/77 all’art. 15 ha articolato un procedimento di repressione di condotte discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro modulato su quello di cui all’art. 28 Stat, anzi pressoché identico se non per due significative differenze in tema di legittimazione attiva e di tutela reintegratoria: a) legittimato attivo è il lavoratore discriminato o, per sua delega, l’organizzazione sindacale; b) oltre alle forme di tutela inibitoria e reintegratoria in forma specifica analoghe a quanto previsto dall’art. 28, è prevista anche la condanna al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale). Il tutto, però, sempre nell’ambito della procedura d’urgenza.
Con tale normativa, il procedimento giurisdizionale a tutela del soggetto discriminato resta tuttavia esperibile solo nel caso di una discriminazione basata sul sesso rispetto all’accesso al lavoro o in merito all’inosservanza del divieto di adibire il personale femminile a mansioni in orario notturno. Per qualunque altra condotta discriminatoria che abbia pregiudicato la lavoratrice nello svolgimento del rapporto di lavoro, l’unico strumento processuale utilizzabile continua ad essere l’azione ordinaria di nullità di cui all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori.
Un rafforzamento della tutela discriminatoria tanto sul piano sostanziale quanto su quello processuale si è avuto con la legge del 10 aprile 1991 n. 125 (che ha recepito la raccomandazione CEE 13/12/84 n. 635 che sollecitava gli Stati membri ad adottare misure a salvaguardia delle donne nell’accesso al lavoro e nello sviluppo di carriera professionale) che, in particolare, ha sancito il passaggio dal mero principio di parità di trattamento a quello di pari opportunità, specialmente attraverso la previsione delle azioni positive di cui all’art. 4 al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità.
Tale norma ha innanzitutto introdotto la distinzione tra discriminazione diretta ed indiretta prevedendo che costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando “anche in via indiretta” i lavoratori in ragione del sesso e che costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino i requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
Da un punto di vista processuale l’art. 4 della legge n. 125/1991 ha configurato una concorrente legittimazione della lavoratrice (o del lavoratore) e della consigliera (o del consigliere) di parità, che possono promuovere tanto un procedimento speciale a cognizione sommaria quanto l’azione ordinaria.
Il suddetto art. 4 della legge n. 125/1991, poi modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 196/2000, è stato, quindi trasfuso negli artt. 36 e ss. del codice delle pari opportunità tra uomo e donna – d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, poi integrato dal d.lgs. del 25 gennaio 2010 n. 5 – che all’art. 25 ha mantenuto la distinzione tra discriminazione diretta e indiretta prevedendo al comma 1 che: “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga” ed al comma 2 che: “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
Nel nuovo impianto legislativo, dunque, oggetto dei divieti di discriminazione non sono soltanto le leggi e gli atti negoziali (in particolare le pattuizioni, individuali e collettive, relative alle condizioni di lavoro e i negozi unilaterali di gestione del rapporto), illegittimi per il solo fatto che in essi si concreti l’applicazione di criteri di differenziazione vietati, ma anche i meri comportamenti ispirati a tali criteri, nei quali si configura al tempo stesso un inadempimento contrattuale e un illecito aquiliano, con conseguente responsabilità risarcitoria del datore nei confronti del prestatore di lavoro discriminato.
Inoltre, il provvedimento in via d’urgenza, può essere promosso dal lavoratore interessato in qualsiasi ipotesi di discriminazione di genere, e quindi, non solo, come inizialmente previsto dall’art. 15 1. n. 903 del 1977, per far valere discriminazioni nell’accesso al lavoro e nell’adibizione a lavoro notturno.
Per il resto, lo schema di tutela giurisdizionale contro le discriminazioni di genere introdotto dall’art. 4 della legge n. 125 del 1991 è rimasto sostanzialmente immutato nella disciplina del codice delle pari opportunità.
Dunque, la tutela antidiscriminatoria può avvalersi, oggi (e sin dalle modifiche di cui al d.lgs. 196/2000), di azioni ordinarie, l’una individuale e l’altra collettiva (o pubblica), e di due simmetriche procedure d’urgenza.
Nell’azione individuale (che può riguardare tanto una discriminazione diretta quanto una discriminazione indiretta) è il singolo che si attiva per far valere la lesione di un proprio diritto; mentre, in quelle collettive, è il consigliere di parità nazionale o regionale, in relazione all’area geografica di interesse che, con riguardo ad atti, patti o comportamenti discriminatori diretti e indiretti, anche quando non siano individuabili immediatamente o direttamente le lavoratrici o i lavoratori lesi, prende l’iniziativa per farsi portavoce degli interessi di un insieme di lavoratori.
Le azione ordinarie devono essere precedute, per i dipendenti di datori di lavoro privati, dal tentativo di conciliazione (promosso, oltre che dal singolo, anche dal Consigliere di parità provinciale o regionale su delega del lavoratore o dei lavoratori interessati) nelle forme previste dalla contrattazione collettiva e dall’art. 410 c.p.c; e, per i dipendenti di strutture pubbliche, nelle forme di cui all’art. 66 d.lgs. n. 165/2001.
Altrettanto non è richiesto, ovviamente, per le procedure d’urgenza atteso che l’espletamento del tentativo suddetto in tal caso rischierebbe di vanificare la tutela.
Mentre nel caso di azione individuale l’azione può condurre ai medesimi risultati previsti dalla normativa previgente (la sanzione di nullità degli atti o patti discriminatori, l’ordine di rimozione degli effetti e di cessazione della condotta iniqua, il risarcimento del danno), nel caso dell’azione in giudizio contro le discriminazioni a carattere collettivo, il giudizio può portare all’ordine di definizione di un piano collettivo di rimozione degli effetti discriminatori (al mancato adempimento di detto ordine consegue l’applicazione dell’art. 650 del codice penale, che punisce l’inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità).
L’art. 40 del codice, rubricato “Onere della prova”, riproduce la regola introdotta dall’art. 4, comma 6, della legge n. 125/1991 nel testo modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 196/2000. In sintesi, la norma pone a carico del soggetto convenuto nel giudizio instaurato a seguito dell’esperimento tanto di un’azione collettiva quanto di un’azione del consigliere di parità in caso di discriminazione collettiva, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, nel caso in cui il ricorrente fornisca al giudice elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, circa i comportamenti discriminatori lamentati (assunzioni, trasferimenti, regimi retributivi, assegnazioni a mansioni e qualifiche, progressione in carriera, licenziamenti), purché “idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti, patti e comportamenti discriminatori in ragione del sesso”.
La suddetta disposizione appare in linea con quanto disposto dalla direttiva n. 2006/54 CE in tema di opportunità nei rapporti di lavoro che all’art. 19 prevede che: “1. Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta. 2. Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice”. Tale direttiva, che raggruppa in un unico testo i principali contenuti delle direttive anteriori in tema di non discriminazione nonché certi sviluppi risultanti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, con riguardo all’onere della prova riproduce analoga disposizione già prevista dalla direttiva n. 80/1997, art. 4.
Sulla portata di tali direttive e sulla operatività dell’onere della prova dalle stesse previsto si è a lungo interrogata la dottrina all’interno della quale hanno preso corpo diverse opzioni interpretative contrapponendosi all’opinione favorevole a leggere nella norma la previsione di una vera e propria inversione dell’onere della prova il diverso orientamento propenso a sostenere che si tratti di una semplice attenuazione dell’onere della prova in favore della parte ricorrente.
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, è stata investita della questione interpretativa con riferimento alla direttiva n. 80/1997 e nella decisione n. 104 del 21/07/2011 resa nella Causa C-104/10 (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Ireland – (Irlanda) – Patrick Kelly/National University of Ireland – University College, Dublin -) al par. 29 si è così espressa: “La direttiva 97/80 enuncia, all’art. 4, n. 1, che gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del suddetto principio ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (v. sentenza 10 marzo 2005, causa C-196/02, Nikoloudi, Race. pag. 1-1789, punto 68)” ed al par. 30: “In tal senso, incombe a colui che si ritenga leso dal mancato rispetto del principio di parità di trattamento, dimostrare, in un primo momento, i fatti che consentano di presumere la sussistenza di una discriminazione diretta o indiretta. Solamente nel caso in cui questi abbia provato tali fatti, spetterà poi alla controparte, in un secondo momento, dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione”.
Dunque, non pare possa leggersi nelle direttive citate una esortazione al legislatore nazionale a prevedere una vera e propria inversione dell’onere della prova. Le direttive, infatti, impongono un alleggerimento del carico probatorio gravante sull’attore prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione.
Peraltro l’art. 40 del codice, al pari di quanto già previsto dall’art. 4, comma 6, della legge n. 125/1991 nel testo modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 196/2000, richiede che la presunzione derivante dagli elementi di fatto addotti dall’attore o dalla consigliera di parità abbia i caratteri della precisione e della concordanza.
Ed allora può ritenersi, in conformità con quanto previsto dal legislatore comunitario, che la suddetta disposizione abbia alleggerito l’onere probatorio a carico del ricorrente anche rispetto alla regola di cui all’art. 2729 cod. civ., in quanto non ha richiesto il requisito di gravità della presunzione, ma solo che la discriminazione si fondi su presunzioni precise e concordanti. Ciò, evidentemente non significa che è stata attuata una inversione dell’onere della prova (neppure voluta dal legislatore comunitario) ma semplicemente che è stato introdotto un onere probatorio “asimmetrico” (si è fatto riferimento in dottrina ad una solo parziale relevatio ab onere probandi in favore del soggetto discriminato): rimane fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto. In sintesi: dimostrati i fatti che fanno ritenere probabile la discriminazione, spetta alla controparte dimostrarne l’insussistenza.
Ai fini di tale dimostrazione “alleggerita”, inoltre, il requisito della precisione impone che i fatti noti da cui muove il ragionamento probabilistico (e cioè l’esistenza di atti, patti e comportamenti per l’appunto discriminatori) ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; il requisito della concordanza postula che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto. Inoltre l’indicazione, quale elemento tipizzato, dei dati statistici, se non è tale da sostanziare, di per sé, il (non previsto) requisito della gravità – nel senso della attitudine a produrre un significativo grado di convincimento in ordine all’esistenza del fatto ignoto – è tuttavia emblematica della serietà che deve caratterizzare gli elementi su cui fondare il ragionamento probabilistico (una prova statistica, infatti, ancorché non caratterizzata da un rigore scientifico cui resisti non potest non può che essere caratterizzata, ai fini della controllabilità globale dei risultati, da una chiara esplicitazione delle modalità di rilevazione degli stessi, dalla misurazione oggettiva e quantitativa dei fenomeni, da chiare modalità di presentazione delle informazioni).
Tanto chiarito in termini generali, va detto che l’onere della prova “alleggerito” nei termini sopra considerati sicuramente si applica a tutte le azioni instaurate ai sensi della legge n. 125/1991 (le cui disposizioni sono state, come detto, trasfuse nel codice delle pari opportunità) sia a quelle individuali proposte dalla lavoratrice (o del lavoratore) sia a quelle collettive proposte dalla consigliera (o dal consigliere) e di parità, sia che si tratti di un procedimento speciale a cognizione sommaria sia che (dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 196/2000) sia stata invece intrapresa una azione ordinaria (per quanto già detto, assolutamente sovrapponibile a quella prevista dall’art. 15 dello statuto dei lavoratori, potendo condurre ai medesimi risultati previsti da quest’ultima: declaratoria di nullità degli atti o patti discriminatori, ordine di rimozione degli effetti e di cessazione della condotta iniqua, risarcimento del danno).
Nulla, infatti, autorizza a ritenere il suddetto regime probatorio applicabile solo all’azione speciale e, del resto, una interpretazione in senso così limitativo confliggerebbe con i principi posti dal legislatore comunitario.
Naturalmente deve trattarsi di una azione chiaramente diretta a sanzionare una condotta discriminatoria per ragioni di genere sia essa prospettata quale discriminazione diretta sia essa diretta a denunciare una discriminazione indiretta.
Orbene, nella specie, la Corte territoriale non si è attenuta agli indicati principi.
Per quanto si evince dalla sentenza impugnata e dallo stesso controricorso della S., quest’ultima aveva agito (con una azione antidiscriminatoria in via ordinaria nell’ambito della quale ben avrebbe potuto avvalersi del regime probatorio semplificato di cui sopra si è detto) lamentando la mancata promozione a funzionario alla quale da tempo aspirava. Aveva sostenuto che, pur in presenza di tutti i presupposti di fatto (specificità delle conoscenze, alta specializzazione, elevato rendimento, giudizi positivi e ripetute proposte di avanzamento) e contrattuali, la promozione le era stata negata e che la discriminazione individuale subita si inseriva in un quadro di discriminazione generale e diffusa in danno del personale femminile dell’Imi.
Non si trattava, dunque, della denuncia di un trattamento deteriore discendente immediatamente dall’adozione del criterio selettivo per genere (discriminazione diretta) bensì della prospettazione di un trattamento individuale pregiudizievole conseguente all’applicazione di un criterio diverso da quello di genere e di per sé apparentemente neutro che però, nelle descritte circostanze aziendali, aveva finito con il produrre un trattamento deteriore per genere (discriminazione indiretta).
Del resto non risulta che la S. avesse addotto l’adozione da parte della Banca di un criterio selettivo tale da determinare una diretta discriminazione ai suoi danni per ragioni di sesso né l’indicata sussistenza dei presupposti fattuali e contrattuali per l’avanzamento in carriera è indicativa di tale discriminazione risultando la stessa, come ritenuto dalla stessa Corte territoriale, solo significativa di una attitudine in astratto a ricoprire il ruolo di funzionario, non anche di una sperequazione per ragioni di genere.
Quanto alla lamentata discriminazione indiretta, gli elementi addotti dalla S. non corrispondono a quelli richiesti dalla normativa sopra richiamata per fondare il ragionamento probabilistico posto dalla Corte capitolina a sostegno del decisum.
Mancano negli atti posti da S. a base della lamentata discriminazione (indiretta) e specificamente valorizzati nella decisione impugnata quelle caratteristiche di precisione, concordanza e, si aggiunge, di serietà richieste dalle disposizioni normative speciali in tema di onere della prova perché possa scattare sulla parte convenuta l’onere di dimostrare l’insussistenza della discriminazione.
Si fa, infatti, riferimento a due interpellanze parlamentari e cioè ad atti a contenuto prevalentemente politico attraverso le quali i parlamentari, veicolando istanze di categorie interessate, sottopongono al Governo determinate questioni per ottenere spiegazioni e risposte su ciò che riguarda l’indirizzo politico del Governo stesso. Si tratta di atti che al più possono rappresentare una sensibilità puntuale ma che sono privi di quella attendibilità scientifica idonea a connotarli della serietà che il legislatore ha inteso comunque richiedere a mezzo dell’espresso riferimento ai dati statistici.
Peraltro si tratta di atti distanziati l’uno dall’altro di ben otto anni (la prima interpellanza è del 1987, la seconda è del 1995) e quindi di certo non temporalmente convergenti nella dimostrazione probabilistica del fatto ignoto.
Eguale ragionamento va svolto con riguardo al parere del Collegio istruttorio del Comitato nazionale di parità e pari opportunità reso nel novembre 1997 a seguito della citata interpellanza del 15/11/1995. Si tratta, infatti, di una valutazione resa, a seguito di una istruttoria i cui criteri di rilevazione dei dati non risultano esplicitati, da un organo destinato meramente ad interloquire con il Comitato.
Gli elementi addotti dalla ricorrente (esclusa essendo la possibilità che una sommatoria di dati in sé inconsistenti e privi di precisione possa assumere una qualche valenza) non avevano, dunque, quelle caratteristiche per essere considerati, a termini di legge, fatti idonei a consentire di presumere la sussistenza di una discriminazione; ciò tanto più in un contesto – quello della nomina di funzionari bancari – in cui i criteri fiduciari non possono certo essere considerati come non essenziali a termini dell’art. 4 co. 2 della legge n. 125/1991.
Non avendo, dunque, la S. fornito, sulla base di una comparazione attendibile tra il suo ed i trattamenti ricevuti da soggetti di genere diverso ma versanti nella sua stessa condizione, elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, nessun onere ricadeva sulla Banca convenuta che ben poteva limitarsi ad eccepire, come è accaduto (ed in punto di fatto non è controverso), che nelle scelte poste a base delle promozioni era stato preferito, per esigenze aziendali, chi fosse in possesso di una laurea in scienze economiche o tecniche.
Da tanto consegue che il ricorso principale deve essere accolto con assorbimento degli altri; la sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione alle censure accolte e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda iniziale di A. S..
Il diverso esito dei giudizi di merito e la novità delle questioni trattate costituiscono giusto motivo per compensare integralmente tra le parti le spese processuali.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale con assorbimento degli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e decidendo nel merito rigetta la domanda iniziale di A. S.. Compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
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