Corte di Cassazione sentenza n. 1568 del 23 gennaio 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – RAPPORTO DI LAVORO – INFORTUNI E MALATTIE – SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO – LICENZIAMENTO – DISCIPLINA GENERALE DELLA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ PARZIALE DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA – DISCIPLINA LIMITATIVA DEI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI – INAPPLICABILITÀ – FONDAMENTO – RILEVANZA OBIETTIVA DEL DECORSO DEL PERIODO DI COMPORTO – CONSEGUENZE
massima
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La fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l’ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.
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Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 28 novembre 2007 la Corte d’Appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di A. S. dipendente della F. presso lo stabilimento di Pomigliano d’Arco.
Il licenziamento era stato motivato dalla società dalla frequenza, cadenza, durata delle assenze maturate dal lavoratore che rendevano oggettivamente impossibile utilizzare proficuamente la sua prestazione di lavoro in relazione alle esigenze organizzative produttive dell’azienda. La società aveva comunicato che era, pertanto, venuto meno definitivamente il suo interesse a proseguire nel rapporto di lavoro in considerazione delle reiterate assenze per malattia che determinavano una prestazione di lavoro discontinua e non utile per l’azienda.
La Corte territoriale ha osservato che le assenze erano state discontinue e a singhiozzo senza superare il periodo di comporto; che il licenziamento non aveva connotazioni disciplinari e che non era stata accertata l’inidoneità fisica del lavoratore, ma anzi il CTU nominato dal Tribunale aveva accertato la possibilità del lavoratore di rendere la sua prestazione in futuro quale operaio generico di terzo livello.
La Corte ha affermato, inoltre, che l’eccessiva mobilità dei dipendenti aveva assunto connotati di particolare rilevanza nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, ma nessuna prova era emersa che le assenze dell’appellante fossero più rilevanti sul piano organizzativo di quelle degli altri; che, quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nessuna prova era stata fornita dal datore di lavoro nell’impossibilità di utilizzare altrimenti il lavoratore.
La Corte, infine, discostandosi dalla decisione del Tribunale che aveva ricondotto la fattispecie all’art. 1464 c.c., ha ritenuto applicabile nel caso in esame l’art. 2110 c.c., norma speciale, con la conseguenza che il datore di lavoro non poteva recedere dal rapporto prima del superamento del periodo di comporto non sussistendo nella fattispecie un’inidoneità fisica del lavoratore sopravvenuta tale da far venire meno l’interesse del datore di lavoro alla prestazione.
Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione F. Group formulando due motivi.
La parte intimata non si è costituita.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 2110 c.c. in riferimento all’articolo 1464 c.c..
Lamenta che la Corte d’Appello era caduta in un palese vizio nell’individuazione della norma di legge applicabile costituita dall’articolo 2110 c.c. sul presupposto del suo carattere speciale rispetto alla norma generale dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, con conseguente preclusione al datore di lavoro di recedere prima del superamento del periodo di comporto.
Rileva che la società aveva operato un recesso sulla premessa dell’inapplicabilità della disciplina di cui all’articolo 2110 c.c. sottolineando come ci si trovasse di fronte ad assenze che avevano assunto una frequenza, una cadenza e durata tali da rendere impossibile utilizzare proficuamente la prestazione di lavoro del dipendente in relazione alle esigenze organizzative produttive dell’impresa. All’esito della prova testimoniale e della consulenza medica era emerso chiaro fin dal primo grado che la discontinuità di presenza del lavoratore posta a base del recesso datoriale non era riconducibile all’articolo 2110 e ciò perché le assenze non erano conseguenza necessitata della malattia o di uno stato patologico del lavoratore incompatibile con l’attività lavorativa.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c. in riferimento all’art. 3 L n. 604/1966.
Rileva che la società aveva denunciato lo scarso rendimento del lavoratore, l’impossibilità del suo normale utilizzo produttivo, essendo lecito presumere il ripetersi anche in futuro di un’analoga situazione; il S. era soggetto inidoneo a rendere una prestazione accettabile e che, pertanto, non sussisteva l’obbligo del datore di lavoro del “pati” imposto dall’art 2110 c.c..
Le censure sono infondate.
Questa Corte ha più volte enunciato il principio che “la malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (cfr Cass. N. 1861/2010, n. 1404/2012). Deve pertanto, affermarsi anche nella fattispecie in esame, nella quale non vi è stato superamento del periodo di comporto né accertamento dell’inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto, ma risulta denunciato soltanto il fenomeno di malattie intermittenti, che l’incidenza delle assenze per malattia del S. è regolata unicamente dall’art. 2110 cod. civ. che si pone in rapporto di specialità, e quindi di deroga, sia rispetto alle norme degli artt. 1256 e 1464 cod. civ., sia rispetto a quella dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604.
La Corte d’Appello si è attenuta ai suddetti principi facendone corretta applicazione.
Ha rilevato che “le assenze del lavoratore sono state discontinue, reiterate ed a singhiozzo, senza peraltro superare il periodo di comporto ….. e senza dare origine ad alcuna contestazione disciplinare. Non risultano infatti assenze ingiustificate a seguito di visita di controllo, che non abbia confermato la patologia o non abbia reperito il lavoratore; del resto l’effettività delle patologie è stata confermata, in sede di escussione testimoniale dal medico curante …”. La Corte ha, altresì, rilevato che il datore di lavoro non aveva in alcun modo provato che “le assenze dell’appellante fossero più rilevanti, a livello organizzativo, di quelle dei colleghi” pur essendo oggetto di contestazione l’impossibilità di utilizzare la prestazione lavorativa “in relazione alle esigenze organizzative e produttive” dell’azienda. Ha, quindi, concluso richiamando l’art. 2110 c.c. ed il suo carattere speciale rispetto alla norma generale dell’impossibilità sopravvenuta (art. 1464 c.c.) e sulla disciplina limitativa dei licenziamenti.
Le censure della ricorrente non sono idonee, pertanto, ad invalidare la decisione impugnata con conseguente rigetto del ricorso.
Nulla per spese processuali non essendosi costituita la parte intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla per spese.
Roma 4/12/2012
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