CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 giugno 2013, n. 16098
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Violenza sessuale con lesioni in danno di altra dipendente – Onere probatorio – Ripartizione
Svolgimento del processo
Con sentenza del 9.4.2010, la Corte di Appello di Roma respingeva il gravame proposto da T. C. F. avverso la pronunzia di primo grado con la quale era stato rigettato il ricorso proposto dal predetto, inteso alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Provincia italiana della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, il 2.3.2004, per violenza sessuale con lesioni in danno di altra dipendente. La Corte del merito rilevava che, nella lettera di giustificazioni del 25.2.2004, il T. aveva evidenziato alcune circostanze che non assumevano significato a fronte della circostanziata denunzia della parte lesa, D. L., tenuto conto del fatto che anche il giudice penale aveva raggiunto lo stesso convincimento sulla base di ulteriori rilievi ben utilizzabili anche dal giudice civile per la formazione del proprio convincimento (diagnosi di lesioni nel referto del Pronto soccorso, contusioni al volto compatibili con la versione fornita dalla parte lesa). Riteneva, poi, la sanzione proporzionata alla gravità dell’addebito ed il comportamento del T. idoneo ad integrare la giusta causa di licenziamento anche con riferimento alla previsione contrattuale di carattere non vincolante e comunque sicuramente riferibile anche a molestie a colleghi di lavoro, oltre che a degenti e/o ad accompagnatori.
Per la cassazione di tale decisione ricorre il T., con quattro motivi.
Resiste, con controricorso, la intimata, che illustra le proprie difese con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il T. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e sostiene l’inidoneità a fini probatori del solo richiamo alla denunzia querela ed alla deposizione della teste D..
Con il secondo motivo, lamenta violazione dell’art. 421 c.p.c., sul rilievo che, per la ricerca della verità materiale, il giudice avrebbe dovuto richiedere l’escussione come testi di persone presenti all’aggressione.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge 604/66, osservando che non era stata valutata la mancata attivazione della resistente per accertare e dimostrare l’intervenuta violazione degli obblighi contrattuali idonea a compromettere il rapporto di fiducia.
Con il quarto motivo, ascrive alla sentenza impugnata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, assumendo I’incongruità della tesi secondo la quale il T., per dimostrare l’illegittimità del proprio licenziamento, avrebbe dovuto demolire l’impianto accusatorio della collega di lavoro. Aggiunge che la circostanza che il lavoratore si sia reso autore di un fatto costituente reato non è di per sé sufficiente a determinarne il licenziamento per giusta causa, essendo necessario accertare la sussistenza gli elementi di cui all’art. 2119 c.c.
Il primo motivo di ricorso di fonda sulla contestazione del modus operandi del giudice del gravame che, nel giudizio valutativo delle prove acquisite, avrebbe valorizzato la denunzia querela sporta dalla parte lesa senza tenere conto della versione dei fatti offerta dal lavoratore.
In tema di valutazione delle risultanze probatorie, in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (cfr. Cass. 20.6.2006 n. 14267). Peraltro, l’osservanza degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non richiede che il giudice di merito dia conto dell’esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata, evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (cfr. Cass. 13.1.2005 n. 520). La censura si presenta quindi, per come prospettata, inammissibile prima ancora che infondata, in quanto con la stessa si mira a sostenere l’erroneità della ricostruzione effettuata dalla Corte d’appello, contrapponendosi alla stessa la propria versione dei fatti. Si tende, invero, con la stessa a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che l’assunto che a fondamento del decisum non vi è la prova concreta dei fatti oggetto di contestazione disciplinare poggia sulla considerazione della inidoneità dell’apprezzamento compiuto dal giudicante con riguardo al solo contenuto della denunzia querela della parte lesa, facendosi valere nella sostanza la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte e prospettandosi un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti. Ma al riguardo deve osservarsi che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono non all’erronea applicazione dei principi sanciti dalle norme richiamate in rubrica ma al libero convincimento del giudice, il quale si è basato anche sulla compatibilità dei dati oggettivi del referto del Pronto soccorso con la versione prospettata dalla parte lesa.
Quanto al secondo motivo di ricorso ed alla dedotta violazione dell’art. 421 c.p.c., relativo all’esercizio dei poteri istruttori officiosi, la Corte di cassazione ha più volte ribadito che, nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere – dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall’art. 134 cod. proc. civ., ed al disposto di cui all’art.. 111, primo comma, Cost. sul “giusto processo regolato dalla legge” di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Tali poteri non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendosi d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata, o allorquando, infine, si richieda non tempestivamente e non ritualmente la prova tanto da ritardare – in violazione del principio della ragionevole durata del processo – i tempi delta decisione (sui poteri istruttori del giudice del lavoro cfr. Cass. Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353, e, più di recente, ex plurimis, Cass. 5 febbraio 2005 n. 2379, nonché, da ultimo, Cass. 5 novembre 2012 n. 18924). Nel caso in esame non è conforme ai principi di diritto richiamati sostenere che il giudice avrebbe dovuto ammettere a deporre i soggetti che risultavano presenti al momento dell’aggressione, senza che la censura, in ossequio al principio di autosufficienza, richiami deduzioni avanzate dalla parte già nella fase di merito intese a sollecitare l’esercizio dei poteri ufficiosi.
Quanto al terzo motivo, deve ritenersi pacifico il principio richiamato dal ricorrente secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all’elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a quest’ultimo la prova di una esimente (cfr. Cass, 23.2.2009 n. 4368). Tuttavia non coglie nel segno il rilievo in base al quale il datore non si sarebbe attivato per accertare e dimostrare, con il necessario grado di certezza, quelle violazioni degli obblighi contrattuali in grado di compromettere il rapporto di fiducia. Ed invero, il datore di lavoro ha chiesto di escutere come teste la D. e la deposizione dalla stessa resa, ritenuta circostanziata e genuina, unitamente al contenuto della denunzia querela dalla medesima sporta sono stati ritenuti elementi più che sufficienti a giustificare il convincimento del giudice del gravame nel senso della piena attendibilità della versione fornita, sulla cui base è stata articolata la contestazione disciplinare. Peraltro, i fatti contestati hanno trovato conforto, come coerentemente evidenziato dalla Corte del merito, nelle deposizioni rese da altri testimoni e nei risultati del referto sanitario, compatibili con la dinamica del comportamento sessualmente violento tenuto dal T., materiale questo già esaminato in sede penale ed acquisito in funzione della necessità di valutare autonomamente gi elementi posti a base della sentenza penale di primo di grado di condanna del T.. Al riguardo deve considerarsi che l’art. 654 cod. proc. pen., diversamente dall’art. 652 relativo ai giudizi civili di risarcimento del danno, esclude che possa avere efficacia in un successivo giudizio civile la sentenza penale di condanna o di assoluzione, con riferimento ai soggetti che non abbiano partecipato al giudizio penale, indipendentemente dalle ragioni di tale mancata partecipazione. Ne consegue che nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore sulla base di un fatto per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudice civile non è vincolato dal giudicato penale ed è quindi abilitato a procedere autonomamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito al processo, nel caso di mancata partecipazione al giudizio penale del datore di lavoro, che pure era stato posto in condizione di farlo. A tale valutazione ha proceduto il giudice del lavoro sulla base del materiale acquisito in quel processo, pienamente utilizzabile nel giudizio avente ad oggetto l’illegittimità del licenziamento irrogato all’imputato. Non può, pertanto, ritenersi che l’onere probatorio di cui all’art. 5 I. 604/66 non abbia trovato assolvimento da parte del soggetto oneratone, senza considerare che i fatti accertati sono stati valutati anche in relazione all’esigenza che gli stessi risultassero connotati dalla intenzionalità e dal profilo del dolo o della colpa grave del loro autore e che la sanzione irrogata si rivelasse adeguata alla gravità della condotta. A tale riguardo è sufficiente osservare che in tema di ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass. 6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cd. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione e privo di errori logici o giuridici.
A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., (norma cd. elastica) compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.
Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata dal lavoratore sotto tale profilo appare rispettosa dei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte, in quanto il giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della stessa, rilevando che il comportamento del T. è connotato da inaudita gravità ed è quindi più che sufficiente ad integrare la giusta causa di licenziamento disciplinare sul piano della proporzionalità della sanzione, essendo stata la condotta posta in essere ritenuta capace di integrare anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale un comportamento idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, tenuto conto che le eventuali convinzioni personali del ricorrente sono del tutto irrilevanti, in presenza di elementi che valgano a provare il contrario sul piano dell’oggettività del suo comportamento.
Peraltro, deve anche aversi riguardo al fatto che, come, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, l’intensità della fiducia richiesta è differenziata a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono e che il fatto deve valutarsi nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante alla potenzialità del medesimo a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr., tra le altre, Cass. 10.6.2005 n. 12263).
Nella specie, il licenziamento per giusta causa è stato adottato non solo in piena coerenza con le previsioni collettive, che, all’art. 33 lett. N) c.c.n.l. applicabile, prevedono il licenziamento per giusta causa per “molestie di carattere sessuale rivolte a degenti e/o accompagnatori all’interno della struttura”, – non essendovi motivi per non ritener inclusa nella previsione anche la violenza posta in essere nei confronti di una collega – ma anche in ragione della considerazione che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr. Cass. 16.3.2004 n. 5372; Cass. 18.2.2011 n. 4060).
Alla stregua di tutte tali osservazioni e ritenuto che anche il quarto motivo debba disattendersi, non ravvisandosi nella motivazione le lacune o la contraddittorietà denunziate senza peraltro addurre elementi in grado dì inficiare l’impianto motivazionale con carattere di decisività, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il T. al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per esborsi ed in euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
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