Corte di Cassazione sentenza n. 16453 del 27 settembre 2012
RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO – PERIODO DI MALATTIA – ASSENZA DURANTE LA VISITA FISCALE
massima
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L’assenza ingiustificata alla visita medica di controllo del lavoratore assente per malattia rileva sotto il profilo della violazione dell’obbligo – sussistente nei confronti del datore di lavoro – di sottoporsi al controllo, sanzionabile, in relazione alla gravità del caso, anche con il licenziamento; il recesso del datore di lavoro non presuppone necessariamente l’esistenza di una specifica previsione di tale mancanza nel codice disciplinare applicabile, atteso che la predisposizione di una normativa secondaria è richiesta solo per l’esercizio del potere disciplinare con l’adozione di misure conservative, mentre il potere di recedere dal rapporto per giusta causa o giustificato motivo deriva direttamente dalla legge.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 9/12/08 – 30/7/09 la Corte d’appello di Venezia – sezione lavoro ha accolto l’eccezione subordinata della società appellata G. s.p.a ed ha parzialmente riformato la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Padova, impugnata da S.E., che aveva respinto la domanda di quest’ultimo volta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli il 21/3/03 e, per l’effetto, ha convertito il predetto atto di recesso in licenziamento per giustificato motivo, con conseguente condanna della stessa appellata al pagamento in favore del ricorrente dell’indennità sostitutiva di preavviso come prevista dal contratto collettivo applicabile nella fattispecie.
La Corte territoriale ha spiegato che non sussistevano dubbi sulla gravità del licenziamento, atteso che questo era stato intimato per il fatto che il dipendente, assente dal lavoro per malattia, aveva omesso di comunicare il mutamento di indirizzo al fine di consentire di essere reperito in caso di controllo, non era stato rinvenuto dal medico fiscale all’atto della visita di controllo e si era allontanato nello stesso periodo di malattia per cinque giorni dall’Italia per recarsi ad una manifestazione sportiva all’estero; tuttavia, la stessa Corte ha ritenuto che la gravità dei fatti contestati non era tale da rendere impraticabile la prosecuzione del rapporto per la durata del termine di preavviso, per cui il recesso poteva essere convertito in licenziamento per giustificato motivo.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso lo S., il quale affida l’impugnazione a cinque motivi di censura. Resiste con controricorso la G. S.p.A. in liquidazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo il ricorrente denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 n. 3 c.p.c. dell’art. 2103 c.c.
In particolare è contestata la sentenza impugnata nella parte in cui è condivisa la decisione del primo giudice di non considerare tutte le vicende pregresse alla questione del licenziamento oggetto di causa, adducendosi che, in tal modo, è stata omessa la disamina del contesto dei fatti di natura persecutoria, quali il subito demansionamento ed il mancato riconoscimento delle ferie, in cui il licenziamento stesso era maturato; nel contempo, ci si duole della negata ammissione dei mezzi istruttori diretti a provare i comportamenti datoriali ritenuti vessatori.
Il motivo è infondato.
Anzitutto, non può sfuggire un profilo di inammissibilità rappresentato dal fatto che nel formulare la denunzia del vizio di violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente non indica, in realtà, la “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, né spiega qual’era il diverso principio che il giudice d’appello avrebbe dovuto applicare in relazione alla suddetta norma del codice civile, limitandosi a segnalare una presunta omessa disamina del lamentato comportamento persecutorio posto in essere dal datore di lavoro prima del suo licenziamento, caratterizzato da un asserito demansionamento e dalla negazione delle ferie, cioè, in ultima analisi, un vizio della motivazione. Tuttavia, sotto quest’ultimo aspetto il motivo è infondato in quanto il giudicante ha spiegato, con argomentazione congrua ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, che le vicende pregresse erano estranee alla materia del contendere che era di tutt’altra natura e che aveva ad oggetto esclusivamente la questione della legittimità dell’impugnato licenziamento in relazione a fattispecie disciplinari specificatamente contestate (omessa comunicazione del mutamento di indirizzo per le visite fiscali di controllo medico connesse alle assenze per malattia, mancato rinvenimento all’atto della visita di controllo medico, essersi allontanato all’estero nello stesso periodo di malattia), per cui anche la richiesta di ammissione di mezzi di prova sulle vicende precedenti all’atto di recesso era irrilevante ai fini della decisione.
Orbene, non va dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti).” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).
Oltretutto, il ricorrente nemmeno spiega in quale modo il contesto persecutorio, che a suo giudizio sarebbe stato posto in essere nei suoi confronti prima del licenziamento, potesse rappresentare un punto decisivo la cui omessa disamina avrebbe potuto influire sulla valutazione giudiziale dei diversi fatti oggetto di contestazione disciplinare posti a base del licenziamento.
2. Col secondo motivo E.S .segnala l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c., nonché la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 7, comma 1, della legge n. 300/70, oltre che dell’art. 22 del CCNL Metalmeccanici – Industria. Secondo il ricorrente la Corte d’appello avrebbe omesso la disamina della questione relativa alla mancata affissione del codice disciplinare comportante la violazione dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, mentre l’affermazione della stessa Corte in ordine alla ritenuta contrarietà del suo comportamento ai principi di correttezza e buona fede avrebbe dovuto essere considerata come apodittica. Aggiunge la difesa del lavoratore che l’assenza di quest’ultimo alla visita di controllo senza giustificato motivo comportava solo la decadenza dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l’intero periodo, non essendo tale comportamento sanzionato col licenziamento dal contratto collettivo di settore. Il motivo è infondato.
Anzitutto, non è esatto il rilievo per il quale la Corte di merito avrebbe trascurato la disamina della questione della affissione del codice disciplinare in quanto la stessa Corte, nell’esaminare le eccezioni dell’appellante inerenti al contestato dovere di rendersi reperibile alla visita di controllo ed alla lamentata mancanza della suddetta forma di pubblicità all’interno dell’azienda, spiega che era proprio la particolare gravità del caso, rappresentata dal fatto che il lavoratore si era recato all’estero in occasione di una manifestazione sportiva durante il periodo in cui il medesimo risultava assente per malattia, ad aver determinato una irreparabile lesione del vincolo fiduciario, dando, in tal modo, risalto ad un comportamento costituente violazione di doveri fondamentali per il rapporto di lavoro, la valutazione della cui gravità è comunemente percepibile e non necessita di una particolare forma di pubblicità.
In ogni caso, come ripetutamente affermato da questa Corte in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il provvedimento disciplinare faccia riferimento a situazioni che concretizzano una violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (v. fra tante Cass. sez. lav. n. 20270 del 18/9/2009, Cass. sez. lav. n. 4778 del 9/3/2004, Cass. sez. lav. n. 5434 del 07/04/2003). In particolare, si è ritenuto che ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione; ne consegue che i comportamenti del lavoratore costituenti gravi violazioni dei doveri fondamentali sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno all’interno del codice disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso, purché siano osservate le garanzie previste dall’art. 7, commi secondo e terzo, della legge n.300 del 1970. (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 16291 del 19/08/2004)
Orbene, non può esservi dubbio sul fatto che nel caso in esame i fatti addebitati al ricorrente concretizzavano la violazione di alcuni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, come quello di correttezza e di buona fede nello svolgimento dello stesso, in quanto non limitato alla sola esecuzione materiale della prestazione lavorativa ma comprensivo anche del dovere di collaborazione nell’esecuzione degli obblighi scaturenti dalla dipendenza nell’ambito del più ampio rapporto sinallagmatico lavorativo, per cui non si imponeva nella fattispecie, ai fini della validità della sanzione irrogata, la garanzia della pubblicità del codice disciplinare.
Quanto alla censura inerente alla lamentata violazione della norma di cui all’art. 22 del CCNL dei metalmeccanici si osserva che la stessa è inammissibile, non avendo il ricorrente prodotto il relativo contratto. Invero, nell’elenco degli atti indicati come depositati, trascritto in calce al ricorso, non è menzionato il deposito del summenzionato contratto collettivo, né a tal fine può ritenersi sufficiente la mera indicazione del deposito dei fascicoli dei precedenti gradi del giudizio. Si è, infatti, affermato (Cass. sez. 5, sentenza n. 303 del 12/1/2010) che “l’art. 369, quarto comma, c.p.c. nel prescrivere che unitamente al ricorso per cassazione debbano essere depositati a pena d’improcedibilità “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”, non distingue tra i vari tipi di censura proposta: ne consegue che, anche in caso di denuncia di “error in procedendo”, gli atti processuali devono essere specificamente e nominativamente depositati unitamente al ricorso e nello stesso.”
Da ultimo le Sezioni unite di questa Corte hanno statuito (Cass. Sez. Un. n. 22726 del 3/11/2011) che “in tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., cosi come modificato dall’art. 7 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, terzo comma, c.p.c., ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari ai reperimento degli stessi.”
3. Col terzo motivo ci si duole della violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 n. 3 c.p.c. dell’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 300/70 e dell’art. 23 del CCNL dei Metalmeccanici.
Si contesta, in particolare, l’affermazione della Corte d’appello secondo cui dalla mancata comunicazione del nominativo del sindacalista di fiducia del lavoratore, il quale avrebbe dovuto assisterlo in sede di audizione a seguito delle giustificazioni rese per iscritto, si evinceva la pretestuosità delle richieste di differimento dell’incontro da parte del dipendente, assumendosi che nessuna norma imponeva a quest’ultimo di effettuare preventivamente la suddetta informativa. Si aggiunge che nella fattispecie difettava il requisito dell’immutabilità della contestazione disciplinare dal momento che il licenziamento era stato intimato per la diversa circostanza della mancata comunicazione del nominativo del sindacalista di fiducia del lavoratore, per cui l’atto di recesso era da considerare illegittimo anche alla luce dell’art 23 del ccnl dei metalmeccanici che escludeva l’irrogazione di qualsiasi sanzione in assenza di una previa contestazione dell’addebito, Il motivo è infondato.
Invero, dalla lettura della motivazione della sentenza concernente la circostanza dei rinvii dell’audizione del lavoratore a causa della mancata comunicazione da parte di quest’ultimo del nominativo del sindacalista che doveva assisterlo, si evince che la Corte di merito ha tratto da tale situazione solo il convincimento che si era rivelata giustificata la decisione della parte datoriale di proseguire egualmente nel procedimento disciplinare, la qual cosa è ben diversa dall’autonomo giudizio maturato dallo stesso collegio in merito alla fondatezza degli addebiti ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento. Né risponde a verità che la Corte territoriale ha avallato un mutamento della contestazione posta a base del licenziamento, atteso che i giudici d’appello hanno spiegato, con argomentazione congrua, che i motivi del recesso erano esattamente quelli contestati nella lettera inviata al lavoratore, il cui testo era stato riprodotto nella lettera finale del licenziamento, per cui il riferimento in quest’ultima alla ulteriore circostanza rappresentata dalla condotta dilatoria assunta dal dipendente in occasione delle richieste di rinvio della sua audizione personale assumeva rilievo solo in quanto la parte datoriale aveva voluto giustificare, in tal modo, la propria decisione di dar corso egualmente al procedimento disciplinare. Quanto alla parte della censura che fa perno sulla norma collettiva di cui all’art. 23 del CCNL dei metalmeccanici non può che rilevarsene l’inammissibilità per la mancata produzione del testo di tale accordo, così come già spiegato in occasione della disamina del precedente motivo di doglianza.
4. Col quarto motivo si denunzia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 36 della Costituzione, degli artt. 2103 e 2109 c.c., dell’art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003, nonché l’omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. Si contesta, in tal caso, la mancata considerazione da parte dei giudici d’appello, ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento, della questione concernente il dedotto demansionamento ed il contestato diniego delle ferie quali atti costituenti l’espressione di un asserito comportamento persecutorio della parte datoriale.
Il motivo è inammissibile in quanto attraverso lo stesso il ricorrente tenta di introdurre nel presente giudizio di legittimità questioni di fatto riservate al giudice del merito, questioni che, oltretutto, quest’ultimo ha già adeguatamente vagliato, escludendone la rilevanza ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento.
Infatti, la Corte di merito ha spiegato che il licenziamento era basato su circostanze specificatamente contestate (omessa comunicazione del mutamento di indirizzo per le visite fiscali di controllo medico connesse alle assenze per malattia, non essersi fatto rinvenire al momento della visita di controllo medico, essersi allontanato all’estero nello stesso periodo di malattia per una manifestazione sportiva), diverse da quelle del demansionamento e del diniego delle ferie richiamate dallo S. in maniera inconferente.
5. Con l’ultimo motivo è lamentata la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 5 del D.L. 12/9/1983 n. 463, conv. in legge 11/11/83 n. 638, degli artt. 23 e 25 del CCNL dei metalmeccanici e dell’art. 2119 c.c. Il ricorrente richiama l’antefatto del suo stato depressivo che l’aveva indotto ad allontanarsi dal lavoro per poter superare il grave disagio psicologico causatogli dalle pregresse vicende lavorative, anche in considerazione della circostanza che gli erano state negate le ferie, e spiega che la mancata comunicazione del cambiamento di domicilio era dipesa solo da una sua dimenticanza. Nel contempo il medesimo si duole del fatto che la Corte d’appello abbia potuto ritenere che vi fosse proporzione tra la sanzione irrogatagli e la reale entità dell’addebito, anche alla luce delle previsioni collettive di cui agli artt. 23 e 25 del CCNL dei metalmeccanici in materia di licenziamento, e a tal fine evidenzia che lo stesso organo giudicante ha avvertito l’esigenza di ritenere la legittimità dell’atto espulsivo solo alla stregua del giustificato motivo e non della giusta causa, costituente il titolo del recesso datoriale.
Il motivo è infondato per le seguenti ragioni: anzitutto, è dato cogliere un profilo di inammissibilità della censura nella parte in cui si reitera l’illustrazione di circostanze di fatto devolute alla cognizione del giudice di merito che fanno leva sulla situazione del ricorrente pregressa al licenziamento, circostanze che la Corte territoriale ha ritenuto ininfluenti ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento con giudizio sottratto ai rilievi di legittimità in quanto adeguatamente motivato ed esente da vizi di natura logico-giuridica, così come già spiegato in occasione della disamina del precedente motivo. Inoltre, anche il giudizio sulla proporzione tra addebito contestato e sanzione inflitta sfugge ai rilievi di legittimità, in quanto è congruamente motivata la relativa decisione che ha posto in evidenza le condotte del lavoratore che avevano incrinato irrimediabilmente la sussistenza del necessario vincolo fiduciario, vale a dire quella di non aver comunicato il cambiamento di domicilio per consentire i controlli medici, quella di non farsi rinvenire all’atto della visita fiscale e quella di essersi allontanato all’estero per una manifestazione sportiva durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia. Infine, per quel che concerne la parte della censura che si basa sul richiamo alle norme del contratto collettivo di riferimento in materia di licenziamento non può che ribadirsene l’inammissibilità per la mancata produzione del relativo testo, così come spiegato in occasione della disamina del secondo motivo del ricorso. Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di €40,00 per esborsi e di € 3000,00 per onorario, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.
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