Corte di Cassazione sentenza n. 17087 del 8 ottobre 2012
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – MANSIONI DEL LAVORATORE – ESERCIZIO DELLO “IUS VARIANDI” DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO – LIMITI – CONDIZIONI – EQUIVALENZA IN CONCRETO DELLE NUOVE E DELLE PRECEDENTI MANSIONI – NECESSITA’
massima
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Ai sensi dell’art. 2103 c.c., il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Se da un lato non sussiste alcun obbligo per il datore di lavoro di tener ferme le mansioni di assunzione, dall’altro, in caso spostamento ad altre mansioni, vi è l’obbligo di adibire il dipendente a mansioni equivalenti. Ne discende che, quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (tanto nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, quanto nel caso in cui le stesse si siano esaurite), lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve attenersi alla regola della equivalenza. Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, poi, deve essere valutata dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 709/09, decidendo sull’appello proposto da C.G. nei confronti della società D.S. srl, in ordine alla sentenza n. 2927/07 emessa dal Tribunale di Milano, in parziale riforma di quest’ultima, accertava l’illegittimità del licenziamento disposto per giustificato motivo oggettivo e condannava la società a reintegrare il lavoratore nelle mansioni svolte o in mansioni equivalenti e a pagargli a titolo risarcitorio, euro 4429,42, al mese, dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegra, detratto l’aliunde perceptum, come risultante dalle dichiarazioni dei redditi, oltre rivalutazione e interessi. Accertava che a far tempo dal marzo 2003, fino al licenziamento, il C. era stato dequalificato e, di conseguenza, condannava la società a pagare, a titolo di danno non patrimoniale, una somma pari al 10 per cento delle retribuzioni mensili per ogni mese di dequalificazione. Confermava ne! resto la sentenza impugnata.
2. Il C. aveva adito il Tribunale chiedendo che fosse accertata l’illegittimità del licenziamento e della dequalificazione dal 1° aprile 2002, con la condanna della società a reintegrarlo e a pagare il risarcimento danni, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, e per la dequalificazione, il danno alla professionalità, all’immagine, il danno biologico, nonché al pagamento dei compensi variabili, anche invia risarcitoria.
3. Per la cassazione della sentenza d’appello ricorre la società D.S. srl, prospettando tre motivi di ricorso.
4. Resiste con controricorso C.G.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.
Ed infatti, la Corte d’Appello pur ritenendo che la società avesse adottato opportune iniziative per far fronte alla crisi finanziaria, attuando dall’inizio del 2003 una ristrutturazione volta alla riduzione dei costi, riteneva non provata la sussistenza di giustificato motivo oggettivo quale ragione del licenziamento del C., in quanto le funzioni commerciali erano state sottratte progressivamente al C., almeno da quando era stato distaccato presso altra società, e dopo il suo licenziamento in data 4 ottobre 2004. erano state svolte da altri lavoratori (L., C.) oltre all’ADR., V. e A., come indicato nella lettera di licenziamento.
Assume la ricorrente che costituisce causa legittima di licenziamento, per giustificato motivo oggettivo, la soppressione delle mansioni cui il lavoratore è addetto o anche la diversa ripartizione ed attribuzione delle stesse in base a scelte del datore di lavoro. Nella specie i lavoratori che venivano addetti a tali mansioni erano già tutti inseriti nella struttura organizzativa della società al momento del licenziamento, mentre il G. era stato sempre addetto a mansioni diverse.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.
Erroneamente la Corte d’Appello avrebbe ritenuto che essa società non aveva assolto all’obbligo di verificare la sussistenza di una posizione di lavoro analoga a quella soppressa a cui assegnare il lavoratore, provando altresì di non avere assunto per un congruo periodo di tempo dipendenti nella stessa qualifica di funzionario commerciale ricoperta dal ricorrente.
Quanto poi alle assunzioni successive al licenziamento del C., che venivano smentite dal teste A., la ricorrente, ponendo in luce vizio di motivazione in merito, osservava che:
N. F. non era stato dipendente della D.S. srl, ma della D. S. spa. come confermato dal teste E.Q.;
C. C. svolgeva un’attività del tutto diversa e inferiore a quella di funzionario commerciale svolta dal ricorrente consistente nella preparazione degli elenchi dei nominativi per la attività di telemarketing, effettuazione del piano di telemarketing, realizzazione dell’attività stessa, come confermato dal teste E. Q.; le deduzioni del C. circa altre posizioni (N. e C.), effettuate all’udienza del 25 maggio 2005, costituivano elementi fattuali tardivamente dedotti per la prima volta in sede di interrogatorio libero, in violazione degli artt. 414 e 420 c.p.c.;
N. non era stato dipendente della società come affermato dal teste Q., mentre era inattendibile la testimonianza di A. S. essendosi la stessa limitata a riferire voci conosciute de relato; il C. non svolgeva le funzioni svolte dal C. occupandosi di gestione delle risorse umane come riferito dal teste Q.
Erroneamente, poi, la Corte d’Appello riteneva che era onere della società provare la possibilità di reimpiego anche in mansioni inferiori rientranti nei bagaglio professionale del lavoratore, essendo a ciò tenuto solo per le mansioni equivalenti.
La ricorrente censurava la statuizione con la quale il giudice d’appello affermava che altri due funzionari, non dipendenti, con costi e responsabilità minori, continuavano a svolgere funzioni commerciali, in quanto nel caso di licenziamento dovuto ad una riorganizzazione aziendale, una volta accertata la non pretestuosità della stessa, non è consentita alcuna indagine sul merito e sull’opportunità delle scelte imprenditoriali.
Irrilevante era infine il dato, valorizzato in sentenza, per cui dopo il licenziamento sarebbero stati assunti circa 30 tecnici, non essendo nuove assunzioni, in linea di principio incompatibili con il licenziamento.
2.1. I primi due motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente, in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.
2.2. Secondo l’indirizzo costante di questa Suprema Corte, nella nozione di giustificato motivo aggettivo di licenziamento e riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi.
Tale principio consolidato (che non può che essere riaffermato anche nelle ipotesi di “esternalizzazione” o “terziarizzazione” di compili o servizi, così come in quelle di “ridistribuzione” delle mansioni) va, poi, coordinato con il principio, parimenti costantemente affermato, secondo cui “il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore”, con la conseguenza che “non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operalo, né essendo necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite”.
In definitiva, quindi, la insindacabilità del merito della scelta imprenditoriale non è di ostacolo alla verifica in concreto da parte del giudice della effettività della scelta operala dall’imprenditore, della non pretestuosità della stessa e della non mera strumentalità della medesima soltanto ad un incremento del profitto.
In altre parole, ed in sostanza, il giudice deve pur sempre riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economico-gestionale, quella “inerenza” della scelta imprenditoriale e delle “ragioni” del conseguente licenziamento, “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, richiesta dalla legge n. 604 del 1966, art. 3.
In tale quadro è stato, pertanto, ulteriormente precisato che “il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della legge 15 luglio 1966, ex art. 3 è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegale ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale” (v., Cass. n. 21282 del 2006).
In ogni caso, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile – in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio dalla impossibilità di repechage – il datore di lavoro deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti dei rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (Cass. n. 7046 del 2011).
2.3. Orbene la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi, nel ritenere non sussistente il giustificato motivo oggettivo, laddove alla luce delle risultanze istruttorie, ha rilevato che le funzioni commerciali del G. erano state progressivamente sottratte allo stesso e affidate ad altri lavoratori dopo il suo licenziamento, circostanze contrastanti con le condizioni richieste dalla giurisprudenza di legittimità per procedere al licenziamento quali l’assenza di pretestuosità e, nella specie, la verifica della possibilità di repechage, tenuto conto, altresì, della continuità posta in evidenza dalla Corte d’Appello tra demansionamento e licenziamento con la progressiva assegnazione delle funzioni commerciali svolte dal C. ad altri lavoratori.
2.4. Peraltro, deve ribadirsi che la denuncia di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale. Le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass., S.U., n. 13045 del 1997 e più recentemente Cass. n. 21680 del 2008) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnala, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. (Cass., n. 8832 del 2011).
Nell’offrire una propria lettura dei fatti, richiamando stralci delle alcuni passi isolati delle testimoniali peraltro, la ricorrente chiede, in ordine a ciò, un riesame nel merito che, come si è detto, non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2103 c.c..
Assume la ricorrente che rientra nei poteri dell’imprenditore variare le mansioni assegnate al lavoratore, tenuto conto, altresì, che “l’equivalenza” non significa “identità”. La dequalificazione veniva ritenuta in ragione della riduzione dei contratti assegnati al G., senza fare accertamenti circa l’eventuale abbassamento globale del livello delle prestazioni del ricorrente, circostanza non verificatasi in ragione delle mansioni svolte dal lavoratore.
3.1. Il Motivo non è fondato e deve essere rigettato.
L’art. 2103 c.c., sancisce: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 1575 del 2010), non vi è alcun obbligo per il datore di lavoro di tener ferme le mansioni di assunzione, ma in caso spostamento ad altre mansioni, vi è obbligo di adibire il dipendente a mansioni equivalenti. Quindi, quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (tanto nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, che nel caso in cui le stesse si siano esaurite), lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve attenersi alla regola della equivalenza
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro deve essere valutata dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass. n. 425 del 2006).
Nella specie, la Corte d’Appello, peraltro con logica ed adeguata motivazione, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, ritenendo sussistente la dequalificazione del C., dalla data del distacco ad altra società, in quanto i contratti conclusi dallo stesso venivano assegnati ad altri lavoratori dipendenti di altra società, e tale assegnazione non poteva essere giustificata genericamente, allegando che le due società avevano gli stessi clienti, in assenza di dettagli sui contratti (data, nome del cliente, contenuto e valore); ciò, in particolare, tenuto conto delle competenze, per il settore marketing, acquisite dal C. nel settore commerciale.
Rimane priva di pregio la deduzione della ricorrente che ciò non avrebbe costituito un abbassamento del livello professionale del G., in quanto Fattività principale di quest’ultimo consisteva nel reperire nuovi clienti e non gestire clienti già acquisiti.
Ed infatti, da un lato, ciò conferma quanto affermato dalla Corte d’Appello in ordine al fatto che la gestione dei clienti acquisiti rientrava nell’attività del G.; dall’altro, il giudice di appello, alla luce della valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, riteneva intervenuta la dequalificazione dal momento che i clienti più importanti erano stati assegnati ad altri lavoratori, mentre al G. erano stati lasciati clienti di scarsa importanza, così che lo stesso aveva un numero di clienti inferiore rispetto al passato.
4. Il ricorso deve essere rigettato.
5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro quaranta per esborsi, euro duemilacinquecento per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA.
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