Corte di Cassazione sentenza n. 22210 del 7 dicembre 2012
LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE – PROCEDIMENTO E PUNIZIONI DISCIPLINARI – TERMINE DI DECORRENZA – LEGITTIMITA’
massima
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Il disposto del quinto comma (ultimo periodo) dell’art. 55 del D. Lgs. 165/2001, – secondo cui, con riferimento al procedimento disciplinare, “trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici giorni” – si riferisce univocamente alla sola evenienza che il dipendente non si avvalga della facoltà di difendersi e, in tal caso, prescrive di applicare la sanzione nel termine di quindici giorni dalla scadenza del primo termine, non essendo necessarie ulteriori valutazioni dell’Amministrazione; tale disposizione non può essere, invece, estesa alla diversa ipotesi (verificatasi nel caso di specie sottoposto al vaglio della S.C.) di audizione del dipendente, in forza del principio secondo cui le norme sulla decadenza, per il loro carattere eccezionale, non sono applicabili oltre i casi espressamente previsti, ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale.
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Svolgimento del processo
Con sentenza del 5.8.2008, la Corte di Appello di Torino, in accoglimento del gravame proposto da C. G. ed in riforma della sentenza impugnata, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato e condannava l’Agenzia delle Entrate alla reintegra del predetto nel posto di lavoro con le conseguenze economiche di legge. Osservava che !a sentenza penale passata in giudicato il 27.9.2004, con !a quale la Corte di Appello aveva ridotto la pena per i reati di cui agli artt. 575, 577 e 648 c.p. nonché all’art. 23 I. 110/75 ad anni 4 e mesi 11 di reclusione, era stata trasmessa alla Agenzia il 14.11.2006, che in precedenza tale ente aveva chiesto notizie in ordine allo stato del procedimento apprendendo della pendenza del giudizio in Cassazione in data 21.12.2004, ma che, rispetto a tale comunicazione, non aveva mostrato alcuna solerzia ed interesse nei confronti della vicenda processuale, lasciando trascorrere ben quasi due anni prima di chiedere nuovamente notizie, nei settembre 2006. Da ciò faceva conseguire che, pur prevedendo l’art. 5 comma 4 I. 97/2001 che il procedimento disciplinare iniziasse entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione e pure avendo quest’ultima proceduto alla contestazione il 29.11.2006, la inerzia della stessa assumesse rilevanza ai fini considerati, perché in violazione del principio della immediatezza della contestazione.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’Agenzia delle Entrate, affidando l’impugnazione a due motivi.
Resiste, con controricorso, il C., che propone anche ricorso incidentale condizionato, articolato in unico motivo.
Motivi della decisione
Va, preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 4, della legge 97/2001, ex art. 360, n. 3, c.p.c, assumendo che il legislatore, nell’ambito della novellata disciplina dei rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare per i pubblici dipendenti, ha stabilito in modo chiaro ed univoco un termine di decadenza per l’avvio del procedimento disciplinare, pari a 90 giorni, individuando come dies a quo quello della comunicazione della sentenza all’amministrazione e che sul punto si è reiteratamente pronunciata la Corte di Cassazione, nonché la Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 10 della I. 97/2001 nella parte in cui, in via transitoria, faceva decorrere il termine de quo dalla conclusione del procedimento penale e non dalla comunicazione all’amministrazione della relativa sentenza (C. Cost. 186/2004). Né può rilevare, secondo la ricorrente, quanto deciso dalla Corte di legittimità con sentenza n. 4932/2007, atteso che nella fattispecie esaminata in tale decisione l’amministrazione aveva avuto diretta e piena conoscenza dei fatti di reato in quanto inerenti all’esercizio delle funzioni del dipendente e si era costituita parte civile nell’instaurato procedimento penale, mentre nell’ipotesi in esame i fatti di reati riguardano vicende private delle quali l’Amministrazione poteva avere conoscenza solo con l’esame degli atti del relativo procedimento penale. Inoltre, priva di fondamento deve ritenersi la considerazione per cui il disposto dell’art. 5 della legge citata troverebbe applicazione solo per i fatti di reato inerenti all’esercizio delle funzioni del dipendente, non rinvenendosi nella norma alcuna limitazione del suo ambito applicativo.
Con il secondo motivo, l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 4°, della I. 97/2001, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c, rilevando, in via subordinata, che, in ogni caso, difettava l’interesse del dipendente alla tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare, dal momento che lo stesso, per effetto della sentenza penale di appello passata in giudicato del 27.9.2004, era stato condannato all’interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni, mentre il procedimento disciplinare risultava concluso il 2.2.2007.
Il primo motivo del ricorso principale è fondato.
Deve al riguardo rilevarsi che – quasi contestualmente al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (t.u. del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che ha riordinato la materia disciplinare nell’art. 55 e segg., abrogando all’art. 72 tutte le disposizione del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 – è intervenuta la L. 27 marzo 2001, n. 97, mirata specificamente a dettare norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, la quale ha in sostanza riformulato la disciplina della L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2, disponendo, all’art. 5, comma 4, che, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti pubblici privatizzati, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare. Quest’ultimo deve concludersi, salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall’art. 653 c.p.p..
Nella specie – diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, che ha valorizzato l’inerzia della amministrazione – il suddetto termine di 90 gg. dalla comunicazione della sentenza è stato ampiamente rispettato e tanto è sufficiente per ritenere legittimo il recesso. Le ragioni poste a fondamento della censura della ricorrente sono dunque condivisibili, perché con le stesse si invoca l’applicazione della norma richiamata nella interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 10.3.2010 n. 5806, Cass. 22.10.2009 n. 22418).
Quanto al rilievo di parte resistente secondo cui la questione della decadenza è cosa diversa dal principio di immediatezza della contestazione, principio valido ed applicabile anche nella presente fattispecie, va osservato, conformemente a quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che, con riferimento al procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti, trova specifica applicazione, in generale, il requisito della tempestività della contestazione previsto dall’art. 55, comma quinto, del d.lgs. n. 165 del 2001, ma che, tuttavia, con riguardo all’ipotesi del rilievo penale dei fatti addebitati, qualora sia intervenuta la sospensione cautelare del dipendente sottoposto a procedimento penale, ai fini della sussistenza del predetto requisito della tempestività, la definitiva contestazione può essere differita all’esito dello stesso procedimento penale (cfr. Cass. 28.9.2006 n. 21032). Deve, pertanto, ritenersi corretto il comportamento della P.A. che preferisca attendere l’esito del giudizio penale di appello nei confronti del dipendente anche ove lo stesso, diversamente che nella ipotesi in esame, sia imputato per reati connessi all’esercizio delle sue funzioni, prima di procedere all’esercizio nei suoi confronti del potere di contestazione in sede disciplinare, sia in considerazione della diversa natura della sospensione cautelare – che è misura di carattere provvisorio e strumentale all’accertamento dei fatti relativi alla violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi inerenti al rapporto e che esaurisce i suoi effetti con l’adozione dei provvedimenti disciplinari definitivi -, sia per la mancanza di lesione del diritto di difesa, e la non contrarietà del comportamento stesso al precetto della buona fede (v., in tal senso, sent Cass. 21032/2006 cit).
Né rileva ai fini considerati quanto osservato nella sentenza di questa Corte n. 4932/2007, nella quale si afferma che il termine stabilito dall’art. 10 comma terzo della legge 97/2001 per l’avvio del procedimento disciplinare debba applicarsi soltanto quando i fatti siano conosciuti dell’amministrazione a seguito della comunicazione della sentenza di condanna del dipendente e non anche ove, anteriormente a tale data, l’amministrazione ne abbia già avuto conoscenza, pena l’ingiustificata deroga del principio di immediatezza della contestazione, che è elemento costitutivo de! potere di recesso disciplinare del datore di lavoro. Ed invero, la pronunzia menzionata si riferisce ai procedimenti disciplinari a carico dei pubblici dipendenti in relazione a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 97 del 2001, e quindi ad ipotesi ratione temporis sottratte all’ambito di applicazione del comma 4° dell’art. 5 della legge 97/2001, che, in modo chiaro e definitivo, ha previsto il termine decadenziale di 90 giorni per l’avvio del procedimento disciplinare ovvero per la prosecuzione del procedimento disciplinare che sia stato sospeso. Non può inferirsi da quanto argomentato nella sentenza, la quale ha avuto riguardo a situazioni ricadenti sotto la disciplina del regime transitorio, che anche per i fatti disciplinarmente rilevanti commessi dopo l’entrata della nuova legge possano valere analoghe considerazioni, potendo al più aversi riguardo ai diversi termini previsti dalla contrattazione collettiva (cfr. Cass. 5806/2010 cit.) e dovendo anche ritenersi che rimanga ferma la possibilità per la P.A. di riattivare la procedura a seguito di una comunicazione non ufficiale della sentenza irrevocabile ad opera del proprio difensore ovvero della stesso dipendente che miri a far cesare una situazione di obiettiva incertezza a lui pregiudizievole, rispondendo una tale soluzione ai canoni di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost. (cfr, in tali termini, Cass. 22.10.2009 n. 22418).
Non si condivide, infine, quanto sostenuto con riguardo alla differenziazione della disciplina giuridica applicabile nei confronti dei dipendenti a carico dei quali vengano elevate imputazioni diverse da quelle richiamate dall’art. 3 comma 1 della legge 97/2001, per cui, a dire dell’intimato, non vi sarebbe alcun onere di comunicazione della sentenza penale emessa all’esito del procedimento penale e sarebbe dunque onere dell’amministrazione quello di attivarsi per conoscerne l’esito, atteso che il rinvio operato dall’art. 5, comma 4, I. 97/2001 ai dipendenti indicati nel comma 1° dell’art. 3 della stessa legge deve intendersi riferito alla categoria dei soggetti ivi menzionati (dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica) e non alla tipologia di reati prevista dalla stessa norma, non rinvenendosi elementi logici e sistematici per ritenere che sussista alcuna limitazione dell’ ambito applicativo della prima delle disposizioni nel senso preteso dal C..
La questione affrontata con il secondo motivo del ricorso principale deve reputarsi assorbita dall’accoglimento del primo motivo, analogamente a quella posta con il ricorso incidentale condizionato, con il quale si deduce violazione di legge e, nello specifico, del combinato disposto degli artt. 7 legge 300/70 e 5, comma 4° I, 97/2001, richiamando la motivazione della sentenza 4932/2007 già sopra esaminata, per sostenere che l’amministrazione, a conoscenza di fatti penalmente rilevanti anche per avere nel 2002 sospeso obbligatoriamente dal servizio il dipendente, nulla ha fatto per contrastare l’affidamento del dipendente circa una pretesa irrilevanza dei fatti sul rapporto di lavoro.
Il ricorso principale deve, pertanto, essere accolto in relazione al primo motivo e di conseguenza la sentenza impugnata va cassata senza rinvio (ai sensi dell’articolo 384 c.p.c, comma 1, ultimo periodo), in relazione al detto accoglimento, in quanto la causa può essere decisa nel merito, sulla base del principio di diritto enunciato – senza che siano necessari all’uopo accertamenti di fatto – e, per l’effetto, va rigettata la domanda del controricorrente.
La peculiarità della questione trattata e la difformità delle pronunzie di merito costituiscono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite dei gradi di giudizio di merito, laddove, per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico del C.. La misura dei compensi professionali viene determinata come da dispositivo, avuto riguardo a quanto stabilito da ultimo con pronunzie delle s.u. di questa Corte nn. 17405 e 17406/2012 e con limitazione degli stessi alla redazione del ricorso, non essendo stato il difensore della ricorrente presente in udienza.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale quanto al primo motivo, assorbiti il secondo motivo del medesimo ricorso ed il ricorso incidentale, cassa in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda.
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