Corte di Cassazione sentenza n. 4650 del 25 febbraio 2013
LAVORO – RISTRUTTURAZIONE E RIMODULAZIONE DEGLI ASSETTI OCCUPAZIONALI – ESIGENZE ECCEZIONALI – ILLEGITTIMITA’ DELL’APPOSIZIONE DEL TERMINE AL CONTRATTO – SUPERAMENTO DEL TERMINE DELL’ACCORDO COLLETTIVO – CONVERSIONE IN TEMPO INDETERMINATO
massima
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Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Con ricorso al Tribunale di Firenze, giudice del lavoro (…) assunta da (…) s.p.a. con contratto a tempo determinato dal 12 ottobre 1998 al 31 dicembre 1998 per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”, rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine al contratto in questione. Pertanto, sosteneva che essendo stata la assunzione illegittima, il contratto si era convertito in contratto a tempo indeterminato. Chiedeva quindi che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto ai predetto contratto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con consequenziali pronunce in ordine all’intimato recesso.
Il Tribunale adito, con sentenza del 17 febbraio 2004, accogliendo la domanda, dichiarava la nullità della clausola appositiva del termine del suddetto contratto e pertanto dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 12 ottobre 1998, condannando la società a corrispondere le retribuzioni dovute dal 10 ottobre 2003, data in cui risultava che la lavoratrice aveva comunicato la propria disponibilità a continuare la prestazione, sino alla data della propria pronuncia.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto integrale delle pretese della lavoratrice.
2- La Corte d’appello di Firenze, con la sentenza attualmente impugnala, rigettava l’appello della società.
In particolare, la Corte fiorentina confermava la nullità della clausola appositiva del termine al suddetto contratto a tempo determinato.
La Corte d’appello – inquadrato il contratto nell’ambito del sistema di cui all’art. 23 della legge n. 56 del 1987, che aveva delegato le OOSS a individuare nuove ipotesi di assunzione a termine con la contrattazione collettiva – è giunta alla suddetta conclusione sul rilievo che la normativa collettiva consentiva l’assunzione a termine per la causale dedotta nel secondo contratto solo fino al 30 aprile 1998.
3.- Avverso questa sentenza la società (…) propone ricorso per cassazione con quattro motivi. La lavoratrice non svolge attività difensiva.
La ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 c.p.c., nella quale chiede l’applicabilità dello ius superveniens rappresentato dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio ha raccomandato l’adozione della motivazione semplificata.
I – Sintesi dei motivi
1.- La società ricorrente con i suddetti quattro motivi:
1) sostiene che erroneamente la Corte territoriale ha rigettato l’eccezione concernente l’avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso in relazione al tempo trascorso tra la scadenza del contratto a termine dedotto in giudizio e la manifestazione della volontà della lavoratrice di ripristinare la funzionalità di fatto del rapporto, senza adeguatamente specificate le ragioni della statuizione adottata. Ed invero il rapporto di lavoro a tempo determinato, connotato da illegittimità del termine, può, al pari di tutti i contratti, risolversi per mutuo consenso, anche in forza di fatti e comportamenti concludenti; nel caso di specie la prolungata inerzia della lavoratrice, a fronte della unicità del rapporto contrattuale intercorso, alla breve durata del medesimo ed alle ulteriori circostanze delle quali la società datoriale ha, sin dal primo grado del giudizio, sollecitato l’accertamento, hanno rilievo determinante al fine di far ritenere tali comportamenti come espressione di un definitivo disinteresse a far valere la presunta nullità parziale del contratto e, quindi, come tacito consenso alla definitiva risoluzione del rapporto (primo motivo)
2) contesta l’assunto del giudice di merito secondo cui la contrattazione collettiva adottata da e dalle organizzazioni sindacali in attuazione dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987 avrebbe legittimato la stipulazione di contratti a termine solo fino al 30 aprile 1998 e che, comunque le parti negoziali avessero voluto effettivamente vincolare la loro capacità negoziale solo fino a questa data (secondo motivo);
3) sostiene che la contrattazione collettiva non si sia esaurita con l’accordo 25 settembre 1997 integrativo dell’art. 8 del ccnl 1998, ma si sia protratta anche successivamente in un continuum negoziale che avrebbe legittimato anche le assunzioni per esigenze eccezionali successive al 30 aprile 1998 (terzo motivo);
4) contesta la statuizione della Corte d’appello di rigetto della censura della società riguardante l’aliunde perceptum perché priva di indicazioni concrete utili per l’eventuale determinazione del relativo ammontare (quarto motivo).
II – Esame dei motivi
2.- Il primo motivo non è fondato.
2.1.- In base al principio più volte dettato da questa Corte – anche con riguardo a controversie analoghe alla presente – che il Collegio intende qui riaffermare: «nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accettata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali ulteriori circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto» (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2011, n. 330; Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; Cass. 28 settembre 2007, n. 20390; Cass. 17 dicembre 2004, n. 23554; Cass. 11 dicembre 2001, n. 15621).
Peraltro, come pure é stato precisato; «grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro» (vedi: Cass. 10 gennaio 2011, n. 330 cit.; Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070).
Orbene, sul punto la Corte d’appello ha escluso che il prolungato periodo di tempo che la (…) ha lasciato trascorrere prima di chiedere la riammissione in servizio possa essere, di per sé, interpretato, in difetto di dati obiettivi – che la datrice di lavoro, che ne era onerata, non ha nella specie dedotto e provato – come accettazione della estromissione dal lavoro.
La suddetta motivazione, conforme ai principi sopra richiamati, è immune da censure anche con riferimento alla ipotizzata violazione degli artt. 1372, primo e secondo comma, c.c.
3.- Anche il secondo e il terzo motivo – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono da respingere.
3.1.- Deve essere ricordato che in base ad un consolidato orientamento di questa Corte – cui il Collegio intende dare continuità – per i contratti successivi al 30 giugno 1997 (cioè al periodo di applicazione dell’art. 9 del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510 convertito dalla legge 28 novembre 1996, n. 608) e anteriori al c.c.n.l. del 11 gennaio 2001 (nonché al nuovo regime previsto dal D.Lgs. n. 368 del 2001) vanno applicati i principi più volte affermati da questa Corte in materia, in base ai quali, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che «l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle partì sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalia necessità di individuare ipotesi specifiche dì collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine» (vedi, fra le altre: Cass. 27 luglio 2010, n. 17550; Cass. 8 luglio-2009, n. 15981; Cass. 4 agosto 2008, n. 21063, nonché Cass. 20 aprile 2006, n. 9245; Cass. 7 marzo 2005, n. 4862; Cass. 26 luglio 2004, n. 140 U).
In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la relativa inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (vedi, per tutte: Cass. 23 agosto 2006, n. 18383; Cass. 14 aprile 2005, n. 7745; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2866), per cui, come ripetutamente affermato da questa Corte, deve ritenersi che «in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo Sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998, sicché deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230» (vedi, fra le altre: Cass. 1 ottobre 2007, n. 20608; Cass. 27 marzo 2008, n. 7979; Cass. 27 luglio 2010, n. 17550 cit.).
Peraltro, tale limite temporale (del 30 aprile 1998) non riguarda i contratti stipulati ex art. 8 ccnl 1994 per «necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie» (per i quali vedi, fra le altre: Cass. 2 marzo 2007, n, 4933; Cass. 7 marzo 2008, n. 6204; Cass. 28 marzo 2008, n. 8122), mentre, per quanto riguarda la proroga di trenta giorni prevista dall’accordo 27 aprile 1998, per i contratti in scadenza al 30 aprile 1998, la giurisprudenza costante di questa Corte ne ha affermato la legittimità, sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva, delle esigenze contingenti ed imprevedibili, connesse con i ritardi che hanno inciso negativamente sul programma di ristrutturazione (vedi, fifa le altre: Cass. 24 settembre 2007, n. 19696).
3.2.- Pertanto correttamente la Corte d’appello ha dichiarato la nullità del termine apposto per esigenze eccezionali ecc. al contratto in oggetto, stipulato per il periodo 12 ottobre 1998-31 gennaio 1999, in quanto intervenuto dopo il 30 aprile 1998.
4.- Il quarto motivo – attinente, come si è detto, alla detraibilità dell’attuale percepitati dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato – si conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 266-bis c.p.c. (applicabile nella specie, ratione temporis): “dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.
In applicazione del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alte fattispecie cui la censura si riferisce la censura (vedi, per tutte: Cass. SU 5 gennaio 2007, n. 36; Cass. SU 5 febbraio 2008, n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente e quindi si valuta inammissibile il relativo motivo, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., secondo quanto già affermato in analoghe controversie (vedi, per tutte: Cass. 16 dicembre 2011, n. 27210).
5.- All’inammissibilità delle censure riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, consegue l’ininfluenza per il presente giudizio dello ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, (sul Quale vedi: Corte cost., n. 303 del 2011).
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici morivi di ricorso (vedi, per tutte: Cass. 28 giugno 2012, n. 10899; Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 8 maggio 2006, n. 10547; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (vedi, fra le tante: Cass. 28 giugno 2012 n. 10899; Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.).
Orbene, per quel che si è detto, tale condizione non sussiste nella fattispecie.
III – Conclusioni
5.- In conclusione, il ricorso deve essere respinto. Nulla va disposto per le spese del presente giudizio di legittimità, non avendo la lavoratrice svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.
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