COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Calabria – Sentenza n. 3245 depositata il 28 novembre 2017
Irpef – Avviso di acccertamento – Pretesa tributaria
Svolgimento del processo
Con ricorso in appello depositato il 19/6/2016, la sig.ra B.L., con il patrocinio dell’avv. N.G., ha proposto appello avverso la sentenza n. 6631/06/14 del 25/11/2014, resa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Cosenza, la quale aveva rigettato il ricorso proposto l’avviso di accertamento n.TD311102263, relativo ad Irpef 2011.
Nel merito l’appellante lamenta vizi nel procedimento decisorio da parte della C.T.P. nonché la insufficiente valutazione delle prove e delle motivazioni addotte dal contribuente; chiede quindi l’annullamento della pronuncia di primo grado, con vittoria delle spese di lite del doppio grado di giudizio e l’annullamento della condanna alle spese disposta dal primo Giudice.
Con comparsa depositata il 22/10/2015 si è costituita in giudizio l’Agenzia delle entrate, eccependo la mancanza di motivi specifici di impugnazione, rappresentando la correttezza dell’indirizzo della sentenza di primo grado e riproponendo, nel merito, le difese di prime cure. Chiede quindi il rigetto del ricorso, con vittoria delle spese di lite.
All’udienza del 27/11/2017 la causa è stata posta in decisione.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente va esaminata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per carenza di motivi specifici sollevata da parte appellata. L’eccezione va disattesa.
Secondo ormai costante giurisprudenza della S.C. (cfr. Cass. Civ., Sez. V, 18 gennaio 2017, n. 1101) in tema di contenzioso tributario, la riproposizione, a supporto dell’appello proposto dal contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dall’art. 53 del d. lgs. n. 546 del 1992, atteso il carattere devolutivo pieno, nel processo tributario, dell’appello, mezzo quest’ultimo non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (sez. 6. ord n. 1200 del 2016; Sez. 5. n. 3064 del 2012). Ed invero la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dall’art. 53 del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (Sez. 6 n. 14908 del 2014).
2. Con il primo motivo di appello è dedotto un vizio “nel procedimento decisorio – nullità per carenza di idonea motivazione”. In particolare, secondo l’appellante, l’avviso di accertamento difetterebbe delle motivazioni sufficienti a garantire il diritto di difesa del contribuente e tale vizio si ribalterebbe sulla sentenza impugnata. Il motivo è infondato e va reietto.
La giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. civ., Sez. V, 17 novembre 2017, n. 27287) si è attestata nell’affermare che “l’obbligo della motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica del valore risulta assolto quando l’Ufficio enunci il “petitum”, ed indichi le relative ragioni in termini sufficienti a definire la materia del contendere” (Cass. n. 25559 del 03/12/2014; Cass. n. 4289/15); aggiungendosi che il parametro di sufficienza e satisfattività dell’obbligo di motivazione dell’atto deve essere vagliato nell’ottica del concreto esercizio del diritto di difesa del contribuente, atteso che: “in materia tributaria, l’obbligo di motivazione dell’atto impositivo persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa, in modo da poter valutare sia l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale sia, in caso positivo, di contestare efficacemente “l’an” ed il “quantum debeatur”; sicché tali elementi conoscitivi devono essere fomiti all’interessato “non solo tempestivamente, tramite l’inserimento “ah origine” nel provvedimento, ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità idonei a consentire un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa” (Cass. n. 7056/14; così Cass. 16836/14 ed altre).
Nel caso di specie l’avviso di accertamento consta di 19 pagine complessive e le pagine da 3 a 5 rendono ostensibili le motivazioni, in fatto ed in diritto, poste a base della pretesa tributaria: in particolare l’Amministrazione finanziaria, a fronte della cessione di un complesso aziendale, ha constatato la mancata indicazione del criterio con cui è stato determinato il valore di avviamento tra quelli previsti “quali il metodo patrimoniale, il metodo reddituale, il metodo matematico o quello misto”. Di conseguenza l’Ufficio ha proceduto ad una rideterminazione del valore dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro ai sensi del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, con conseguente individuazione di maggiori imposte a titolo di addizionali regionali e comunali e di contribuzione INPS. Sul punto la C.T.P. ha ritenuto corretta la valutazione operata dall’Ufficio formulata sulla media dei ricavi dei tre anni precedenti la cessione e successivamente aumentando tale media della percentuale comunemente applicata per le vendite di quel tipo e in quella zona.
Secondo la S.C. “In tema di imposta di registro, ai fini dell’applicazione dell’art. 51, comma 4, d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, riguardante il controllo dell’ufficio sugli atti aventi ad oggetto aziende o diritti reali su di esse, l’esistenza di un valore di avviamento dell’azienda costituisce oggetto di un giudizio di fatto rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito ed immune dal sindacato di legittimità, se adeguatamente motivato. La congruità di tale valutazione può essere desunta anche dall’adozione di criteri indicati dal legislatore per la valutazione dello stesso bene, sia pure nell’ambito di disposizioni non direttamente applicabili all’imposta in questione (nella specie, l’art. 2, comma 4, d.P.R. 31 luglio 1996 n. 460, riguardante l’accertamento con adesione in materia di imposte dirette), trattandosi di criteri che, in quanto avallati dal legislatore, confermano la validità del ragionamento seguito dal giudice di merito. Non può quindi considerarsi illogica la sentenza di merito che abbia riconosciuto l’esistenza di un valore di avviamento in base alla media dei redditi dichiarati negli ultimi tre anni, nonostante il progressivo e costante calo dei ricavi fatto registrare dall’impresa: l’avviamento costituisce infatti una qualità dell’azienda stessa, che si somma al valore degli altri beni che la compongono in un’operazione che logicamente precede la detrazione delle passività, sicché non è aprioristicamente escluso né dall’esistenza né dall’ammontare di queste” (Cass. civ., Sez. V, 4 novembre 2015, n. 22504).
In questo senso non sembra a questo Giudice di appello che il ragionamento e le motivazioni della sentenza di primo grado siano viziate. Infatti se si guarda lo stato patrimoniale allegato al fascicolo di primo grado figura la voce avviamento nell’ambito dell’attivo, senza una voce equivalente nella colonna delle passività, sicché il valore netto di cessione di € 22.039,00 corrisponde con quelle indicato nella scrittura privata relativa.
L’avviamento, nella definizione tecnica aziendale, rappresenta una qualità dell’azienda che consente a un complesso di beni organizzati di conseguire risultati economici diversi (superiori o inferiori) a quanto si ottiene dalla somma degli elementi che ne fanno parte, limitata alloro utilizzo “isolato”.
L’imposta di registro è quell’imposta indiretta che, nella cessione d’azienda, sostituisce l’applicazione dell’IVA. La base imponibile su cui calcolare tale imposta è costituita dal valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento.
Non sono chiare le ragioni, né vengono argomentate in questa sede, per le quali il valore dell’avviamento, pur indicato nella situazione patrimoniale al 4/11/2010, non debba essere oggetto di imposizione fiscale, posto che pacificamente esso vi soggiace sulla base delle comuni regole ragionieristiche e contabili. In altri termini, a stare al primo motivo di appello, l’intera indennità di avviamento non andrebbe tassata a prescindere dalla sua rideterminazione a mezzo dell’avviso di accertamento poi impugnato, ma tale ricostruzione non può trovare accoglimento, vieppiù in quanto non sembra essere avversato il capo motivazione della sentenza di primo grado, bensì affermato un principio di intassabilità che non ha fondamento in diritto.
D’altro canto il procedimento seguito pare collimare con quello normativamente stabilito dall’art.2, comma 4 del D.P.R. n.460/1996, secondo cui: “4. Per le aziende e per i diritti reali su di esse il valore di avviamento è determinato sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3. La percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d’impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo. Il moltiplicatore è ridotto a 2 nel caso in cui emergano elementi validamente documentati e, comunque, nel caso in cui ricorra almeno una delle seguenti situazioni: a) l’attività sia stata iniziata entro i tre periodi d’imposta precedenti a quello in cui è intervenuto il trasferimento; b) l’attività non sia stata esercitata, nell’ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto il trasferimento, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento della attività stessa; c) la durata residua del contratto di locazione dei locali, nei quali è svolta l’attività, sia inferiore a dodici mesi.”
Il primo motivo quindi va reietto.
3. Con il secondo motivo di appello è dedotta una insufficiente valutazione delle prove e delle motivazioni addotte da contribuente, posto che la C.T.P. non avrebbe valutato le prove offerte dal contribuente. In disparte la assenza di prove ulteriori fomite dal contribuente al Giudice di primo grado (ed a questo Giudice di appello) rispetto a quelle presentate all’Ufficio nella fase precontenziosa, se anche si volesse ammettere che dette prove sono costituite dalle argomentazioni giuridiche illustrate nel ricorso introduttivo di primo grado, vi è che queste non consentono di scalfire la fondatezza dell’atto tributario.
Parte appellante rileva una violazione delle disposizioni in materia di accertamento parziale ai sensi dell’art. 41-bis del D.P.R. n. 600/1973 in quanto si fonderebbe su dichiarazioni reddituali e fiscali annullate. Ancora una volta soccorre la sufficienza ed esaustivi della motivazione dell’atto tributario (cfr. pag.3 e 4 dell’avviso) laddove si da conto, in maniera chiara, delle modalità di calcolo della plusvalenza recuperata a tassazione, con la conseguenza che il richiamo del tutto formalistico alla norma indicata dall’appellante, appare letteralmente superato dalla indicazione di un recupero di reddito di impresa ai sensi dell’art. 39, comma 1 del D.P.R. n. 600/1973 (cfr. pag. 4 dell’avviso periodo centrale in corsivo). Tale norma prevede che “Per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica:
a) se gli elementi indicati nella dichiarazione non corrispondono a quelli del bilancio, del conto dei profitti e delle perdite e dell’eventuale prospetto di cui al comma l dell’articolo 3;
b) se non sono state esattamente applicate le disposizioni del titolo I, capo VI, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni;
c) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari di cui ai numeri 2) e 4) del primo comma dell’articolo 32, dagli atti, documenti e registri esibiti o trasmessi ai sensi del numero 3) dello stesso comma, dalle dichiarazioni di altri soggetti previste negli articoli 6 e 7, dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da altri atti e documenti in possesso dell’ufficio;
d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32.
L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.”
Ora è che nel caso di specie, per come anche evidenziato dall’Agenzia delle entrate nella propria memoria costitutiva, vi è che appare pretermesso a fini reddituali la componente dell’avviamento nella cessione dell’attività economica, con sottrazione della stessa a tassazione, circostanza confermata dall’appellante nel ricorso introduttivo del giudizio. Tale considerazione emerge si dalle dichiarazioni reddituali poi annullate ma è ricostruibile, secondo un ragionamento ex post, anche dall’analisi della documentazione contabile offerta dallo stesso contribuente.
Peraltro l’art. 2 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, non conosce l’istituto dell’annullamento della dichiarazione reddituale presentata, ma solo quello della rettifica e della integrazione (arg. ex comma 8 dell’art.2 cit.), essendo il potere di annullamento di un atto proprio della potestà impositiva o, comunque, pubblica e non del contribuente in sede di dichiarazione della propria situazione reddituale.
In conclusione anche il secondo motivo di appello non può essere accolto.
4. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo al valore minimo sulla base dei parametri di cui al D.M. 55/2014, ridotte del 20% quanto all’Agenzia delle entrate, in applicazione dell’art. 15, comma 2-sexies del D. Lgs. n. 546/1992.
Trattandosi di appello notificato dopo il 30 gennaio 2013, segue l’accertamento dell’obbligo del soccombente di versare, a titolo di contributo unificato, un ulteriore importo pari a quello dovuto per l’impugnazione sulla base del valore di causa, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. civ., SS.UU., 18 febbraio 2014 n. 3774).
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, richiesta, eccezione e deduzione, rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado.
Liquida in favore dell’appellata Agenzia delle entrate le spese del presente grado di giudizio in € 4.037,60, oltre spese generali 15% per € 605,64.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002, accerta a carico dell’appellante l’obbligo di versare, a titolo di contributo unificato, un ulteriore importo pari a quello dovuto per l’impugnazione.
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