CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11750 del 8 giugno 2016
LAVORO – LICENZIAMENTO DISCIPLINARE – REATO DI VIOLENZA SESSUALE – GRAVITA’ – LESIONE DEL VINCOLO DI FIDUCIA TRA IL DATORE DI LAVORO E IL LAVORATORE – PROPORZIONALITA’
Svolgimento del processo
1. B.D. conveniva in giudizio l’Azienda Usi n. 8 di Arezzo, impugnando il licenziamento disciplinare intimatogli il 4.2.2011 con richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro e di risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 18 I. 300/1970. Il Tribunale di Arezzo accoglieva la domanda, in quanto il procedimento disciplinare, sospeso in pendenza del procedimento penale avviato a carico del B. per il reato di violenza sessuale, era stato riattivato il 10.8.2010, tempestivamente rispetto alla comunicazione – avvenuta il 30.7.2010 – della irrevocabilità della sentenza di condanna, ma si era concluso il 31.1.2011, oltre la scadenza del termine di 120 giorni, ritenuto applicabile alla fattispecie, previsto dalla contrattazione collettiva, ai sensi dell’art. 5, IV co., L. 27.3.2001, n. 97, anteriormente alle modifiche operate (con decorrenza dal 15.11.2009) dall’art. 72, II co, D.Lgs. n. 27.10.2009 n. 150. Conseguentemente, il Tribunale riteneva tardiva la sanzione disciplinare irrogata oltre la scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento disciplinare.
2. Tale sentenza veniva riformata dalla Corte di appello di Firenze che riteneva la tempestività della sanzione, osservando che nella specie doveva trovare applicazione la novella di cui all’art. 72, I co., D.Lgs. n. 150/2009, che aveva soppresso l’inciso “salvi i termini previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro”, così determinando l’applicabilità esclusiva del termine legale di 180 giorni, rispetto al quale era tempestivo il licenziamento irrogato al B.
3. Nel merito, la Corte di appello riteneva giustificato il licenziamento, in considerazione della natura e gravità del reato del quale il B. era stato ritenuto colpevole, ossia violenza sessuale ai danni di una donna che era stata avvicinata dal B. presso la struttura dove svolgeva la sua attività lavorativa. Osservava che, pure se l’illecito era stato commesso al di fuori dell’ambiente ospedaliero, esso non era estraneo al rapporto di lavoro, risultando dalla sentenza di condanna che l’appellato, mentre era in servizio, aveva più di una volta cercato di avvicinare la vittima.
4. La Corte distrettuale riformava dunque la sentenza impugnata, ritenendo la legittimità del licenziamento e, in accoglimento della domanda restitutoria della ASL, condannava il B. a restituire all’Azienda quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado riformata.
5. Per la cassazione della sentenza ricorre il B. con quattro motivi. Resiste l’Azienda USL con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con II primo motivo di ricorso si denuncia omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., per avere la sentenza trascurato dì considerare un elemento, evidenziato in giudizio, costituito dal buon contegno – lavorativo osservato dal lavoratore durante il lungo periodo, di oltre otto anni, intercorso tra il 15.5.2002 (epoca della sospensione del procedimento disciplinare) e il 10.8.2010 (epoca della riattivazione del procedimento disciplinare a seguito della comunicazione della irrevocabilità della sentenza di condanna). In tale periodo, il ricorrente, che nel frattempo aveva vinto un concorso interno e conseguito la qualifica di coadiutore, era stato adibito a svariate e delicate mansioni, anche a contatto quotidiano con il pubblico, per cui anche tale aspetto della condotta non poteva essere trascurato nell’ambito della valutazione della giusta causa. Proprio ai fini della interferenza tra fatto commesso e rapporto di lavoro, dovrebbero rilevare anche elementi di ordine soggettivo, pure se successivi alla commissione del reato, incidenti anch’essi sulla globale valutazione dell’affidabilità professionale del lavoratore ed invece trascurati totalmente dalla Corte di appello.
Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 132, II co. n. 4 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione alla mancata motivazione sul fatto di cui al primo motivo.
Con il terzo motivo si lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c., per “mancata decisione sulla eccezione di merito, sollevata dal ricorrente”.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 116 c.p.c. per non avere la Corte “menzionato e dunque neanche valutato le prove di natura documentale offerte dal ricorrente…”.
2. Il ricorso, in tutte le sue articolazioni, è inammissibile.
Va premesso che non è stato impugnato il capo della sentenza con cui è stata ritenuta la tempestività della sanzione disciplinare, in riforma della sentenza di primo grado che aveva ritenuto il vizio del procedimento e per tale assorbente motivo aveva accolto l’impugnativa del lavoratore. Sul punto vi è dunque il giudicato interno. Il ricorso verte soltanto sul giudizio di merito riguardante la sussistenza della giusta causa del licenziamento.
3. Occorre premettere che, secondo l’orientamento di questa Corte, costituente ius receptum (Cass. n. 5095 del 2011, cfr. pure Cass. n. 6498 del 2012), la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa dì licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Inoltre, al fine di stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamento, occorre accertare se, in relazione alla qualità del rapporto intercorso tra le parti ed alla posizione che in esso abbia assunto il prestatore di lavoro, il comportamento disciplinarmente contestato al lavoratore e giudizialmente accertato abbia leso in modo grave la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere l’adozione della massima sanzione disclplinare (cfr. ex plurimis, Cass. n. 1667/1996, Cass. n. 5742/1995, Cass. n. 2715/1994).
4. Nel caso di specie, la sentenza, senza incorrere in vizi logici, né giuridici in ordine alla qualificazione dei fatti, ha ravvisato nella gravità del comportamento extra lavorativo del ricorrente, per il quale era intervenuta condanna penale, gli estremi della giusta causa di licenziamento, in quanto idonei a ledere l’essenziale affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il cittadino, debbono poter riporre nella correttezza del dipendente pubblico, e rispetto al quale possono assumere rilevanza anche comportamenti della vita privata del lavoratore (in tal senso, cfr. Cass. n. 3136 del 2015 e n. 2168 del 2013).
5. Tanto premesso, deve altresì escludersi che l’intervallo di tempo trascorso tra il verificarsi del fatto ascritto al dipendente e la riattivazione del procedimento disciplinare attesti la mancanza di interesse del datore di lavoro pubblico all’esercizio della facoltà di recesso. Va infatti considerato che soltanto all’esito del processo penale, rispetto al quale è funzionale la sospensione del procedimento disciplinare, potranno essere conosciuti tutti i tratti oggettivi e soggettivi della condotta addebitata al dipendente, rispetto alla quale valutare il grado di lesione del vincolo fiduciario.
6. Fatta tale precisazione e venendo al vizio denunciato con il primo motivo, va rilevato che la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l’il settembre 2012. Trova dunque applicazione il nuovo testo dell’ 360, secondo comma, n. 5, cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. A norma dell’art. 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dai trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012). Nel sistema l’intervento di modifica del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto e fermo restando che l’omesso esame dì elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
6.1. Le Sez. Un. di questa Corte, con la sentenza 7 aprile 2014, n. 8053. hanno affermato: – a) che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo cui è deducibile esclusivamente l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deve essere interpretata come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile; b) che il nuovo testo dell’art. 360, n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra dì per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Hanno, inoltre, precisato che la parte ricorrente deve indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il ”dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, i “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
6.2. Il fatto che nella specie si assume essere stato omesso (e ritenuto decisivo dal ricorrente) non rientra nei ristretti limiti entro i quali la censura può essere considerata ammissibile. L’accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo della giusta causa si pone sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione solo a condizione che la contestazione contenga, come detto in precedenza, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, rispetto ai quali il fatto che si assume omesso avrebbe assunto, se considerato, carattere decisivo, nel senso di condurre certamente ad un esito diverso del giudizio. All’evidenza, nel caso in esame tali condizioni non ricorrono.
7. In merito al secondo motivo, va rilevato che, dopo la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., è denunciarle in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza” della motivazione. Perché la violazione sussista, secondo le Sezioni Unite, si deve essere in presenza di un vizio “così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. Mancanza di motivazione si ha quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum”.
7.1. Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame, avendo la Corte di appello esaustivamente motivato le ragioni della decisione in ordine alla sussistenza della giusta causa e alla proporzionalità della sanzione espulsiva.
8. Il terzo motivo è del tutto generico, lamentando la “mancata decisione” su una eccezione di merito, non meglio definita e che sembra identificarsi nella stessa censura svolta con il primo motivo. Vi è dunque una contraddittorietà del ricorso, poiché sulla stessa questione si lamenta, con il primo motivo, il vizio motivazionale previsto dal n. 5) dell’art. 360 c.p.c., il quale presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, mentre con il terzo si lamenta l’omessa pronuncia sulla medesima questione, prospettata come eccezione di merito.
9. In ordine al quarto motivo, va osservato che nel giudizio di cassazione resta precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti (Cass. n. 21439 del 2015).
10. Il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
11. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione nella fattispecie, applicandosi ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent. n. 3774 del 18 febbraio 2014).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi professionali e in Euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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