CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 luglio 2018, n. 18262
Accertamento del rapporto di lavoro subordinato – Autonomia del rapporto intercorso tra le parti – Remunerazione con provvigioni – Assenza di obblighi specifici, salvo quelli derivanti dal coordinamento con l’attività della società – “Nomen iuris” utilizzato dalle parti non ha rilievo assorbente – Interpretazione della volontà delle stesse – Comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto
Rilevato che
1. con sentenza del 13.5.2013, la Corte d’appello di Roma respingeva il gravame proposto da R.D. pronuncia del locale Tribunale che aveva rigettato le domande del predetto, volte all’accertamento del rapporto di lavoro subordinato presso l’autosalone della società F.F. a r. I. in Roma ed alla condanna di quest’ultima al pagamento delle differenze retributive;
2. la Corte, disattese l’eccezione d’improcedibiltà del gravame e l’eccezione di prescrizione sollevate dalla società, per quel che rivela nella presente sede, osservava che le risultanze documentali deponevano univocamente nel senso dell’autonomia del rapporto intercorso tra le parti, remunerato esclusivamente con provvigioni e svincolato da obblighi specifici, salvo quelli derivanti dal coordinamento con l’attività della società, e che nella scrittura dell’8.10.1999, denominata contratto d’agenzia, si leggeva che oggetto dell’incarico era l’attività di promozione finalizzata alla conclusione di contratti rientranti nell’oggetto dell’attività della preponente secondo le istruzioni generali di questa, che gli ordini si intendevano acquisiti salvo approvazione della casa e che le provvigioni pattuite erano state regolarmente pagate; evidenziava, poi, come in presenza di uno schema contrattuale scelto dalle parti (contratto di agenzia) la deviazione dello stesso doveva scaturire da una prova rigorosa, che nella specie era mancata;
3. di tale decisione domanda la cassazione il R., affidando l’impugnazione ad unico motivo, cui ha resistito, con controricorso, la società.
Considerato che
1. viene dedotta violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., degli artt. 115, 116, 112 c.p.c., 2697 c.c., e 24 Cost.nonché vizio di motivazione, rilevandosi che l’esistenza di un potere direttivo, disciplinare e di controllo da parte della società era emerso delle risultanze istruttorie (prova per testi) del giudizio di primo grado, laddove la Corte si era limitata a decidere esclusivamente sulla base della natura dell’attività e delle prove documentali; si evidenzia come la decisione del giudice del merito era stata fondata unicamente sul nomen iuris del contratto, senza alcuna attenzione alle circostanze concrete determinanti di cui alle ulteriori risultanze istruttorie; si riporta il contenuto delle deposizioni dei testi, rilevandosi la contraddittorietà delle deposizioni dei testi della resistente società, non adeguatamente valutata, nonché la stessa contraddittorietà dell’affermazione della Corte in ordine al dovere di osservanza parte dell’agente, delle istruzioni impartite dal datore di lavoro; viene infine, richiamata giurisprudenza di legittimità a conforto dell’assunto ricostruttivo circa la natura del rapporto;
2. con riferimento al punto centrale della censura formulata nei termini esposti, occorre specificamente avere riguardo a quanto più volte affermato da questa Corte, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, in merito alla necessità di non prescindere dalla volontà dei contraenti, con la precisazione che, se pure sotto questo profilo va tenuto presente il “nomen iuris” utilizzato dalle parti, questo però non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi conto, altresì, sul piano della interpretazione della volontà delle stesse, del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362 c.c., comma 2), la cui valutazione è necessaria anche per l’accertamento di una nuova, diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso della relativa attuazione e diretta a modificare singole clausole e, talora, la stessa natura del rapporto di lavoro inizialmente prevista e che, pertanto, in caso di contrasto tra iniziali dati formali e successivi dati fattuali, questi assumono necessariamente un rilievo prevalente (cfr., tra le altre, Cass. 2.4.2002 n. 4682 Cass. 9.3.2004 n. 479 ottobre 2004, n. 20002);
3. sulla qualificazione data dalle parti al contratto la giurisprudenza è, invero, unanimemente attestata nel ritenere che essa non può assumere valore dirimente di fronte ad elementi fattuali – quali previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico, organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali, che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto; a ciò è stato aggiunto, ad ulteriore precisazione, che il potere gerarchico e direttivo non può, tuttavia, esplicarsi in semplici direttive di carattere generale (compatibili con altri tipi di rapporto), ma deve manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, mentre il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento (anch’esso compatibile con altri tipi di rapporto) ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale (cfr. Cass. 8 aprile 2015, n. 7024; Cass. 21 ottobre 2014, n. 22289, che, con riferimento al lavoro a progetto, ha ritenuto rilevante ai fini della qualificazione del rapporto il suo concreto atteggiarsi; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4524, che ha ribadito il medesimo concetto con riguardo ad un contratto di associazione in partecipazione, nonché Cass., 27 febbraio 2007, n. 4500, secondo cui la cosiddetta autoqualificazione del rapporto, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove la stessa non risulti in contrasto con le concrete modalità di svolgimento del rapporto medesimo; Cass. 5 luglio 2006, n. 15327);
4. in definitiva, sia allorché le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, a) abbiano simulatamente dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, b) sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, c) sia infine nell’ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di passare ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve attribuire valore prevalente al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso. Tale conclusione si pone come logica conseguenza del principio dell’ “indisponibilità del tipo contrattuale”, più volte affermato dalla Corte Costituzionale, in forza del quale “… non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento…” e “…a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, I’ applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto subordinato” (cfr. C. Cost. 29.3.1993 n. 121 e 31.3.1994 n. 115)
4. poste tali premesse, è sufficiente osservare che nella sua determinazione il giudice del gravame, sia pure in modo sintetico, ha, coerentemente a tali principi, tenuto conto, nel prevenire all’affermazione della sussistenza di un rapporto di agenzia, della presenza dei connotati propri di tale tipo contrattuale, ed ha considerato che il R. era stato preposto a tutti gli affari di una certa specie per un certo tempo, in coordinazione con I’attività del preponente, circostanze decisive che hanno condotto ad una pronunzia conforme all’orientamento giurisprudenziale consolidato;
5. si è adeguatamente valorizzata la mancanza di una prova rigorosa di deviazione dallo schema contrattuale e di un divario dalle regole e principi del rapporto di agenzia, sul rilievo che anche in tale rapporto sussistono poteri di etero-conformazione e di controllo (del preponente) ed obblighi di diligenza e di osservanza del nell’esecuzione delle istituzioni nell’esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto;
6. peraltro, vanno disattese le censure riferite alla violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., posto che un’autonoma questione di malgoverno può porsi solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: – abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; – abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici; – abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; – abbia invertito gli oneri probatori. E poiché, in realtà, nessuna di tali situazioni è rappresentata nei motivi anzi detti, le relative doglianze sono mal poste. Nella specie, la violazione delle norme denunciate è tratta, in maniera incongrua e apodittica, dal mero confronto con le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito. Di tal che la stessa – ad onta dei richiami normativi in essi contenuti – si risolve nel sollecitare una generale rivisitazione del materiale di causa e nel chiederne un nuovo apprezzamento nel merito, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione;
7. deve, poi, ulteriormente rilevarsi che le censure, con riferimento al denunciato vizio di motivazione, mal dedotto rispetto alla nuova formulazione dell’art. 360 n. 5, applicabile alle sentenze pubblicate dopo il 12.9.2012, mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, in coerenza con quanto osservato da Cass. n. 8053/14 delle S.U. riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una questio facti;
8. il nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., consente tale denuncia nei limiti dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, dovendo il ricorrente, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;
9. alle svolte considerazioni consegue la declatoria di inammissibilità del ricorso;
10. le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano come da dispositivo;
11. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.p.r. 115 del 2002;
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità del ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis del citato D.P.R..
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