CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 luglio 2018, n. 18468
Licenziamento per giusta causa – Indebita fruizione di un permesso sindacale – Violazione o falsa applicazione di norme dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro – Deposito a pena di improcedibilità del ricorso – Produzione del testo integrale del contratto collettivo – Non sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito
Rilevato che
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza pubblicata in data 23/5/2016, in riforma della pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede, rigettava le domande proposte da A.P. nei confronti della società G.B. Cooperativa a r.l. volte a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 29/12/2014.
A fondamento del decisum, per quanto in questa sede rileva, osservava che:
a) l’atto di incolpazione concerneva la indebita fruizione di un permesso sindacale, che ridondava in termini di ingiustificata assenza dal lavoro;
b) il licenziamento intimato non aveva introdotto elementi di novità rispetto a quelli enunciati in sede di contestazione disciplinare;
c) dalla esperita attività istruttoria, era emersa la prova che il lavoratore non avesse svolto attività sindacale, non solo nei giorni 13-15 novembre 2014 (come attestato all’esito della attività investigativa predisposta dal datore di lavoro), ma anche nei giorni 10-12 novembre, nei quali il lavoratore aveva dedotto di essere rimasto presso la propria abitazione a reperire materiale necessario al dibattito sul tema jobs act, cui avrebbe dovuto partecipare, senza, tuttavia, dimostrare l’assunto;
d) la società aveva quindi dimostrato che l’assenza ingiustificata dal lavoro si era protratta per almeno quattro giorni, legittimando, in coerenza con le previsioni del c.c.n.l. di settore, l’irrogazione della massima sanzione disciplinare che rinveniva comunque fondamento nella gravità della mancanza – anche in relazione al ruolo sindacale rivestito dal lavoratore – idonea ad inficiare l’elemento fiduciario ponendo in dubbio il futuro corretto adempimento degli obblighi correlati al rapporto di lavoro.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione l’A. affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 60 comma 1 c.c.n.l. per i dipendenti di imprese e società esercenti servizi ambientali del 21/3/2012. La disposizione contrattuale prevede che i permessi sindacali possano essere richiesti oltre che per la partecipazione alla assemblea politica, in cui consiste propriamente il Direttivo, anche per la partecipazione a gruppi di studio-lavoro, convegni, congressi. La richiesta di permessi sindacali era dunque, valida per un corso formativo quindi nessuna falsa attestazione circa i “Direttivi “da celebrarsi per una settimana era stata mai inviata dal coordinatore sindacale.
2. Il motivo presenta una causa di improcedibilità, riferibile alla dedotta violazione delle richiamate norme collettive. Come le Sezioni Unite insegnano, l’onere del deposito degli atti processuali, dei documenti e dei contratti c degli accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso, sancito, a pena di sua improcedibilità, dall’art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., è soddisfatto: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di quelle fasi, mediante il deposito di quest’ultimo, specificandosi, altresì, nel ricorso l’avvenuta sua produzione e la sede in cui quel documento sia rinvenibile; b) se il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che lo stesso è depositato nel relativo fascicolo del giudizio di merito, benché, cautelativamente, ne sia opportuna la produzione per il caso in cui quella controparte non si costituisca in sede di legittimità o la faccia senza depositare il fascicolo o lo produca senza documento; c) qualora si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all’ammissibilità del ricorso, oppure attinente alla fondatezza di quest’ultimo e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante il suo deposito, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso (Cass. SS.UU. 7/11/2013 n. 25038; Cass., SS. UU. 25/3/2010 n. 7161; conformi fra le altre Cass.26/9/2016 n.18866, Cass.18/9/2017 n. 21554).
Inoltre questa Corte, sempre a Sezioni Unite, con sentenza del 23/10/2010 n. 20075 ha sancito che il richiamato art. 369 c.p.c., comma 2, n.4, deve interpretarsi nel senso che, allorché il ricorrente denunci la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il deposito suddetto deve avere ad oggetto, a pena d’improcedibilità, non già solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive su cui il ricorso si fonda, ma anche il testo integrale del contratto o accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni.
Si è, infatti, statuito (Cass. Sez. Lav. 4/3/2015 n. 4350) che “nel giudizio di cassazione, l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369, secondo comma, n.4, cod. proc. civ., nella formulazione di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 cod. civ.; né, a tal fine, può considerarsi sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti.
Nello specifico il ricorrente ha prodotto solo estratti di contratto di settore come da indice analitico in calce al ricorso, onde la censura non si sottrae, per quanto sinora detto, ad un giudizio di improcedibilità.
3. Con il secondo ed il terzo motivo si prospetta violazione dell’art. 7 l. 300/70 e dell’art. 24 Cost. Si critica la sentenza impugnata per aver denegato la discrepanza esistente fra la imputazione di assenza ingiustificata prolungata, contenuta nella lettera di contestazione e l’esplicazione della giusta causa di recesso contenuta nella lettera di licenziamento, in termini di rappresentazione falsa della realtà. La società, in violazione dei principi statutari e di rango costituzionale, avrebbe mutato il comportamento contestato come illecito; (da abusiva richiesta di permessi per un Direttivo inesistente a mancata coincidenza temporale tra permessi e svolgimento di corsi).
4. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, vanno disattesi.
Ed invero, in tema di interpretazione del contratto – ed in ragione del rinvio ad esse operato dall’art. 1324 cod. civ., anche dei negozi unilaterali – il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (vedi Cass. 10/02/2015 n. 2465).
Deve infatti essere ribadito che in materia di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà della parte in relazione al contenuto del negozio – che per quelli unilaterali (cfr. Cass. 6/5/2015 n.9127) va modulata in relazione all’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, restando fermo il criterio dell’ interpretazione complessiva dell’atto – si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito.
Ne discende che la possibilità di censurare tale accertamento in sede di legittimità – a parte l’ipotesi (qui di certo non ricorrente) in cui la motivazione sia cosi inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto – è limitata al caso di violazione delle norme ermeneutiche, violazione da dedursi con la specifica indicazione nel ricorso per cassazione del modo in cui il ragionamento del giudice si sia da esse discostato, poiché in caso contrario la critica alla ricostruzione del contenuto della comune volontà si traduce nella proposta di un’interpretazione diversa, inammissibile come tale in sede di legittimità (v., per tutte, Cass., 26/3/2001, n. 4342).
In altri termini, il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo, laddove censuri l’interpretazione del contratto accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi a evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso la allegazione (con relativa dimostrazione) dell’inesistenza o della assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, non potendo invece affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (vedi Cass. 23/8/2006 n.18375).
5. Nello specifico, non può tralasciarsi di considerare che il ricorrente ha prospettato una esegesi della lettera di contestazione e dell’atto di recesso intimato dalla società datoriale, in chiave meramente contrappositiva rispetto a quella resa dalla Corte distrettuale, senza addurre argomentazioni tali da ritenere che la struttura argomentativa che innervava l’impugnata sentenza, si traducesse in effettiva violazione dei canoni ermeneutici che attengono agli atti negoziali, secondo i principi innanzi enunciati.
I giudici del gravame hanno infatti argomentato che la lettera di licenziamento non aveva introdotto inammissibili elementi di novità rispetto a quelli enunciati nella lettera di contestazione disciplinare (in termini di prolungata assenza dal lavoro priva di giustificazione), essendosi limitata a rappresentare una qualificazione giuridica dei fatti stessi – consistenti nel!’ “avere ottenuto indebitamente il permesso sindacale” nel senso della loro particolare gravità, tale da integrare le nozione di giusta causa. La statuizione della Corte di merito, coerente con il dato documentale ed in sé del tutto congrua, si pone in continuità con l’insegnamento di questa Corte secondo cui, ai fini del rispetto delle garanzie previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, per la contestazione dell’infrazione in relazione alla quale può essere applicata la sanzione disciplinare, il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione stessa, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio ed al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa.
Il principio della immutabilità della contestazione attiene, invero, solo alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso; non riguarda, pertanto, la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all’indicazione delle norme violate (cfr. Cass. 29/7/1994 n. 7105 ed in motivazione, Cass. 7/2/2013 n. 2935).
6. Il quarto e quinto motivo prospettano travisamento della prova con riferimento alla Statuizione relativa alla compatibilità fra orari di lavoro ed orari dei corsi relativi al permesso sindacale conseguito, in relazione all’art. 360 comma primo n.5 c.p.c.. Ci si duole che la Corte di merito abbia conferito peculiare peso probatorio alle dichiarazioni di un testimone il quale aveva dichiarato di non avere avuto necessità di fruire del permesso sindacale per partecipare al corso serale, trascurando di considerare che la posizione del teste, in termini di orario lavorativo, non era equiparabile a quella del ricorrente; per di più ritenendo compatibile con l’orario di lavoro del ricorrente che terminava alle ore 18,30, quello del corso oggetto di permesso che iniziava alle ore 20, sulla base di elementi di prova privi di fondamento.
7. Anche tali motivi non sono consentiti in questa sede, perché incidono sulla valutazione dei fatti elaborata dai giudici del gravame. La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è liberò di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (vedi ex aliis, Cass. 4/7/2017 n. 16467). Col novellato testo dell’art. 360 comma primo n.5 c.p.c. la scelta operata dal legislatore è stata quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”. L’omesso esame di elementi istruttori non integra, poi, di per sé, vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, bencné la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nell’ottica descritta lo scrutinio del vizio attinente alla valutazione del quadro probatorio si arresta entro il confine segnato dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014.
8. Orbene, nello specifico l’iter motivazionale che innerva l’impugnata sentenza non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità, avendo la Corte dato contezza della esegesi delle acquisizioni probatorie, laddove ha concluso che, anche sotto il profilo della compatibilità fra orario di lavoro ed orario dei corsi serali che il ricorrente avrebbe dovuto frequentare in relazione ai permessi sindacali, l’assenza del lavoratore non poteva ritenersi giustificata.
Tale accertamento investe pienamente la quaestio facti e non è suscettibile di essere inficiato dalle critiche formulate.
In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo. Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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