CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 aprile 2021, n. 10688

Tributi – Imposta di registro – Cessione di compendio immobiliare a destinazione in parte edificabile ed in parte agricolo – Valore – Determinazione – Imposta complementare

Ritenuto che

I.B. s.r.l. e P.B. propongono ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso e ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, avverso la sentenza resa dalla CTR del Veneto, meglio indicata in epigrafe, che ha respinto l’appello dei contribuenti e quello incidentale dell’Agenzia delle entrate, in tal modo confermando la decisione di prime cure, che aveva ritenuto corretta la liquidazione dell’imposta di registro determinata dall’Ufficio a seguito di riqualificazione giuridica dell’operazione negoziale posta in essere con rogito di compravendita registrato il 9/4/2009, avente ad oggetto una casa di abitazione con garage e ripostigli, terreno ortivo di pertinenza, nonché il terreno retrostante, in parte edificabile ed in parte agricolo, siti nel Comune di Legnago, Frazione Vigo, nonché di rettifica del valore di mercato del compendio immobiliare, ma nel contempo aveva dichiarato illegittime le sanzioni e gli interessi, trattandosi di imposta di registro suppletiva.

Secondo l’Ufficio, l’atto in oggetto, registrato e tassato, in parte, come compravendita di fabbricato e, in parte, come compravendita di terreno edificabile, deve, invece, qualificarsi come compravendita di terreno fabbricabile per l’intera area trasferita, cui va applicata l’aliquota superiore (8% anziché 7%) rispetto a quella adottata dai contribuenti in autoliquidazione, e l’imposta complementare dovuta va, altresì, liquidata in rettifica, sulla base dell’accertato maggior valore del compendio immobiliare trasferito, unitariamente considerato, con applicazione di sanzioni ed interessi.

La CTR evidenziava come “la potenzialità edificatoria del terreno compravenduto fosse assolutamente prevalente rispetto al valore del fabbricato”, e come il valore per metro quadro che i contraenti avevano attribuito all’intera superficie, compresa l’area di sedime, fosse “confermato dai progetti relativi ai medesimi mappali oggetti di compravendita presentati presso l’Ufficio tecnico del Comune di Legnago (…) nei quali risulta evidente la volontà di procedere all’abbattimento del fatiscente fabbricato esistente per porre in essere una nuova e più ampia edificazione per una volumetria pressoché corrispondente a quella massima consentita”, ed inoltre come il gravame erariale fosse “privo di fondamento (…) circa la natura suppletiva dell’imposta applicata successivamente e diretta a correggere, in buona sostanza, quella originariamente individuata sulla base della stipula notarile”, donde la consequenziale disapplicazione delle sanzioni irrogate.

Con il primo motivo di ricorso, i contribuenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 20 e 43 lett. a), d.p.r. n. 131 del 1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, giacché la CTR veneta, facendo proprio gli assunti dell’Amministrazione finanziaria, ha ritenuto che “la potenzialità edificatoria del terreno fosse assolutamente prevalente rispetto al valore del fabbricato” in quanto rendeva chiaro l’intento perseguito dalle parti contraenti di alienare non il fabbricato, ma piuttosto l’area edificabile su cui insiste, cui non a caso è stato attribuito un valore unitario ed indipendente dal manufatto sovrastante, intento confermato dai “progetti relativi ai medesimi mappali oggetto di compravendita presentati presso l’Ufficio tecnico del Comune di Legnano (…) nei quali risulta evidente la volontà di procedere all’abbattimento del fatiscente fabbricato esistente per porre in essere una nuova e più ampia edificazione (…) per una volumetria pressoché corrispondente a quella massima consentita”.

Con il secondo motivo, deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 51, co. 3, d.p.r. n. 131 del 1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, giacché la CTR non ha considerato, ai fini della stima del valore dell’immobile, che il terreno ricade, in parte (mq. 971), in zona B3 e, in parte (mq. 28), in zona agricola, e che l’attribuito indice di edificabilità (2 mc./mq.) risulta eccessivo rispetto all’area, essendo peraltro l’edificabilità subordinata alla demolizione del fabbricato, al consolidamento di quello di confine per creare l’accesso all’area retrostante interclusa, e all’approvazione di una sorta di lottizzazione, come da bozza di progetto prodotto il giudizio, nonché alla esecuzione di opere di bonifica e tombinatura comportanti oneri economici, come da consulenza tecnica di parte, a firma del Geom. C.P.

Con il terzo motivo, deducono omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, giacché la CTR, aderendo acriticamente alle tesi dell’Ufficio, non ha argomentato alcunché sulle contestazioni svolte dai contribuenti in punto di erronea individuazione dell’oggetto della compravendita e prevalenza della potenzialità edificatoria del terreno rispetto al valore del fabbricato sovrastante.

Con il quarto motivo, deducono omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, giacché la CTR ha trascurato di considerare le caratteristiche del manufatto, ancora esistente nel 2011 e rientrante nell’oggetto della compravendita al pari del terreno.

Con il quinto motivo, deducono omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, giacché la CTR non ha motivato in ordine alle caratteristiche legittimanti la operata valorizzazione dell’immobile ed alla prospettata incidenza delle spese di demolizione del fabbricato sovrastante.

Con il sesto motivo, deducono omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, giacché la CTR non ha considerato, ai fini della determinazione per via comparativa del valore dell’immobile, la oggettiva differenza tra un fabbricato vetusto ed un terreno edificabile lottizzato.

Con il ricorso incidentale l’Agenzia delle entrate deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 42, 20 e 55, d.p.r. n. 131 del 1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, giacché la CTR veneta ha qualificato l’imposta dovuta come suppletiva, anziché complementare, pur non essendo l’Ufficio incorso in alcun errore, ma avendo proceduto alla riqualificazione ex art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, dell’oggetto giuridico della compravendita (da fabbricato a terreno edificabile), ed alla conseguente applicazione di una diversa aliquota nonché maggiore base imponibile.

Le censure oggetto del primo, del terzo e del quarto motivo di ricorso, sono fondate e meritano accoglimento.

L’art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986 dispone che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».

Il testo attuale della disposizione è frutto delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), della legge n. 205 del 2017 (di “interpretazione autentica” ex art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018), che recano l’espressa previsione della Rilevanza degli elementi extra testuali e del collegamento negoziale: il legislatore ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.

In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre.

La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, era prevalente orientata nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).

E’ stato reiteratamente affermato il principio della prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo, sulla forma apparente, indipendentemente dal nomen iuris, prevalenza che vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente appunto alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (tra le tante, Cass. n. 10216/2016, Cass. n. 1955/2015, Cass. n. 14150/2013, Cass. n. 6835/2013).

E’ anche vero che la Corte, sebbene con isolate pronunce, aveva affermato il diverso principio secondo cui l’attività riqualificatoria del l’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella << forma apparente >> alla quale lo stesso art. 20 (nella formulazione anteriore alla l. n. 205 del 2017) fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici», per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019) e 6790/2020).

Non v’è dubbio che il Legislatore sia intervenuto sull’art. 20 “in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione”.

Né può dirsi tradita in tal modo la funzione propria delle leggi di interpretazione autentica, dotate – per definizione – di efficacia retroattiva, essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal Legislatore medesimo.

Così si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., dell’art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986, come modificato dall’art. 1, comma 87 della L. n. 205 del 2017 e dall’art. 1, comma 1084 della L. n. 145 del 2018, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.

Il Legislatore nel riaffermare, con la denunciata norma, la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, ha precisato l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, per cui, come nitidamente sottolineato dalla Corte Costituzionale, un’interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della l. n. 212 del 2000, consentendo all’Amministrazione finanziaria di operare, appunto, in funzione antielusiva, senza peraltro l’applicazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, svincolandosi da ogni riscontro probatorio di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima possibilità di pianificazione fiscale.

Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 39/2021, si è nuovamente espresso sulla questione concernente la legittimità dell’intervento legislativo che ha interessato il più volte citato art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, dapprima con l’art. 1, co. 87, lett. a), l. n. 205 del 2017, e poi con l’art. 1, comma 1084, l. n. 145 del 2018, ed ha osservato che esso deve essere letto come destinato non già “all’ambito semantico di una singola disposizione”, ma piuttosto “a quello dell’intero compianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro>>, dove la sua origine storica di imposta d’atto <<non risulta superata dal legislatore positivo>> (sentenza n. 158 del 2020)”, in quanto risponde all’esigenza di ricondurre in un ambito più ordinato e coerente, rispetto al quadro normativo in forte evoluzione, l’interpretazione anche giurisprudenziale della norma tributaria, e ciò, segnatamente, in considerazione del progressivo consolidarsi di un’organica disciplina dell’abuso del diritto.

All’Ufficio, pertanto, deve ritenersi impedita la riqualificazione di un unico negozio, come di più o meno articolate sequenze negoziali, applicando il più volte citato art. 20, sulla base della valorizzazione di elementi extra testuali.

Tanto è confermato dalla stessa relazione che accompagna l’intervento legislativo in argomento, nella quale si sottolinea come, ai fini della interpretazione degli atti presentati per la registrazione, siano irrilevanti “gli interessi concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte”.

In altri termini, resta ferma la legittimità dell’attività di riqualificazione per via interpretativa dell’atto da registrare soltanto se operata “ab intrinseco”, senza l’utilizzazione di elementi ad esso estranei, in quanto l’interpretazione prevista dall’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dal singolo atto presentato alla registrazione, essendo viceversa la finalità antielusiva profilo affatto estraneo alla disposizione in esame.

A diversi limiti, invece, soggiace la potestà dell’Amministrazione finanziaria quando la riqualificazione è diretta a far valere il collegamento negoziale e, più in generale, qualunque forma di abuso del diritto ed elusione fiscale, ai sensi dell’art. 10-bis, l. n. 212 del 2000, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare.

L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.

Inoltre, con la legge n. 205 del 2017 (Legge di Bilancio 2018), è stato integrato – con effetti a decorrere dal 1° gennaio 2018 – l’art. 53 bis, d.p.r. n. 131 del 1986, inserendo il rinvio all’art. 10-bis, l. n. 212 del 2000 (“1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347.”).

L’art. 1, co. 87, l. n. 205 del 2017, infatti, è intervenuto sia sull’art. 20, che sull’art. 53-bis del d.p.r. n. 131 del 1986, rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, non solo per chiarire la portata applicativa dell’art. 20 T.U.R., in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”, ma anche per consentire all’Amministrazione finanziaria, attraverso il richiamo dell’art. 10-bis I. 212 del 2000 nel corpo dell’art. 53-bis, di riqualificare l’operazione elusiva, mediante atti collegati o elementi extra-testuali, nel caso ravvisi violazione dei principi sull’abuso del diritto.

La Corte Costituzionale, nella prima delle citate pronunce, non ha mancato di osservare che “il censurato intervento normativo appare finalizzato a ricondurre il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico), senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori, salvo che ciò sia espressamente stabilito dalla stessa disciplina del testo unico”, e che “proprio la clausola finale del censurato art. 20 «salvo quanto disposto dagli articoli successivi» concorre ad avvalorare la suddetta valenza sistematica dell’intervento legislativo del 2017 nell’assetto della disciplina del tributo. Invero, per effetto della novella, le ipotesi riconducibili all’accezione restrittiva generale della nozione di «atto» presentato alla registrazione sono individuabili solo al di fuori di quelle, espressamente regolate dallo stesso testo unico, che ammettono la rilevanza degli effetti di separati atti o fatti collegati o, in altri termini, di vicende rientranti nel complessivo programma di azione costituito da un precedente negozio, che incideranno sul regime fiscale di quest’ultimo o comporteranno trattamenti d’imposta diversificati.”

Ripercorrendo la giurisprudenza di questa Corte va senz’altro ribadito che l’obbligo generale di contraddittorio preventivo esiste unicamente per i tributi armonizzati, mentre per i tributi non armonizzati occorre una specifica previsione normativa (Cass., sez. un. n. 24823/2015; Cass. n. 11283/2016; n. 6758/2017; n. 313/2018); che l’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, concerne l’oggettiva portata effettuale dei negozi e non contiene, quindi, una disposizione antielusiva stricto sensu, come quella del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sicché l’avviso di liquidazione ex art. 20 non soggiace all’obbligo di contraddittorio preventivo (Cass. n. 15319/2013); che la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto”, per cui non v’è alcuna ragione per estendere alle imposte indirette, difettando di omogeneità le relative discipline normative, una disposizione, quale è l’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 del 1973, dettata in materia di imposte dirette per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario.

Risultano, dunque, prive di rilievo decisivo, nell’applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, le questioni concernenti sia la sussistenza o meno di un intento elusivo o simulatorio in capo alle parti contraenti, che l’Amministrazione non è tenuta a dimostrare, sia – per quanto già detto – il difetto di contraddittorio preventivo in sede di procedimento amministrativo.

Né, in senso contrario, appare utile richiamare la previsione del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 53 bis, atteso che, nel caso di specie, la disposizione si applica nel testo vigente prima delle modifiche apportate legge n. 205 del 2017, che, come già detto, ha esteso al campo delle imposte di registro, ipotecaria e catastale le “attribuzioni” ed i “poteri” riconosciuti agli Uffici dal d.p.r. n. 600 del 1973 (e, segnatamente, dai relativi artt. 31, 32 e 33) per l’accertamento delle imposte dirette, ma senza contemplare alcun richiamo alla disposizione di cui al d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37 bis, norma che non riguarda suddette “attribuzioni” e “poteri”, ma incide sull’oggetto dell’imposizione (Cass. n. 15319/2013 cit.).

Per la codificazione dell’istituto dell’abuso del diritto, costruito sulla scorta delle soluzioni definitorie elaborate dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, bisogna guardare al d.lgs. n. 128 del 2015, che ha previsto, all’art. 1, una definizione dell’abuso del diritto, e le sue implicazioni in materia fiscale con valenza generale, sia per i tributi armonizzati, per i quali trova fondamento nel principi dell’ordinamento UE, che per quelli non armonizzati, per i quali il fondamento va ricercato nei principi costituzionali, in attuazione della delega fiscale concessa al governo dagli artt. 5, 6 e 8, c.2 della legge 11 marzo 2014 n. 23, al dichiarato intento di “certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”.

E’ con detta disposizione che il Legislatore ha aggiunto, dopo l’art. 10 dello Statuto del contribuente (legge 212 del 2000), l’art. 10-bis (testo in vigore dal 1° ottobre 2015), a tenore del quale (comma 1) “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”).

Ed è proprio il predetto articolo 10 bis che prevede che l’accertamento dell’abuso del diritto da parte dell’Amministrazione debba essere obbligatoriamente preceduto da una richiesta di chiarimenti (comma 6), da fornire entro 60 giorni da parte del contribuente, e che l’atto impositivo (comma 8) debba essere sempre specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme eluse, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati ed ai chiarimenti forniti dal contribuente.

E’, infine, la l. n. 205 del 2017, con l’art. 1, co. 87, lett. b), che introduce nell’art. 53 bis, d.p.r. n. 131 del 1986, il rinvio all’art. 10-bis, l. n. 212 del 2000 (testo in vigore dal 1° gennaio 2018), e con esso completa il pieno ingresso dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito specifico della imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale.

In conclusione, se una diversa lettura dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, così come risulta autenticamente interpretato dal Legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ciò non di meno il ricordato principio giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulla forma” può sempre essere fatto valere dall’Amministrazione finanziaria, sia pure entro i limiti imposti all’attività ermeneutica dalla richiamata disposizione, mentre ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dell’art. 10 bis dello Statuto del Contribuente, stante l’espresso richiamo contenuto nell’art. 53 bis, d.p.r. n. 131 del 1986, che richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è in precedenza detto.

Con specifico riferimento alla fattispecie per cui è causa, deve ritenersi superato l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui, in materia di imposta di registro, nel caso di vendita di terreno con sovrastante fabbricato vetusto, la richiesta di concessione edilizia per la costruzione di un nuovo immobile, previa demolizione del fabbricato, comporta la riqualificazione ex art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, e quindi senza attivazione del preventivo contraddittorio ex art. 10 bis l. n. 212 del 2000, dell’atto presentato alla registrazione, quale vendita di terreno edificabile e la conseguente rettifica dell’imposta, dovendo il negozio essere sottoposto a tassazione in ragione degli effetti giuridici che oggettivamente produce (Cass. n. 313/2018, n. 12062/2016, n. 16983/2015, n. 24799/2014).

La sopra delineata soluzione interpretativa, peraltro, contribuisce ad avvicinare il trattamento tributario in materia fiscale tra imposte dirette ed indirette, atteso che, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, “In tema di IRPEF, ai fini della tassazione separata, quali “redditi diversi”, delle plusvalenze realizzate a seguito di cessioni, a titolo oneroso, di terreni dichiarati edificabili in sede di pianificazione urbanistica, l’alternativa fra “edificato” e “non edificato” non ammette un “tertium genus”, con la conseguenza che la cessione di un edificio, anche ove le parti abbiano pattuito la demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria, non può essere riqualificata dall’Amministrazione finanziaria come cessione del terreno edificabile sottostante, neppure se l’edificio non assorbe integralmente la capacità edificatoria residua del lotto su cui insiste, essendo inibito all’Ufficio, in sede di riqualificazione, superare il diverso regime fiscale previsto tassativamente dal legislatore per la cessione di edifici e per quella dei terreni. (Cass. n. 5088/2019, n. 22409/2019, n. 31602/2018, n. 15629/2014, e circolare dell’Agenzia delle entrate n. 23/2020).

La sentenza impugnata non si è attenuta ai principi sopra esposti ed ha affermato, erroneamente, che l’Amministrazione finanziaria potesse considerare e valorizzare, nell’avviso di accertamento, ai fini della qualificazione giuridica dell’atto presentato alla registrazione (compravendita di una casa di abitazione con annesse pertinenze e di ulteriore terreno retrostante, piuttosto che compravendita di un’area fabbricabile ancorché in parte occupata da un manufatto da abbattere), il compendio di elementi extra testuali acquisiti a seguito di indagini officiose, afferenti circostanze fattuali temporalmente antecedenti o successive all’atto medesimo (progetti relativi ai medesimi mappali oggetti di compravendita presentati, in epoca antecedente, presso l’Ufficio tecnico del Comune di Legnago) in quanto idonee, in tesi, a far emergere il reale intento negoziale, non altrimenti univocamente individuabile dal tenore delle pattuizioni, dei contraenti, volto all’ottenimento di una “evidente sottrazione dell’imposta dovuta” ed integrante abuso del diritto, dovendo l’ente impositore limitare la propria valutazione al contenuto testuale dell’atto tassato.

Anche le restanti censure, oggetto del secondo, quinto e sesto motivo di ricorso, sono fondate e meritano accoglimento nei termini di seguito precisati.

Anzitutto, l’Amministrazione finanziaria ha proceduto alla rettifica del valore del bene trasferito da. P.B. alla I.B. s.r.l., sulla scorta della operata riqualificazione giuridica dell’atto presentato alla registrazione, considerando il fabbricato, con relativo terreno di pertinenza, ed il terreno retrostante a detta corte, come un’unica ed estesa area fabbricabile, presupposto impositivo che, per le ragioni in precedenza esposte, viene a cadere, con inevitabili conseguenze anche sul piano estimativo.

Inoltre, e per quanto concerne la valorizzazione del terreno retrostante operata dall’Amministrazione finanziaria, le censure svolte dai contribuenti, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, appaiono non prive di fondatezza.

Va considerato, infatti, che gli odierni ricorrenti avevano espressamente dedotto la rilevanza dei costi delle opere necessarie per l’utilizzazione edificatoria dell’area per cui è causa, e come essi finissero per incidere apprezzabilmente sul valore di mercato, ove riferito soltanto a terreni già lottizzati, e soprattutto che i rilievi oggetto di tale motivo di opposizione, riproposto in appello, erano supportati da una consulenza tecnica, a firma del Geom. C.P., con la quale si proponevano alcuni correttivi.

A fronte di tutto ciò, era onere della CTR prendere in esame tale aspetto del gravame, in rapporto alle dedotte risultanze probatorie di parte, di per sé idonee a modificare la stima sintetico-comparativa, quest’ultima contestata proprio perché effettuata senza alcun specifico richiamo alla concretezza della fattispecie.

La giurisprudenza di questa Corte, in tema di imposta di registro, è nel senso che di chiarire che l’art. 51, co. 3, d.p.r. n. 131 del 1986, nella parte in cui prevede che, ai fini della rettifica del valore dei beni, debba aversi riguardo ai trasferimenti a qualsiasi titolo ed alle divisioni e perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni, aventi ad oggetto i medesimi immobili o altri di analoghe caratteristiche e condizioni, non comporta l’immodificabilità del valore risultante da detti atti, ma si limita ad indicare un parametro certo di confronto in base al quale l’Ufficio deve determinare il valore del bene in comune commercio (Cass. n. 963/2018 e n. 4363/2011).

Tale modo di procedere, adeguatamente censurato da parte dei contribuenti, è stato avallato nella sostanza dal giudice di appello, il cui ragionamento risulta privo di qualsivoglia elaborazione critica degli elementi di segno contrario, risultando basato sulla ritenuta congruità della stima dell’Ufficio, perché frutto di prudente apprezzamento, e perché richiama le “caratteristiche delle zone in cui ricadevano i terreni”.

Da qui deriva l’effettiva sussistenza della carenza motivazionale denunciata, trattandosi di motivazione a tal punto generica, ed anzi apodittica, da precludere, nella presente sede di legittimità, qualsivoglia controllo di correttezza logico-giuridica.

Merita accoglimento, infine, l’impugnazione incidentale proposta dall’Agenzia delle entrate, concernente la mancata applicazione di sanzioni ed interessi, in ragione dell’errore commesso dai giudici tributari circa la natura suppletiva e non complementare dell’Imposta di registro della quale si discute.

Il d.p.r. n. 131 del 1986, art. 42, espressamente statuisce che: è “principale” l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’Ufficio, se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica; è “suppletiva” l’imposta applicata successivamente, se diretta a correggere errori od omissioni dell’Ufficio; è “complementare” l’imposta applicata in ogni altro caso.

La liquidazione non è intervenuta a correggere errori od omissioni dell’Ufficio, non attiene al controllo sulle somme autoliquidate sulla scorta del valore dichiarato dalle parti, operato senza fare riferimento a elementi esterni all’atto, senza cioè sconfinare in valutazioni o apprezzamenti derivanti da attività istruttoria.

Deve, quindi, negarsi che l’imposta liquidata dall’Ufficio possa qualificarsi imposta suppletiva (Cass. 3456/2021, n. 15450/2019, n. 15319/2013, n. 26855/2007).

La sentenza impugnata, in conclusione, va cassata con rinvio alla CTR del Veneto che, in diversa composizione, provvederà a nuovo esame della controversia, alla luce dei principi innanzi esposti, nonché alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso principale, nei termini di cui in motivazione, ed il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR del Veneto, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese processuali.