CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 30143 depositata il 30 ottobre 2023
Lavoro – Licenziamento – Soppressione del posto di lavoro – Giustificato motivo oggettivo – Comunicazione scritta – Obbligo di repêchage – Accoglimento parziale
Fatti di causa
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza in atti, ha respinto il reclamo proposto da G.S. avverso la sentenza che aveva confermato il rigetto della domanda di impugnazione del licenziamento intimatole per soppressione del posto di lavoro da S.I. SPA ed ha condannato la lavoratrice alla rifusione delle spese del giudizio.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione G.S. con due motivi ai quali ha resistito la S.I. SPA con controricorso.
Le parti hanno depositato memoria ex art 380 bis.1., primo comma c.p.c. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380 bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Motivi della decisione
1.- Col primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione alla corretta uniforme interpretazione dell’art. 2, comma 2 della legge n. 604/1966, nonché degli artt.1324, 1363 e 1366 c.c.; ex art. 360 comma 1 n. 4 e 5 violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 c.p.c. Si sostiene in primo luogo che la Corte di appello avrebbe fatto erronea applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 2 della legge 604/1966 omettendo di sanzionare con la declaratoria di inefficacia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo erogato alla signora G. in quanto immotivato ed in violazione del principio di specificità e di immodificabilità delle ragioni poste alla base del recesso datoriale. Nella lettera inviata alla dipendente si sosteneva che il licenziamento era “motivato dalla soppressione del posto di lavoro e dal venir meno delle attività e delle mansioni in cui la dipendente era addetta. Le attività assegnate in passato… sono già state ridistribuite tra le altre risorse attualmente in forza, non è stato possibile reperire una posizione può assegnare alla lavoratrice per evitare licenziamento e non sono possibili misure di ricollocazione”.
Secondo la ricorrente tale comunicazione non rispettava l’onere della specifica motivazione perché la soppressione del posto non è motivo soddisfacente; e non lo è neppure il venir meno delle attività e delle mansioni cui la dipendente era addetta, dal momento che si dice pure che le attività assegnate in passato erano già state ridistribuite, e quindi non era chiaro se le attività fossero venute meno oppure fossero state redistribuite. In ogni caso, la motivazione addotta non era specifica come richiede la norma e comunque non rispondeva alla nozione di giustificato motivo oggettivo, che implica una ragione tecnica organizzativa o produttiva che determina il licenziamento, da indicare appunto specificamente.
1.1.- Ad avviso del Collegio il motivo non è fondato. Secondo la sentenza impugnata la soppressione del posto ed il venir meno delle mansioni prevalenti e la ridistribuzione di quelle residue costituivano la ragione vera del recesso esplicitata nell’atto di licenziamento e consentivano il rispetto del diritto di difesa della lavoratrice in conformità alla ratio legis fondamentale dell’art.2 della legge 604/1966 come novellato dalla l. 92/2012 (sentenza n. 7851 del 20/03/2019). Nel corso del giudizio era stata solo dettagliato, in funzione meramente integrativa della motivazione addotta, che ciò era avvenuto a seguito del “calo commesse ed introduzione del sistema Bridge di rilevazione delle presenze”, ma questa integrazione non aveva comportato alcun mutamento della ragione organizzativa fondamentale per come specificata nell’atto di recesso.
I giudici d’appello hanno anche affermato che la soppressione del posto di lavoro e la ridistribuzione delle mansioni rientrava nella categoria delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e rispettava quindi la nozione del g.m.o. prevista dall’art 3 della legge 604/1966.
1.2. Quella operata dai giudici di appello appare pertanto una plausibile spiegazione del contenuto dell’atto di recesso che resiste alle censure sollevate in ricorso, anche in relazione alla dedotta violazione delle regole di ermeneutica negoziale. Non si configurano infatti nella fattispecie le violazioni delle norme indicate con il motivo di ricorso, avuto riguardo anche all’orientamento di questa Corte secondo cui (sentenza n. 16795 del 06/08/2020) “In tema di licenziamento individuale, la novellazione dell’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 per opera dell’art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, si è limitata a rimuovere l’anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l’onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, ad esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento”.
2.- Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. in relazione alla corretta ed uniforme interpretazione degli artt. 3 e 5 della legge 604/1966 nonché dell’art. 2967 e degli artt. 2103, 1175, 1375 e 2697 c.c. in relazione al mancato assolvimento dell’onere di provare l’impossibilità del repêchage. Sotto questo profilo si deduce che, nelle precedenti fasi di giudizio, la difesa della parte ricorrente aveva ampiamente dedotto che la Società convenuta non aveva in alcun modo allegato né dato prova dell’inevitabilità del licenziamento, omettendo di dedurre alcunché in merito all’inesistenza di posizioni lavorative anche riconducibili a mansioni inferiori, cui applicare utilmente la ricorrente.
Il motivo è fondato. La Corte territoriale ha affermato che la S.I. avrebbe adempiuto al gravoso onere probatorio su di essa incombente in materia di repêchage aggiungendo che, pur permanendo in capo al datore l’onere della prova in merito, si ravvisava l’opportunità/necessità che il lavoratore ricorrente “collaborasse” nell’accertamento di un possibile repêchage mediante allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali la stessa poteva essere utilmente collocata. Ha inoltre osservato che l’assolvimento dell’obbligo di repêchage e, soprattutto, la prova dell’inesistenza di posizioni lavorative cui applicare la ricorrente era evincibile dal fatto che, successivamente a licenziamento, non sarebbero state effettuate nuove assunzioni in settori all’interno dei quali proficuamente utilizzare le energie lavorative della sig.ra G., a nulla valendo peraltro l’assunzione avvenuta alla fine del 2017 di una risorsa nell’ambito dell’ufficio acquisti, con mansioni fungibili a quelle della ricorrente.
Entrambe le affermazioni precedenti non rispondono però alle regole in materia di repêchage per come individuate dalla giurisprudenza di questa Corte atteso che la sentenza impugnata ha, da un lato, illegittimamente gravato la parte ricorrente di un onere ad essa non spettante, violando contemporaneamente sia le norme speciali (l’art. 5 della l. n. 604/1966) che quelle generali (l’art. 2967 c.c.) in materia di ripartizione degli oneri probatori; e, dall’altro, ha completamente omesso di dar corso all’accertamento della effettiva verifica ed offerta, da parte del datore di lavoro, di un reimpiego in posizioni lavorative di livello inferiore, a nulla rilevando l’offerta di un trasferimento che precedeva di circa un anno l’avvio della procedura di recesso.
Così facendo la Corte di merito ha violato i principi in tema di repêchage, integrante elemento costitutivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435), avendo posto a carico del lavoratore un onere che non gli appartiene e non avendo neppure escluso la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (per come precisamente statuito da Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653; Cass. 24 settembre 2019, n. 23789).
3.- In forza di quanto fin qui osservato il ricorso va accolto limitatamente al secondo motivo, mentre va respinto il primo; la decisione deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rimessa al Giudice del merito, indicato in dispositivo, per la prosecuzione del giudizio.
4.- Il giudice del rinvio procederà altresì alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione.
Non sussistono i presupposti processuali del raddoppio del contributo unificato (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.