Corte di Cassazione ordinanza n. 3657 depositata il 13 febbraio 2020
FATTI DI CAUSA
1. — Il Tribunale di Terni, pronunciando nel giudizio instaurato da Officina Ortopedica V. S. s.r.l. nei confronti di V.R., al quale era stato riunito altro giudizio proposto da V. M., socio della società, contro la convenuta del primo procedimento, rigettava sia le domande principali, volte ad ottenere la condanna della convenuta stessa, socio e consigliere di amministrazione della società, al risarcimento dei danni per lo svolgimento di attività in concorrenza con quella della nominata Officina Ortopedica V. S., sia la domanda riconvenzionale di V.R. diretta al pagamento dei compensi che le sarebbero spettati quale amministratrice della società dal 1998 al 2007.
2. — La Corte di appello di Perugia, decidendo sui gravami proposti contro la sentenza di primo grado, rigettava sia l’appello principale che quello incidentale. Escludeva il compimento di attività concorrenziale da parte di V.R., rilevando che la medesima aveva avviato una diversa attività di impresa nel febbraio 2008, in data successiva alle proprie dimissioni dalla società attrice; osservava, poi, che la mancata richiesta del compenso da parte della stessa V.R. avesse il significato di una rinuncia, ovvero di un’accettazione della proposta di gratuità dell’attività di amministratore implicita nella mancata previsione della relativa posta nei bilanci di esercizio, rilevando come l’errore da ella prospettato — il fatto, cioè, che la mancata richiesta del compenso, da parte sua, trovasse giustificazione nel fallace convincimento circa la gratuità dell’attività svolta dagli altri amministratori — avrebbe dovuto tradursi nella impugnativa dell’atto di rinuncia a norma degli artt. 1427 ss. c.c.; con riguardo alle domande risarcitorie proposte dalla medesima V.R., la Corte di merito, dopo aver evidenziato che l’appellante non ne aveva lamentato l’omessa pronuncia da parte del Tribunale, rilevava che esse erano comunque da rigettare per assenza di prova.
3. — La sentenza della Corte di appello di Perugia, pubblicata il 30 settembre 2015, è impugnata per cassazione da V.R. con due motivi. Resistono con controricorso V. M. e Officina Ortopedica V. S. s.r.l.: quest’ultima ha proposto ricorso incidentale fondato su di un unico motivo. Le due controricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. — Il primo motivo di ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 1709, 2364, 2366, 2369 e 2389 c.c., nonché il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia e l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio. Secondo la ricorrente principale, la Corte di appello aveva mancato di considerare che la gratuità della prestazione dell’amministratore, se non prevista nello statuto, deve emergere da una delibera assembleare, o del consiglio di amministrazione, con espressa accettazione dell’amministratore: delibera che nella fattispecie era in fatto inesistente. Osserva l’istante che non aveva mai rinunciato i compensi, né accettato che la prestazione ad essa richiesta fosse gratuita; rileva che i bilanci di esercizio non contenevano alcuna posta relativa ai compensi degli amministratori e che il non aver preteso il relativo compenso non poteva equivalere a un atto di rinuncia; nel corpo del motivo viene poi richiamato il principio per cui la rinuncia al compenso, ove sia tacita, deve essere inequivoca; lamenta inoltre l’istante che il giudice distrettuale abbia attribuito rilievo alla mancata proposizione della domanda di annullamento per errore dell’atto di rinuncia, dando così per accertato ciò che accertato non era: e cioè l’esistenza di tale atto; deduce, infine che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la richiesta del compenso avanzata con la propria domanda riconvenzionale, qualificata come revoca della rinuncia, spiegava effetto non solo per il futuro, ma anche per il passato.
L’eccezione di inammissibilità del motivo proposta dai controricorrenti non coglie nel segno con riferimento al profilo inerente alla contestata insussistenza dell’atto di rinuncia: evenienza, questa, che è posta alla base della decisione della Corte di appello. Con riguardo a tale parte della decisione il motivo proposto è fondato.
Le Sezioni Unite hanno oramai chiarito che l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una società per azioni è legato alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c. (Cass. Sez. U. 20 gennaio 2017, n. 1545). In linea con tale insegnamento si è poi di recente ribadito il principio, già presente nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. infatti, Cass. 1 aprile 2009, n. 7961 e Cass. 26 febbraio 2002, n. 2861, entrambe rese in tema di società cooperative a responsabilità limitata), per cui nelle società di capitali deve considerarsi legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico (Cass. 9 gennaio 2019, n. 285).
Il venir meno del diritto dell’amministratore al compenso può però discendere anche dalla rinuncia dell’interessato (Cass. 3 ottobre 2018, n. 24139): ciò in quanto il diritto in questione è senz’altro disponibile (Cass. 21 giugno 2017, n. 15382; Cass. 26 gennaio 1976, n. 243).
Tale rinuncia non deve essere necessariamente espressa: essa deve però potersi desumere da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa.
Valgono, al riguardo, i generali principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento al silenzio: affinché il silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell’altra (Cass. 14 maggio 2014, n. 10533; Cass. 16 marzo 2007, n. 6162; Cass. 20 febbraio 2004, n. 3403; Cass. 14 giugno 1997, n. 5363, secondo cui il creditore che accetta un pagamento parziale, che il debitore esegue espressamente a titolo di saldo del maggior importo giudizialmente preteso, senza replicare alcunché, non perciò rinuncia al credito o rimette il debito).
E così, per la rinuncia tacita è necessario un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto; infatti, al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni (Cass. 5 febbraio 2018, n. 2739; Cass. 25 agosto 1999, n. 8891).
Si è pertanto precisato che la rinuncia all’emolumento, da parte dell’amministratore, possa desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà abdicativa, non essendo sufficiente la mera inerzia o il silenzio (Cass.3 ottobre 2018, n. 24139).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha ricavato la rinuncia al compenso di V.R. dalla mancata richiesta di esso e ha precisato che tale rinuncia risultava motivata dal convincimento, in capo alla stessa ricorrente, che gli altri amministratori avessero fatto altrettanto.
In tal modo, la Corte di merito ha però solo spiegato le ragioni della condotta omissiva dell’istante: non ha dato conto delle ragioni per le quali quel comportamento potesse assurgere al manifestazione di una volontà negoziale. In altri termini, il proposito dell’odierna istante di conformare la propria condotta a quella degli altri amministratori — che, secondo quanto da lei (erroneamente) opinato, avevano dismesso il loro diritto alla percezione del corrispettivo maturato per lo svolgimento della rispettiva attività — resta relegato nella sfera interna della parte e, proprio perché privo di esteriorizzazione, non vale ad attribuire all’inerzia della stessa la consistenza propria di un comportamento rappresentativo di una manifestazione di volontà.
La conclusione cui è pervenuta la Corte di appello sembra celare, in realtà, un fraintendimento.
Infatti, il principio secondo il quale il silenzio, in alcuni casi, può essere rilevante giuridicamente poggia sul rilievo per cui, in presenza di determinati fatti o situazioni, la condotta inattiva della parte viene ad assumere un preciso significato. In tali ipotesi rilevano le illazioni che possano trarsi da tale silenzio circostanziato: nel contesto indicato il valore negoziale attribuito a quel comportamento omissivo discende, quindi, dai principi di autoresponsabilità e di affidamento. Né l’autore del contegno omissivo, né altri soggetti interessati possono difatti ignorare, nelle evenienze date, il significato concludente di quell’inerzia.
Diversa è la situazione che si determina quando si è al cospetto di una mera inattività, a un silenzio puro e semplice: una tale condotta è giuridicamente non significativa proprio in quanto ad essa non può attribuirsi un significato negoziale (sempre che, beninteso, la legge non disponga altrimenti: ad es. artt. 1399, comma 4, 1597, comma 1, 1712, comma 2, 2301, comma 2, c.c); il detto contegno di inerzia non giustifica, quindi, l’affidamento quanto alla venuta ad esistenza del negozio e, per riflesso, non onera chi lo tiene di valutare l’ipotetica — ma di fatto insussistente — impegnatività del comportamento tenuto.
Ben si intende, allora, come nella fattispecie oggetto di causa, la condotta meramente omissiva di V.R. non potesse assumere il significato di una manifestazione di volontà in forza delle sole motivazioni che l’avevano occasionata .Il principio di cui deve farsi applicazione, nella fattispecie in esame, è pertanto il seguente: la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.
Le ulteriori doglianze svolte nel motivo restano assorbite.
2. — Il secondo motivo del ricorso principale lamenta l’omessa pronuncia sulla condotta illecita della società, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. La ricorrente si duole che la Corte distrettuale abbia rigettato le domande risarcitorie ritenendo che le stesse non fossero provate; assume che le condotte poste in atto dal presidente del consiglio di amministrazione, V. S., ed al suo procuratore speciale V.R. Marco, avevano prodotto danni ad essa ricorrente e che i medesimi andavano risarciti.
Il motivo è palesemente infondato.
Il vizio lamentato è insussistente, in quanto la Corte di appello si è pronunciata sulla domanda risarcitoria. Le deduzioni svolte richiamando le risultanze probatorie nulla hanno a che vedere con l’omessa pronuncia e trascurano comunque di considerare che l’esame e la valutazione dei documenti di causa, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito (per tutte: Cass. 31 luglio 2017, n. 19011; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056
3 — Il motivo di ricorso incidentale è rubricato come violazione e falsa applicazione degli artt. 2390 e 2392 c.c. e violazione dell’art.115 c.p.c.. La censura investe il profilo della violazione dell’obbligo di non concorrenza che gravava su V.R.: si lamenta che la Corte di appello abbia mancato di riformare la sentenza di primo grado con riferimento alla statuizione vertente sulla mancata ammissione delle prove dedotte dalla società; si deduce, inoltre, che i giudici di merito, una volta appurata la responsabilità della controparte, ben avrebbero potuto liquidare il danno in via equitativa.
Il motivo è nel complesso infondato.
In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (per tutte: Cass. 17 gennaio 2019, n. 1229): evenienze, queste, che nella fattispecie non ricorrono.
Oltretutto, la censura è carente di autosufficienza, in quanto l’istante non spiega se il tema della mancata ammissione delle istanze istruttorie (di cui la sentenza impugnata non si occupa) fosse stato devoluto al giudice del gravame con uno specifico motivo di appello. La ricorrente omette di chiarire, poi, quale sia la decisività del capitolato richiamato nel corpo del motivo (sulla necessità di una tale indicazione, cfr. Cass. 17 febbraio 2004, n. 3004): tanto più che la ratio decidendi della sentenza, con riguardo al tema dell’illecito concorrenziale, verte sulla mancata dimostrazione del danno, mentre i capitoli di prova di cui trattasi paiono riferirsi al distinto profilo dell’esistenza di una responsabilità risarcitoria di V.R..
Da ultimo, per venire al secondo profilo di doglianza sviluppato nell’ambito del motivo, è ben noto che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non ricomprenda l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310; Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990).
4. — In conclusione, va accolto il primo motivo del ricorso principale, mentre i restanti risultano essere infondati. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di appello di Perugia, cui è demandato di statuire sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il primo motivo di ricorso principale e rigetta il secondo; rigetta il ricorso incidentale; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità; ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.
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