CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 agosto 2018, n. 20469
Licenziamento collettivo – Comunicazione ex art. 4, co. 4, L. n. 223/1991 – Mobilità – Criteri di scelta – Legittimità della procedura – Accertamento
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 90 pubblicata il 2.3.17, ha respinto il reclamo della sig.ra M. avverso la sentenza di primo grado che, all’esito della fase di opposizione, aveva confermato l’ordinanza di rigetto dell’impugnativa del licenziamento intimato nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo.
2. La Corte territoriale ha ritenuto provato che la M., inquadrata nel IV livello del c.c.n.I. applicato, avesse svolto mansioni di impiegata Sistemi di Gestione e che tale profilo professionale fosse stato correttamente indicato nella comunicazione iniziale di cui all’art. 4, comma 4, L. n. 223 del 1991, eccetto che per l’erronea collocazione nel settore Risorse Umane, anziché nel settore Tecnico. Quest’ultima imprecisione, secondo la sentenza impugnata, non aveva impedito l’esercizio effettivo del controllo sindacale atteso che la M. era l’unica risorsa a svolgere le attività indicate nella comunicazione iniziale.
3. Secondo la Corte di merito, difettavano i presupposti di abitualità e prevalenza per il riconoscimento alla lavoratrice della qualifica superiore rivendicata, di Responsabile sistemi di gestione, atteso che la stessa aveva svolto la funzione di Rappresentante della Direzione per la qualità e la sicurezza in maniera occasionale (come riferito dal teste P. subentrato alla predetta dopo il licenziamento), data l’inesistenza di cantieri attivi della società; che parimenti saltuaria era stata la funzione di Internal Auditing, legata alle verifiche esterne aventi cadenza quasi annuale. La ricostruzione delle mansioni concretamente svolte dalla dipendente rendeva irrilevanti, secondo la Corte d’appello, le censure sul mancato rispetto della normativa Iso 9001 nella redazione dell’organigramma e il profilo di formale inquadramento in esso indicato.
4. La sentenza impugnata ha, inoltre, ritenuto come la comprovata esternalizzazione delle funzioni di Gestione Qualità e la redistribuzione, tra altri dipendenti, delle attività saltuarie già svolte dalla M., fosse legittima e non smentisse la soppressione delle prevalenti mansioni dalla stessa svolte.
5. La Corte territoriale ha ritenuto che l’avvenuta conclusione in data 29.4.13 dell’accordo sindacale tra datore di lavoro e rappresentanti dei lavoratori precludesse una verifica in sede giudiziale della legittimità dei motivi posti a fondamento della procedura di mobilità e dei criteri di scelta adottati, in assenza di comportamenti della società atti a determinare una elusione del potere di controllo sindacale.
6. Ha, infine, valutato gli elementi addotti dall’appellante (illegittimità della procedura, assenza di dipendenti donne dopo i licenziamenti, storia lavorativa della M.) come inidonei a far presumere la discriminatorietà del licenziamento, anche in ragione dell’individuazione dei lavoratori in esubero secondo un criterio oggettivo come quello tecnico-produttivo e del licenziamento di più di metà degli occupati nell’azienda.
7. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la sig.ra M., affidato a tre motivi, articolati in violazione di legge e vizio di motivazione, cui ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria, la S. C. s.p.a..
8. La parte ricorrente ha depositato istanza di sospensione del giudizio di legittimità, ai sensi degli artt. 398, comma 4 c.p.c. e 295 c.p.c., in ragione della pendenza di ricorso per revocazione della sentenza impugnata, sollecitando, inoltre, la rimessione alle Sezioni Unite di questa Corte della questione di diritto sulla necessaria sospensione del giudizio di legittimità ove “contemporaneamente penda la causa di revocazione della sentenza per errori ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ed il giudizio di legittimità verta su omessi esami ex art. 360, comma 5 o sul travisamento di fatti storici”.
Ragioni della decisione
1. Col primo motivo di ricorso la lavoratrice ha censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 4 e 5 L. n. 223 del 1991, e degli artt. 1175 e 1375 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
2. Ha dedotto l’illegittimità del licenziamento in quanto fondato sulla comparazione della ricorrente solo con se stessa, senza confronto con tutti gli altri dipendenti necessario al fine della verifica dell’esistenza di un nesso di causalità tra il progetto di ridimensionamento, peraltro non esplicitato, e il licenziamento e nonostante la mancata cessazione di tutte le funzioni e mansioni svolte dalla sig.ra M.
3. La ricorrente ha individuato i seguenti fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti il cui esame sarebbe stato omesso: comparazione della sig.ra M. solo con se stessa anziché con tutti i dipendenti, come necessario pur in presenza di accordo con le organizzazioni sindacali; assenza di un progetto aziendale esplicitato sulla cui base verificare il rispetto dei criteri di scelta e l’esistenza di un nesso causale tra il ridimensionamento e il licenziamento; maggiore punteggio assegnato alla M. (12,83) rispetto a quello dei colleghi I. (10,17) e P. (12,42), non licenziati; travisamento del fatto storico sull’utilizzo da parte aziendale dell’unico criterio delle esigenze tecnico produttive in luogo di quelli realmente utilizzati e relativi alla anzianità di servizio, ai carichi familiari, alle esigenze tecnico, produttive e organizzative aziendali; incoerente assegnazione di zero punti al parametro delle esigenze tecnico produttive, senza esplicitazione del motivo di tale scelta; mancata cessazione delle funzioni assegnate e svolte unicamente dalla M. (Responsabile sistemi di gestione per la qualità e sicurezza e Internai Auditing) e distribuzione delle stesse tra due risorse non licenziate e dichiarate in esubero nella comunicazione iniziale; carattere discriminatorio del licenziamento desumibile dalla mancata cessazione delle funzioni svolte dalla ricorrente; omesso esame dei dati statistici che confermano il numero delle dipendenti donne, dopo il licenziamento in oggetto, come pari a zero.
4. Col secondo motivo la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 4, L. n. 233 del 1991, degli artt. 4 e 5 L. n. 223 del 1991 e degli artt. 1175 e 1375 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
5. Ha dedotto come la sentenza d’appello, nonostante apposito motivo di reclamo, avesse omesso di rilevare l’attribuzione da parte datoriale alla dipendente di una qualifica contrattuale inesistente, di “impiegata sistemi gestione/impiegata amministrativa”. Ha ribadito che la Corte di merito non avesse rilevato l’illegittimità del licenziamento e, prima ancora, dichiarato che l’azienda avrebbe dovuto comparare le posizioni di tutti i lavoratori con analoga professionalità e verificare il nesso causale tra il ridimensionamento e il recesso.
6. La ricorrente ha individuato i seguenti fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti il cui esame sarebbe stato omesso: attribuzione alla M. della qualifica contrattuale inesistente di “impiegata sistemi gestione/impiegata amministrativa, con conseguente elusione del controllo sindacale sotto un duplice profilo: la falsificazione delle esigenze tecnico produttive attraverso la collocazione della dipendente in un diverso settore di appartenenza, quello amministrativo anziché quello tecnico; l’individuazione in tal modo di un capo del settore di appartenenza della predetta che avrebbe potuto assorbire le mansioni non destinate a cessare; assegnazione delle mansioni di Responsabile sistemi di gestione, previa redistribuzione, ai dipendenti I. e P. e non al capo settore amministrativo, sig.ra S.; arbitraria elusione del controllo sindacale con violazione dei criteri di scelta.
7. Col terzo motivo di ricorso la lavoratrice ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato nonché vizio di ultrapetizione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 c.p.c., per avere la Corte pronunciato sull’accertamento della qualifica superiore in assenza di domanda, posto che quest’ultima era diretta unicamente ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo.
8. Occorre esaminare anzitutto l’istanza, proposta dalla parte ricorrente, di sospensione del giudizio di legittimità, ai sensi degli artt. 398, comma 4 c.p.c. e 295 c.p.c., o di rinvio dello stesso a data successiva all’esito del giudizio di revocazione della sentenza d’appello, pendente dinanzi alla Corte d’appello di Ancona.
9. Ai sensi dell’art. 398, comma 4, c.p.c., “La proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo. Tuttavia, il giudice davanti a cui è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l’uno o l’altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta”.
10. La parte ricorrente ha dato atto del rigetto dell’istanza di sospensione proposta, ai sensi dell’art. 398, comma 4, c.p.c., dinanzi alla Corte d’appello di Ancona, per difetto del requisito della non manifesta infondatezza.
11. Non può trovare accoglimento l’istanza di sospensione del procedimento di cassazione, in pendenza del giudizio di revocazione, formulata dalla ricorrente ai sensi dell’art. 295 c.p.c.. Questa Corte, con orientamento consolidato e che qui si intende ribadire, ha affermato che “la sospensione del procedimento di legittimità, in pendenza del giudizio di revocazione, non può esser disposta ai sensi dell’art. 295 c.p.c. non ricorrendone i presupposti, dato che la sospensione necessaria del processo, quando non sia imposta da una specifica disposizione di legge, presuppone l’esistenza di una relazione sia di pregiudizialità logica (nel senso che la definizione di una controversia rappresenti un momento ineliminabile del processo logico relativo alla decisione della causa dipendente) sia di pregiudizialità giuridica (nel senso che la controversia pregiudiziale sia diretta alla formazione di un giudicato che, in difetto di coordinamento tra i due procedimenti, possa porsi in conflitto con la decisione adottata nell’altro giudizio), e dato che nel giudizio di revocazione la fase rescindente ha per oggetto l’accertamento del denunciato vizio della sentenza impugnata e non l’esistenza o il contenuto del rapporto giuridico in ordine al quale la sentenza stessa abbia giudicato, mentre solo l’eventuale fase rescissoria viene a rinnovare il giudizio su tali punti” (Cass. n. 14370 del 1999, in motivazione; nello stesso senso, Cass. n. 4702 del 2006; Cass. n. 4329 del 1997; Cass. n. 10978 del 1994). Posto che la fase rescissoria nel giudizio di revocazione è solo eventuale, difetta il requisito della pregiudizialità necessaria ai fini dell’art. 295 c.p.c..
12. Non appare rilevante il richiamo al precedente di legittimità n. 5398 del 2016, relativo ad una ipotesi di contemporanea pendenza e di riunione dinanzi alla Corte di Cassazione di due procedimenti, rispettivamente di ricorso avverso la sentenza d’appello emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio e di ricorso avverso la sentenza della medesima CTR del Lazio dichiarativa di inammissibilità del giudizio di revocazione. In tale pronuncia, a fronte della cassazione con rinvio della sentenza che aveva dichiarato inammissibile il giudizio di revocazione, è stata disposta la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c. del procedimento relativo al ricorso avverso la sentenza d’appello, non essendo utilizzabile lo strumento di cui all’art. 398, comma 4, c.p.c., attribuito al solo giudice di merito.
13. Alla luce dell’univoco indirizzo di questa Corte, non si ritiene sussistano i presupposti per la rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa alla sospensione necessaria del giudizio di legittimità, in pendenza di giudizio di revocazione della medesima sentenza, ove quest’ultimo sia proposto per errori, ai sensi dell’art. 395, n. 4 c.p.c., ed il primo per omesso esame ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. o travisamento dei fatti storici. Né il sistema delineato dal codice di procedura civile appare non rispettoso delle esigenze di tutela dei diritti di cui agli artt. 24 Cost. e 6 Cedu, posto che l’art. 398, comma 4, c.p.c. collega la facoltà di sospensione del giudizio di cassazione e del relativo termine per impugnare al mero requisito della “non manifesta infondatezza” della revocazione proposta.
14. Infine, non ha fondamento normativo l’ulteriore richiesta di parte ricorrente di rinvio in attesa della pronuncia della Corte d’appello sulla seconda istanza di sospensione ai sensi dell’art. 398, comma 4, c.p.c.
15. Prima di esaminare i motivi di ricorso, occorre considerare che al procedimento in oggetto si applica l’art. 348-ter, comma quinto, c.p.c., introdotto dall’art. 54, comma 1, lett. a) del D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni nella L. n. 134 del 2012, poiché il reclamo è stato depositato in epoca successiva all’11.9.2012. E’ pacifico che le disposizioni sull’appello nel rito del lavoro, quindi anche gli artt. 348-bis e ter c.p.c., siano chiamate ad integrare la disciplina speciale prevista dall’art. 1, comma 58, della legge 28 giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, (cfr. Cass. n. 14416 del 2015; Cass., n. 23021 del 2014).
16. Il comma quinto dell’art. 348-ter c.p.c. prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto – ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348-bis, secondo comma, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta “doppia conforme”). In altri termini, il vizio di motivazione non è deducibile in cassazione in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme.
17. Si è ulteriormente precisato come nell’ipotesi di “doppia conforme” il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014). Per dichiarare inammissibile il motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. occorre che l’adesione del giudice di appello al giudizio di fatto del giudice di primo grado costituisca il fondamento della decisione di rigetto dell’appello; se invece il giudice di secondo grado ricostruisce il fatto in modo differente rispetto al Tribunale, pur non mutando il dispositivo, la limitazione non può operare (Cass., 29 ottobre 2014, n. 23021). Ciò non significa che le due motivazioni debbano essere totalmente sovrapponibili, né che vi debba essere identica valutazione delle risultanze probatorie, rimanendo libero il giudice del reclamo, come quello dell’appello, di scegliere tra le varie prove quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione (Cass. n. 23073 del 2015).
18. La parte ricorrente ha sostenuto l’ammissibilità dei motivi di ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. sul rilievo della differente valutazione dei fatti posti a base della sentenza d’appello rispetto a quella di primo grado ed ha individuato la non sovrapponibilità delle due valutazioni in un unico dato, cioè la redistribuzione delle mansioni superiori svolte dalla sig.ra M. tra i colleghi I. e P., affermata dal giudice di secondo grado ed esclusa dal Tribunale.
19. Ora, tale divergenza ha un rilievo assolutamente trascurabile nell’economia complessiva della ricostruzione operata dai giudici di merito posto che il riferimento è fatto a compiti meramente saltuari svolti dalla dipendente e che, dopo il licenziamento, il Tribunale (in base a quanto riportato nella sentenza d’appello) ha ritenuto “attribuiti solo al consulente esterno T.”, laddove la Corte territoriale li ha considerati affidati ad altri dipendenti, I. e P.
20. Quest’unica e modesta difformità nel percorso argomentativo seguito dalle due sentenze, su una circostanza di fatto del tutto secondaria, non scalfisce in alcun modo la univoca ricostruzione della vicenda storica e la analoga valutazione degli elementi probatori, ad opera dei diversi giudici di merito, in relazione alla procedura di licenziamento collettivo.
21. Tale rilievo porta a ritenere inammissibili i motivi di ricorso formulati ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., tutti peraltro incentrati più che sull’omesso esame di fatti storici intesi in senso fenomenico, sulla valutazione, dedotta come erronea, dei fatti medesimi e degli elementi probatori raccolti, in netta dissonanza rispetto allo schema legale della disposizione citata, come delineato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053 del 2014.
22. Le censure mosse col primo e secondo motivo di ricorso e formulate come violazione e falsa applicazione di norme di diritto, scontano anzitutto un difetto di autosufficienza, ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6 e 369, comma 2, n. 4 c.p.c.. Esse fanno leva sulla lettera di avvio della procedura e sul verbale di accordo sindacale, che si assumono illegittimamente privi di un progetto aziendale e della comparazione della M. con la intera platea dei dipendenti aziendali nonché corredati di errori, quale l’attribuzione alla predetta di una qualifica contrattuale inesistente, volti ad eludere il controllo sindacale. Tuttavia, la lettera di avvio della procedura e l’accordo sindacale non sono stati trascritti, neanche per stralci e nelle parti significative, all’interno del ricorso in esame. Come ripetutamente precisato da questa Corte, il ricorso per cassazione, in ragione del principio di autosufficienza, deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito, (cfr. Cass. n. 12362 del 2006; Cass. n. 27209 del 2017). Difatti, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci l’omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, anche ove intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, è onerato, a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte, (Cass. n. 14107 del 2017; Cass. n. 26174 del 2014).
23. Le censure di cui al primo e secondo motivo di ricorso sono comunque non accoglibili perché prive di adeguata specificità, considerato che, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
24. Inoltre il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione, per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non doveva trovare applicazione, ovvero sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (cfr. Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007). Sicché, il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5 c.p.c., che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti, (Cass. n. 23847 del 2017).
25. Nel caso di specie, le censure di violazione degli artt. 4 e 5 della L. n. 223 del 1991 sono formulate, anzitutto, attraverso il riferimento a dati di fatto accertati dalla Corte di merito e la cui valutazione è inammissibilmente contestata dalla ricorrente, come a proposito della mancata cessazione di tutte le mansioni assegnate alla predetta e distribuzione delle stesse tra i colleghi.
26. Inoltre, le censure di violazione degli artt. 4 e 5, L. n. 223 del 1991 non sono sorrette dall’indicazione di specifiche irregolarità della procedura ivi disciplinata; è dedotta genericamente la mancanza di un progetto aziendale esplicitato nonché il confronto della M. solo con se stessa e non con gli altri lavoratori, senza alcuna indicazione sull’effettivo contenuto della comunicazione di apertura della procedura, di cui non viene dato alcun conto, sicché anche il rilievo di elusione dei poteri di controllo sindacale risulta sganciato da specifiche deduzioni di incompletezza o insufficienza delle informazioni necessarie in base alle disposizioni suddette.
27. Analoghe considerazioni possono ripetersi quanto al momento finale della procedura posto che dalle generiche deduzioni della ricorrente non è dato neanche desumere quali fossero i criteri di scelta enunciati dalla società e le concrete modalità di applicazione degli stessi, oggetto di necessaria comunicazione, risultando anche per tali aspetti preclusa ogni verifica sulla dedotta violazione degli artt. 4 e 5, L. n. 223 del 1991.
28. Quanto al secondo motivo di ricorso, la censura sulla attribuzione alla M. di una qualifica inesistente appare priva di rilievo, rispetto alla violazione di legge dedotta, mancando qualsiasi esplicitazione delle conseguenze di tale errore rispetto alla legittimità della procedura, avendo la Corte di merito non solo ritenuto irrilevante tale errore in quanto meramente formale ma anche escluso, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede di legittimità, qualsiasi elusione del potere di controllo sindacale da parte dell’azienda.
29. Infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso.
30. La sentenza impugnata non ha statuito su una autonoma domanda di accertamento del diritto al superiore inquadramento ma ha esaminato la questione al fine di ricostruire le mansioni svolte dalla M. ed accertare l’effettiva o meno soppressione delle stesse. Difatti, col primo motivo di reclamo, la lavoratrice aveva dedotto la mancata soppressione di tutte le mansioni svolte sul presupposto dell’inclusione tra le stesse anche dei compiti di Responsabile sistemi di gestione (ovvero rappresentante della direzione) per la qualità e la sicurezza e Internal Auditing.
31. Non si ravvisano nella fattispecie in esame i presupposti di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. (cfr. Cass., S.U., n. 9912 del 2018), invocato dalla società controricorrente, tenuto conto della complessità delle questioni giuridiche trattate.
32. Le considerazioni svolte portano al rigetto del ricorso, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate come in dispositivo.
33. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13.
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