CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 giugno 2018, n. 15523
Licenziamento – Per giustificato motivo oggettivo – Reiterazione delle assenze per malattia – Scarso rendimento
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 18.2.2016, respingeva il reclamo avverso la sentenza del locale Tribunale che, in riforma dell’ordinanza opposta, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a S. V. il 28.10.2014, condannando la società A. s.p.a. alla reintegra del predetto ed a corrispondergli, ex art. 18, 7° e 4° comma dello Statuto dei Lavoratori, un’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto di euro 1543,96 lordi dalla data del licenziamento all’effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge e relativa contribuzione.
2. Rilevava la Corte che il contratto collettivo applicabile prevedeva espressamente l’ipotesi del comporto per sommatoria anche in ipotesi di frazionamento delle assenze ove contenute entro il limite temporale previsto e che, collegando la regola contrattuale a quella legale dell’art. 2110 c.c., norma speciale, anche alla luce del disposto della I. 92/2012, il cui articolo 1, comma 42, teneva distinta la fattispecie del giustificato motivo oggettivo da quella del comporto (riveniente la sua ratio nella tutela della salute di rango costituzionale ex art. 32 Cost.), era pacifico il diritto alla permanenza nel posto di lavoro che escludeva la legittimità del recesso ove intimato, come nella specie, nell’ambito del comporto (richiamate Cass. 14310/2015 e 16582/2015).
3. Sotto altro profilo, il giudice del gravame osservava come non era stata provata la disorganizzazione che sarebbe derivata dalle assenze dello S., alla luce della consolidata interpretazione e qualificazione giurisprudenziale del giustificato motivo oggettivo come extrema ratio quale conseguenza dello scarso rendimento, nell’ottica seguita dal reclamante. Al riguardo veniva evidenziato come la società avesse più di 1900 dipendenti addetti alla vigilanza e che nulla era stato allegato sull’impostazione della sua organizzazione per far fronte alle assenze del personale e come avesse inciso in concreto su di essa la reiterazione delle assenze per malattia del lavoratore, le quali, per definizione, non potevano che essere comunicate al datore di lavoro quando la malattia si fosse verificata.
4. Si precisava, poi, che al licenziamento intimato in violazione del comporto per malattia doveva conseguire la tutela reale, nei termini in cui era stata riconosciuta dal Tribunale.
5. Di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, lo S..
6. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, è denunziata dalla società violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 l. 604/1966, sul rilievo che il motivo essenziale e determinante per cui la Corte di Milano ha ritenuto illegittimo il licenziamento risiede nell’indebita interferenza tra la fattispecie del giustificato motivo oggettivo per eccessiva morbilità e l’art. 2110 c.c., obliterandosi la reale motivazione del licenziamento comunicato, ossia lo scarso rendimento dovuto ad eccessiva morbilità intesa come fattore di disfunzione organizzativa e che diverso è lo stillicidio di assenze che consente di prevedere una riduzione di utilità della prestazione lavorativa, grave e destinata a riprodursi nel tempo futuro, rispetto al rischio accollato al datore di lavoro inerente alla malattia caratterizzata da normale frequenza e durata, secondo un calcolo di probabilità medie. Si sostiene che sarebbe contraria ai principi dell’ordinamento l’imposizione all’imprenditore del mantenimento di un rapporto di lavoro destinato a svolgersi complessivamente in perdita (cd. perdita attesa) superando l’incolpevole difetto di rendimento la soglia di tollerabilità, come verificatosi nella specie, in cui, nell’arco di sei anni, tale soglia era stata abbondantemente superata, nell’ottica della non utilità della prestazione rispetto alle esigenze dell’organizzazione. Si richiamano, in particolare, i principi espressi da Cass. 18678/2014 sulle assenze “a macchia di leopardo”, che non consentono il reperimento di sostituti anche per le modalità di comunicazione delle stesse e si sostiene che lo scarso rendimento può essere determinato da un inadempimento imputabile al lavoratore, ancorché incolpevole, che determina grave disfunzione organizzativa integrante un’ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento nell’accezione di cui all’art. 3 l. 604/66, con perdita d’interesse totale del datore alla prosecuzione del rapporto.
2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., dell’art. 115 c,p.c. , dell’art. 5 l. 604/66, nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento al profilo della prova della disorganizzazione che sarebbe derivata dalle ripetute assenze, in base a dedotte circostanze fattuali (ripetute e frammentate assenze a macchia di leopardo, collocazione temporale delle assenze stesse, intempestività nell’informare la società della assenze per malattia, inidoneità alla mansione specifica, aggravio di costi per la società, costretta in tempi assai ristretti a reperire sostituti in permesso, in ferie, in riposo, allegazioni supportate da istanza di ammissione di prova per testi) non fatte oggetto di contestazione. Si contesta, altresì, la violazione del regime delle presunzioni semplici stabilito dal codice civile con riguardo all’omessa valutazione della valenza (presuntiva) dei fatti noti non contestati ai fini dell’apprezzamento della loro idoneità probatoria in merito alla funzionalità dell’organizzazione aziendale.
3. Con il terzo motivo, si ascrive all’impugnata decisione violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1366, 1375 c. c., dell’art. 115 c.p.c., dell’art. 122 c.c.n.l. per Dipendenti da Istituti e Imprese di Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, sul rilievo che con superficialità era stato ritenuto che le assenze per malattia del lavoratore, per definizione, non potessero che essere comunicate all’azienda quando la stessa si verificava, laddove dalla documentazione prodotta doveva inquivocabilmente evincersi lo scarso o nullo preavviso delle comunicazioni, in contrasto con l’art. 122 c.c.n.I. sull’obbligo di immediata notizia della malattia da parte del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c..
4. Con il quarto motivo, la società si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18 commi 4,5, e 7 l. 300 /1970, assumendo che, a valle dell’errata prospettazione del thema decidendum operata dal Collegio del reclamo, l’apparato sanzionatone adottato è stato ricondotto all’art. 1, comma 42, della I. 92/2012, che prevede la tutela reale nel caso di licenziamento violativo del comporto per malattia, laddove il licenziamento è stato comunicato per scarso rendimento dovuto ad eccessiva morbilità, fattispecie diversa e riconducibile all’art. 3 l. 604/66, per la quale è prevista la reintegra nella sola ipotesi in cui venga accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento.
5. Il ricorso è infondato.
6. Quanto alle censure prospettate nel primo motivo, deve osservarsi che la non utilità della prestazione per il tempo della malattia è evento previsto e disciplinato dal legislatore con conseguenze che possono portare alla risoluzione del rapporto di lavoro solo dopo il superamento del periodo di comporto disciplinato dall’art. 2110 c. c. e dalla contrattazione collettiva. In tal senso, mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da inadempimento, pur se incolpevole, del lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute a malattia e la tutela della salute è valore preminente che ne giustifica la specialità.
7. In tal senso le regole dettate dall’art. 2110 cod. civ. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella degli articoli 1256 e 1463 e 1464 cod. civ., e si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso; le stesse regole hanno, quindi, la funzione di contemperare gli interessi configgenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente. Ne deriva, quale corollario, che il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente a legittimare il recesso, e pertanto non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo, né dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (cfr. Cass. 31.1.2012 n. 1404; Cass. 28.1.2010 n. 1861).
8. In coerenza con tali premesse, essendo stato nella specie il licenziamento intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all’elevato numero di assenze, ma non tali da esaurire il periodo di comporto, il recesso in oggetto è stato correttamente dichiarato illegittimo. La contraria opinione (che sembra condivisa in un passaggio della motivazione di Cass. n. 18678/14, che però riguarda una fattispecie non coincidente con quella per cui oggi è processo) si pone, invero, in contrasto con la consolidata e costante giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – che, a partire da Cass. S.U. n. 2072/80, ha sempre statuito che, anche in ipotesi di reiterate assenze del dipendente per malattia, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, ma può esercitare il recesso solo dopo che si sia esaurito il periodo all’uopo fissato dalla contrattazione collettiva, ovvero, in difetto, determinato secondo equità (cfr., tra le altre, Cass. 7.8.2015 n. 16582, Cass. 31.1.2012 n. 1404, Cass. 28.12010 n. 1861, Cass. 24.6.2005 n. 13624).
9. Nella specie il limite di tollerabilità delle assenze per malattia è stato già determinato a livello collettivo dalle parti sociali – che ne hanno addirittura ampliato l’estensione, prevedendo per l’ipotesi di comporto per sommatoria termini maggiori – avuto riguardo pur sempre e sicuramente all’esigenza contrapposta di garanzia economica dell’imprenditore, per i profili della misura dei limiti economici e temporali entro cui possa su di lui riversarsi il rischio di una malattia cronica o recidivante del dipendente (cfr. C. Cost. 87/2013).
10. Il dedotto mancato ricorso a presunzioni per inferirne la esistenza di disfunzioni organizzative connesse alla reiterazione delle assenza “a macchia di leopardo” ed alle modalità di comunicazione delle stesse non incide sull’impianto argomentativo, che conferisce rilevanza esclusiva alla ricorrenza nel caso esaminato dei presupposti di operatività dell’art. 2110 c.c., rispetto al quale non assumono rilievo le contestazioni fondate su una presunta eccessiva onerosità delle condizioni del rapporto contrattuale in relazione all’esistenza di un numero elevato di assenze discontinue per malattia.
11. Circa le invocate disfunzioni organizzative dedotte bene la Corte ha evidenziato come l’assunto delle conseguenze prodottesi a livello di funzionamento dell’azienda avrebbe presupposto l’indicazione degli elementi idonei a rappresentare la realtà organizzativa dell’azienda per valutare l’incidenza in termini negativi per la stessa delle assenze per malattia dello S.. Anche i capi di prova asseritamente articolati sono stati richiamati in maniera affatto generica.
12. Si è ritenuto, poi, con valutazione di merito in questa sede insindacabile, come non provata, in ogni caso, la sussistenza del fatto, (disorganizzazione causata delle assenze e delle modalità della comunicazione delle stesse) la cui inesistenza è stata posta a fondamento della seconda ratio decidendi ed è stato rilevato che non è specificato in modo plausibile in qual modo lo S. abbia disatteso i propri doveri di correttezza nella comunicazione, circostanza che, peraltro, quand’anche provata, non potrebbe che assumere rilevanza su un piano diverso da quello qui esaminato e costituente il fondamento argomentativo del decisum.
13. Il condivisibile inquadramento della fattispecie nella previsione normativa di cui all’art. 2110 c. c., in base ad una qualificazione giuridica che spetta al giudice individuare, rende ragione della tutela applicata, onde i rilievi esposti nel quarto motivo sono anch’essi motivatamente da disattendere;
14. Le esposte considerazioni conducono al rigetto del ricorso della società.
15. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente società e sono liquidate in dispositivo in favore dello S..
16. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma Ibis, del citato D.P.R.
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