CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 novembre 2018, n. 29186
Contratti a termine – Illegittimità – Accertamento – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
Fatti di causa
Con sentenza n. 904 del 2013 la Corte d’appello di Catanzaro ha accolto parzialmente l’appello della società S.C. S.p.A. in liquidazione avverso la sentenza del tribunale di Catanzaro del 13.4.2010, che aveva accertato l’illegittimità del termine di due contratti stipulati dalla società con G.C. e l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far tempo dal 1.10.2002 condannando la società al ripristino del rapporto a far data dal 2.3 .2007 e con condanna altresì al pagamento delle retribuzioni maturate dal 3.5.2005 oltre interessi e rivalutazione.
La corte territoriale, ritenuti infondati i motivi di appello relativi alla risoluzione del primo contratto per mutuo consenso e alla non previsione da parte del DLGS n. 368/2001 della conversione in rapporto a tempo indeterminato in caso di termine invalido apposto al contratto, ha riformato la sentenza di primo grado con riferimento alle conseguenze risarcitone dell’accertata nullità dei termini apposti ai contratti, applicando lo ius superveniens di cui all’art. 32 della legge n. 183/2010 e respinte le tesi difensive dell’appellato C. con riferimento all’inapplicabilità della nuova normativa, ha determinando l’indennità risarcitoria in misura di cinque mensilità globali di fatto, con riconoscimento degli accessori di cui all’art. 429 3° comma c.p.c. a far tempo dalla 13.4.2010, data della sentenza di primo grado di conversione del contratto a tempo indeterminato.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il C. affidato a quattro motivi, a cui ha resistito con controricorso la società, atti poi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c. 2° e dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c.; per il ricorrente non essendovi stata alcuna censura da parte della società alla sentenza di primo grado in ordine alla condanna al risarcimento del danno come determinato dal giudice di prime cure, si sarebbe formato un giudicato interno su tale capo di sentenza e pertanto la corte avrebbe violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c., nel senso che la mancata impugnazione con riferimento all’an debeatur ne avrebbe precluso l’esame da parte del giudice di appello , con conseguente inapplicabilità dell’art. 32 legge n. 183/2010.
Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 legge n. 183/2010 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. per avere la corte applicato l’art. 32 citato nonostante dopo la sentenza di primo grado si fosse formato un giudicato interno. Con il terzo motivo di gravame si lamenta un omesso esame circa un punto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. per omessa e comunque insufficiente motivazione in ordine al punto relativo alla mancanza di specifiche doglianze della società in punto di condanna al risarcimento del danno. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 329 c.p.c. con riferimento all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. per non aver considerato la corte di merito che la società aveva omesso di formulare specifiche doglianze in relazione al capo di sentenza relativo al risarcimento del n danno e dunque dimostrando il mancato interesse ad una specifica I impugnazione.
I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente perché connessi , se non in qualche passaggio anche ripetitivi, non meritano accoglimento perché infondati.
La questione relativa all’applicabilità della nuova disciplina introdotta dall’art. 32 commi 5 e 7 della legge n. 183/2010 ai giudizi pendenti ed in particolare a quelli un cui non vi era stata da parte dell’appellante datore di lavoro una specifica censura riguardante la quantificazione del risarcimento del danno derivante dalla nullità del termine, è stata affrontata dalla sentenza di queste sezioni unite n. 21691del 5.7.2016, al cui oramai consolidato orientamento si ritiene di dare continuità.
La corte, premesso che la violazione di norme di diritto di cui all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata , qualora siano norme applicabili perché dotate di efficacia retroattiva come nel caso di specie, ha precisato che la proposizione dell’impugnazione nei confronti della parte principale della sentenza impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente pur in assenza di impugnazione specifica di quest’ultima perché, quando due o più parti della sentenza sono collegate da un nesso di dipendenza, l’accoglimento dell’appello della parte principale comporta la caducazione anche della parte dipendente. Le SU hanno quindi ritenuto che nel caso specifico “l’appello contro la parte della sentenza sull’illegittimità del termine esprime la volontà di chiedere al giudice anche la caducazione della parte dipendente della sentenza , cioè una chiara manifestazione di volontà contraria ad ogni acquiescenza alla parte principale della sentenza ed alle parti da essa dipendenti”.
Come ancora precisato nella citata sentenza “la modifica in appello della parte principale della decisione, può comportare conseguenze sulla parte relativa i connesso risarcimento dei danni , il che accentua la condizione di dipendenza quindi di inidoneità di questa parte di decisione passare in giudicato”.
Il ricorso deve quindi essere respinto, con condanna del soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater DPR n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
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