CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 giugno 2018, n. 14200
Licenziamento disciplinare – Contestazione di fatto oggetto anche di procedimento penale – Applicazione all’indagato della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio – Audizione difensiva delegata dall’ufficio competente – Inammissibilità del controricorso, in quanto privo dei necessari requisiti di forma – Norme processuali vanno interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito – Giudizio di appello mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Napoli ha accolto il reclamo, ex art. 1, comma 58, I. n. 92/2012, proposto dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata che, in sede di opposizione, aveva confermato l’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, con la quale era stata dichiarata l’inefficacia del licenziamento intimato l’11 ottobre 2014 a L. A. ed il Ministero era stato condannato al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dal comma 6 del riformato art. 18 I. n. 300/1970, quantificata in misura pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione.
2. La Corte territoriale ha disatteso l’eccezione di inammissibilità del reclamo, rilevando che erano state individuate con sufficiente puntualità le parti della sentenza delle quali si chiedeva la riforma ed erano stati illustrati con chiarezza i motivi che avrebbero dovuto indurre a ritenere la legittimità del licenziamento impugnato.
3. Quanto al merito il giudice dell’impugnazione ha premesso che con nota dell’8 luglio 2014 il Direttore Generale del Personale e della Formazione, avente competenza specifica in materia di procedimenti disciplinari, aveva contestato all’A. i fatti (oggetto anche di procedimento penale nell’ambito del quale era stata applicata all’indagato la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio) ed aveva contestualmente delegato al dirigente amministrativo della Procura della Repubblica di Torre Annunziata il compito di procedere alla notifica dell’atto e di convocare il dipendente per l’audizione difensiva. A ciò il delegato aveva provveduto ed infatti il 4 agosto 2014 si era svolta l’audizione, nel corso della quale l’incolpato, assistito dai suoi difensori, aveva esposto verbalmente le proprie ragioni ed aveva depositato memoria difensiva.
4. In diritto la Corte territoriale ha osservato che l’audizione è un atto istruttorio endoprocedimentale finalizzato a garantire il diritto di difesa, nella specie correttamente esercitato perché il verbale e la memoria allo stesso allegata erano stati trasmessi all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, che aveva esaminato le argomentazioni difensive e le aveva disattese per le ragioni indicate nella motivazione della sanzione espulsiva. Ha, quindi, escluso l’inefficacia del licenziamento, affermata invece dal giudice di prime cure, sia perché la disciplina dettata dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 non esclude che l’attività istruttoria possa essere delegata, sia in considerazione dell’avvenuto esercizio del diritto di difesa mediante il deposito della memoria scritta.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso L. A. sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ., ai quali il Ministero della Giustizia ha resistito con tempestivo controricorso.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., denuncia «violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 434 cod. proc. civ. come novellato dall’art. 54 d.l. n. 83/2012 convertito con modificazioni nella legge n. 134/2012» perché la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità del reclamo, in quanto privo dei necessari requisiti di forma richiesti dalla norma richiamata in rubrica, applicabile anche al reclamo disciplinato dalla legge n. 92/2012. Il ricorrente sostiene, in sintesi, che il Ministero oltre a non individuare con chiarezza le statuizioni impugnate, si era limitato a richiamare i motivi di opposizione formulati avverso l’ordinanza, senza confutare in modo specifico la motivazione della decisione reclamata e senza indicare le modifiche richieste.
2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la «violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 55 bis, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 69 del d.lgs. n. 150/2009 nonché in relazione agli artt. 24, comma 4, 4 bis e 11 del C.C.N.L. Comparto ministeri 1994-1997 come modificato dall’art. 12 delle C.C.N.L. 2002-2005». Premesso che ai sensi del richiamato art. 55 tutte le fasi del procedimento disciplinare devono essere svolte dall’ufficio competente, l’A. evidenzia che nella specie l’istruttoria era stata svolta unicamente dal Dirigente Amministrativo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata, al quale era stata delegata l’intera attività e non la sola audizione. Aggiunge che i precedenti di questa Corte richiamati nella sentenza impugnata non si attagliano alla fattispecie, perché nei casi esaminati veniva in rilievo la delegabilità degli atti nell’ambito del medesimo ufficio o tra uffici aventi uguali attribuzioni per materia.
3. Con la terza critica il ricorrente sostiene che la violazione delle norme di legge e di contratto richiamate nel secondo motivo integra anche il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod.proc.civ., perché la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare un fatto decisivo per il giudizio, ossia la circostanza della delega ad un soggetto privo di legittimazione e competenza per l’intera attività istruttoria. Aggiunge che, tra l’altro, la delega non era stata conferita in modo specifico e mirato perché la nota del 10 luglio 2014 era stata indirizzata, oltre che al Dirigente della Procura della Repubblica anche al Coordinatore dell’Ufficio del Giudice di Pace di Pompei ed al Presidente del Tribunale di Torre Annunziata.
4. Il quarto motivo denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. perché nei precedenti gradi di giudizio era stato eccepito che la delega, ove mai ritenuta ammissibile, doveva essere conferita in modo specifico e mirato al singolo ufficio e per singoli atti. Su detta eccezione non ha statuito la Corte territoriale che è quindi incorsa nel vizio di omessa pronuncia.
5. Il primo motivo è infondato.
Le Sezioni Unite di questa Corte, pronunciando sull’interpretazione dell’art. 434 cod. proc. civ., nel testo introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, hanno recentemente ribadito l’orientamento già espresso da Cass. 5 febbraio 2015 n. 2143 e da Cass. 16 luglio 2015 n. 14903, evidenziando che “la norma, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell ‘art. 342 cod. proc. civ., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma, in ossequio ad una logica di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione, impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono”. Ha aggiunto la Corte che “sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo Giudice ed esplicitare in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte” (Cass. S.U. 23.10.2017 n. 24963).
Il principio è stato riaffermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27199 del 16 novembre 2017, con la quale si è premesso che è «regola generale quella per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale» e si è conseguentemente escluso, « in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado».
Alla luce del richiamato orientamento, al quale va data continuità, va esclusa l’eccepita inammissibilità del reclamo perché già le sole argomentazioni del Ministero appellante trascritte alle pagine 11 e 12 del ricorso, valutate in relazione alla motivazione della sentenza impugnata ( riportata da pag. 7 a pag. 9), risultano idonee a delimitare in modo non equivoco l’ambito del giudizio di gravame, con riguardo sia al capo della sentenza di primo grado contestato sia ai relativi passaggi argomentativi, adeguatamente confutati dal reclamante.
6. Il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente per la loro stretta connessione logico-giuridica, sono infondati nella parte in cui affermano che nessuna attività istruttoria poteva essere delegata dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari.
Questa Corte ha già affermato che l’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dal d.lgs. n. 150/2009, nel disporre che l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari «contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento», non obbliga il soggetto titolare del potere a procedere direttamente a tutti gli atti istruttori necessari, perché ciò che rileva, ai fini della validità della sanzione inflitta, è che i risultati dell’attività svolta dagli ausiliari vengano fatti propri dal dirigente che ricopre l’ufficio, il quale deve provvedere alla contestazione dell’addebito, all’esame dell’istruttoria compiuta, all’irrogazione della sanzione ( Cass. 2.3.2017 n. 5317).
La delega degli atti istruttori è stata, quindi, ritenuta ammissibile in fattispecie nelle quali l’atto era stato delegato a dipendenti assegnati alla struttura amministrativa dell’ufficio per i procedimenti ( Cass. n. 5317/2017 cit.), ad altri dirigenti ( Cass. 9.12.2015 n. 24828) nonché ai singoli componenti dell’ufficio a composizione collegiale, giacché in tal caso la necessaria collegialità resta circoscritta alle attività valutative e deliberative vere e proprie e non si estende «a quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall’intero consesso» ( Cass. 26.4.2016 n. 8245).
Più in generale questa Corte ha affermato che le norme sulla competenza non vanno confuse con le regole del procedimento per cui, ove risulti che quest’ultimo sia stato comunque gestito dal soggetto titolare del potere, non ogni difformità rispetto alla previsione normativa produce la nullità della sanzione, configurabile solo qualora l’interferenza di organi esterni all’U.P.D. « abbia determinato decisiva – nel senso di sostitutiva e non meramente additiva – compartecipazione del soggetto estraneo all’adozione del provvedimento, con conseguente inammissibile sostanziale trasferimento della competenza dall’organo competente ad un diverso organo, sicuramente non competente.» ( Cass. 7.6.2016 n. 11632).
6.1. I richiamati principi, condivisi dal Collegio che agli stessi intende dare continuità, orientano anche nella soluzione della questione che qui viene in rilievo, posto che non appare decisiva per escludere la legittimità della delega la circostanza che la stessa sia stata conferita ad un dirigente periferico del Ministero, estraneo alla struttura amministrativa dell’UPD.
Va premesso che gli atti del procedimento disciplinare, in quanto espressione di un potere privatistico del datore di lavoro, non hanno natura amministrativa, sicché rispetto agli stessi non operano i principi che, in relazione agli atti autoritativi, limitano la delega di funzioni.
Ne discende che quest’ultima, in assenza di una specifica previsione normativa, deve essere esclusa solo nelle ipotesi in cui l’attribuzione del potere ad altro soggetto, anche se momentanea e circoscritta al compimento del singolo atto, si risolverebbe nella mortificazione delle finalità che il legislatore ha inteso perseguire attraverso la previsione di un apposito ufficio per i procedimenti, competente ad irrogare le sanzioni più gravi, finalità già individuate da questa Corte nell’esigenza di offrire al lavoratore pubblico sufficienti garanzie di imparzialità, in ragione della “specializzazione” di tale organo e della sua indifferenza rispetto al capo della struttura del dipendente incolpato, coinvolto direttamente nella vicenda disciplinare ( Cass. n. 11632/2016 e Cass. n. 5317/2017 cit.).
In quest’ottica si deve ritenere che, mentre non è ammissibile la delega rispetto ad atti che implicano un’attività valutativa e decisoria, non altrettanto può dirsi per quelli meramente istruttori, che vengano compiuti su indicazione dell’ufficio delegante ed i cui esiti siano sottoposti a verifica da parte di quest’ultimo.
In tal caso, infatti, non subisce alcuna lesione il diritto di difesa del dipendente incolpato né viene meno la garanzia di terzietà, da intendersi nei termini indicati da Cass. n. 5317/2017, perché l’atto è comunque riferibile al soggetto delegante, il quale resta dominus dell’istruttoria ed è chiamato a valutarne all’esito i risultati, quanto alla completezza degli atti assunti ed all’idoneità degli stessi a sorreggere l’accusa disciplinare.
6.2. Non si ravvisa, pertanto, la denunciata violazione dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 perché la Corte territoriale, nell’escludere che la delega dell’audizione avesse compromesso il diritto di difesa dell’A., esercitato anche mediante deposito di memoria difensiva, inoltrata all’UPD e da questo esaminata, si è attenuta ai principi di diritto richiamati nei punti che precedono.
6.3. Le ulteriori doglianze sviluppate nei motivi sono inammissibili.
Il ricorrente sostiene, in sintesi, di avere eccepito l’illegittimità del provvedimento disciplinare anche sotto altri aspetti, rilevando, in particolare, che la delega doveva essere circoscritta ad un singolo atto, mentre sarebbe stata estesa all’intera attività istruttoria, e che doveva riguardare un unico soggetto, non potendo l’UPD delegare contemporaneamente il Presidente del Tribunale di Torre Annunziata, il Coordinatore dell’Ufficio del Giudice di Pace di Pompei ed il Dirigente Amministrativo della Procura della Repubblica.
Il quarto motivo, con il quale si lamenta l’omessa pronuncia su detta distinta eccezione, non è formulato nel rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ., perché il ricorrente non trascrive, quantomeno nella parte rilevante, il contenuto dell’atto introduttivo della fase sommaria e delle memorie difensive, in sede di opposizione e di reclamo, con le quali l’eccezione sarebbe stata coltivata. Non fornisce, poi, indicazione per il pronto reperimento di detti atti, che non risultano depositati unitamente al ricorso per cassazione.
Inoltre le doglianze relative alla necessaria specificità della delega, quanto all’oggetto ed al destinatario, si fondano su un documento (nota fax del 10 luglio 2014) il cui contenuto non è riportato nel ricorso ed in relazione al quale non si indicano le modalità di produzione nel giudizio di merito.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che la denuncia di un error in procedendo, che attribuisce alla Cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali, non dispensa la parte dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, provvedendo, inoltre, alla allegazione degli stessi o quantomeno a indicare, ai fini di un controllo mirato, i luoghi del processo ove è possibile rinvenirli (fra le più recenti Cass. 4.7.2014 n. 15367, Cass. S.U. 22.5.2012 n. 8077; Cass. 10.11.2011 n.23420).
Analogamente si è affermato che, ove la censura si fondi su documenti non valutati dal giudice del merito, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività degli atti, che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione del contenuto del documento nel ricorso, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass. 4.3.2014 n. 4980).
In difetto di dette specificazioni, che mancano nella fattispecie, le censure non possono essere scrutinate.
7. Il ricorso va, pertanto, rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, nel testo modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
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