CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 giugno 2019, n. 16004
Accertamento – Crediti d’imposta – Istanza di rimborso – Convenzione Italia – Francia sulla doppia imposizione
Fatti di causa
1. S.G. S.A. insorgeva dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Pescara avverso sei diversi provvedimenti di rifiuto taciti formatisi su altrettante istanze di rimborso presentate dalla società ai sensi dell’art. 10 Convenzione Italia – Francia sulla doppia imposizione ratificata con legge 7 gennaio 1992 n. 20, per crediti d’imposta relativi a dividendi percepiti quale soggetto non residente in Italia, nonché avverso successivo provvedimento di diniego espresso, riferito alle medesime istanze. L’amministrazione finanziaria difendeva il proprio operato e su tutti i ricorsi riuniti, la CTP pronunciava sentenza di rigetto n. 90/04/11, sul presupposto che “la società francese è società madre della società italiana che distribuisce i dividendi, le norme comunitarie che regolano i rapporti Madre/Figlia, comportano già un regime obbligatorio di esenzione da imposizione dello Stato di residenza; sicché la società francese non potrà godere di alcun benefizio convenzionale derivante da una presunta (poiché non provata) doppia imposizione” e che le istanze di rimborso erano intempestive ex art. 38 d.P.R. 602/73.
2. La società interponeva appello dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale de L’Aquila-Sezione distaccata di Pescara, affermando la sussistenza del diritto al rimborso ai sensi dell’art. 10, par. 4 lett. b) della Convenzione Italia-Francia sulla doppia imposizione e la tempestività della presentazione di tutte le istanze, dovendosi nella fattispecie applicare la prescrizione decennale e non quella biennale di cui all’art. 38 d.P.R. 602/73. La CTR pronunciava la sentenza n. 277/10/13 con cui confermava la sentenza dei primi giudici e rigettava l’impugnazione.
6. Ricorre la società contribuente affidandosi a quattro motivi di censura.
7. L’Amministrazione finanziaria propone controricorso.
8. In prossimità dell’udienza la contribuente ha depositato rituale memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si lamenta l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 10, quanto comma, lett. b) della Convenzione Italia Francia, in parametro con l’art. 360, primo comma n.3 cod. proc. civ., nella parte in cui ha ritenuto precluso il diritto al rimborso del credito d’imposta che le spettava per effetto della convenzione medesima, la quale, invece, era stata ritenuta cedevole rispetto alla disciplina comunitaria contenuta nella Direttiva n. 90/435/CE recepita nell’art. 27-bis del d.P.R. n. 600/73.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l’illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 7, paragrafo 2, Direttiva n. 90/435/CE in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., nella parte in cui ha ritenuto precluso il diritto al rimborso del credito d’imposta in ragione della alternatività tra il regime convenzionale ed il regime di esenzione da imposizione dei dividendi in Francia.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta l’illegittimità delle sentenza per violazione e falsa applicazione del principio di reciprocità di cui all’art. 16 delle Preleggi in riferimento all’art. 360, primo comma n. 3, che imporrebbe una interpretazione comune da parte degli Stati contraenti dell’art. 10 par.4 lett. b) della Convezione Italia Francia.
4. Con il quarto motivo di gravame si rileva la illegittimità della sentenza per violazione del principio di buona fede nell’applicazione dei trattati contenuto nell’art. 26 delle Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969, ratificata con legge 12 febbraio 1974 n. 112, in parametro all’art. 360, comma primo n. 3 cod. proc. civ..
5. Il Collegio ritiene di procedere all’esame congiunto di tutti i motivi ricorso, collegati tra di essi e connotati da una sostanziale identità delle censure.
Il motivi sono infondati e non possono accoglimento.
Come questa Corte ha già chiarito “la direttiva 90/435 (c.d. madre-figlia) – recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 136 del 1993 e l’introduzione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis ancorché adottata successivamente alla ratifica della menzionata convenzione italo-francese, non comporta, contrariamente a quanto richiederebbe l’ordinaria regola dell’effetto abrogativo prodotto dalla legge posteriore su quella previgente (lex posterior derogat priori), il superamento della convenzione bilaterale; essa opera invece nel senso di determinare, con quest’ultima, una disciplina complessiva e complementare di contrasto della doppia imposizione secondo un regime opzionale di alternatività. Pur perseguendo lo stesso obiettivo, la convenzione e la direttiva non sono perfettamente sovrapponibili, atteso che esse muovono da presupposti soggettivi e soglie rilevanti di partecipazione diversi; e prevedono diverse modalità e strumenti di eliminazione, o quantomeno attenuazione, della doppia imposizione in senso giuridico ed economico. Nel primo caso si vuol evitare che uno stesso soggetto subisca – in più Stati più prelievi fiscali in relazione al medesimo presupposto impositivo, e con riguardo (v. art. 2 della Convenzione) sia alle imposte sul reddito sia a quelle sul patrimonio; mentre nel secondo caso (v. art. 2, lett. c) Dir., relativo alla sola imposizione del reddito delle persone giuridiche), si vuol evitare che uno stesso reddito venga assoggettato a doppia imposizione in Stati UE diversi, anche quando il trasferimento di ricchezza passi da un soggetto all’altro in maniera soltanto formale, cioè in assenza di un reale incremento imponibile (come appunto si verifica nell’imposizione dei dividendi infragruppo).
Le due fonti normative si trovano a convivere nell’ordinamento UE ed in quello nazionale, senza quello svuotamento di senso e di utilità pratica (della convenzione) che la società ricorrente vi vorrebbe intravvedere. Anche la convenzione mantiene infatti, pur dopo l’adozione della direttiva, la propria piena efficacia di consolidamento del contrasto del medesimo fenomeno (v. Cass. 19152/04); cooperando anch’essa – nell’ambito di un rapporto bilaterale improntato a reciprocità – nell’attuare il divieto di doppia imposizione sancito, nella legislazione nazionale, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e art. 163 Tuir, in forza del quale “La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi”. Il che, d’altra parte, è reso esplicito dalla stessa direttiva che, nell’art. 7, comma 2, lascia “impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti d’imposta ai beneficiari dei dividendi”. Si tratta, quest’ultima, di previsione che non intende superare la competizione di efficacia normativa tra diverse fonti dell’ordinamento secondo il criterio generale di gerarchia; e che, soprattutto, esclude – in linea di principio, e fatta ovviamente salva la valutazione, caso per caso – che la sola compresenza nell’ordinamento di direttiva e di convenzione bilaterale implichi un’automatica incompatibilità tale da determinare l’applicazione della prima ad esclusione della seconda.”(Cass. 28.12.2016 n. 27111).
La possibilità che lo stesso obiettivo venga perseguito facendo ricorso agli strumenti previsti sia dalla convenzione, sia dalla direttiva è incompatibile con l’ordinamento ed è già stato più volte escluso da questa Corte poiché, l’eliminazione della doppia imposizione non può mai determinare in concreto la distorsione rappresentata da un indebito duplice beneficio, ovvero una duplice doppia non-imposizione. (Cass. 17.7.2018 n. 188431 e 28.12.2016 n. 27111). Fine che può essere perseguito proprio attraverso il regime di alternatività, o di opzione tra le disposizioni ritenute più favorevoli per il contribuente e previste, rispettivamente, dalla convenzione bilaterale – che prevede il riconoscimento del credito d’imposta – e dalla direttiva – che riconosce l’esenzione dalla ritenuta. Per questo la direttiva madre-figlia non preclude che la società-madre, ricorrendone i presupposti, possa optare per il regime convenzionale del credito d’imposta in luogo di quello della piena detassazione, mentre, invece, è precluso che essa si avvalga sia del credito d’imposta previsto dalla convenzione, sia del rimborso della ritenuta sui dividendi o dell’esenzione diretta D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 27 bis, cit., in quanto estraneo ed eccentrico rispetto alla finalità di evitare la doppia imposizione.
La disposizione di non imponibilità degli utili di cui all’art. 5, n. 1 della Direttiva, quindi, non si applica qualora già la normativa convenzionale invocata contenga, come nella fattispecie, norme che realizzano, per altra via, la finalità di sopprimere o attenuare la doppia imposizione economica. E, dunque, all’esito del coordinamento tra disciplina convenzionale e direttiva, alla società – madre francese non potrà riconoscersi il cumulo del riconoscimento del credito d’imposta e della esenzione della ritenuta sull’utile percepito. In questo senso è orientato l’indirizzo di questa Corte, secondo cui: “in tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Francia, cui sia stato riconosciuto il credito di imposta, va applicata la ritenuta del 5%, in applicazione degli artt. 10 e 24 della Convenzione tra Italia e Francia sulle doppie imposizioni, recepita con L. 7 gennaio 1992, n. 20, in quanto il contenuto di essa non contrasta con la Direttiva del Consiglio CEE, 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, prevalendo tale disciplina, prescelta dal contribuente, sul dettato del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27-bis, che consente alla società di optare per l’esenzione della ritenuta sui dividendi, ma senza credito di imposta, con la conseguenza che l’opzione della società madre per il riconoscimento del credito di imposta esclude l’applicazione del diverso regime di cui al citato art. 27 del D.P.R. n. 600, che non \a prevede e non consente il cumulo dei due benefici” (Cass. n. 8621/11; nello stesso senso: Cass. 5943/09).
Sicché, non è configurabile neppure una violazione dell’art. 16 delle Preleggi e del principio di reciprocità e uniformità di interpretazione, poiché a parità di condizioni la Francia il credito.
La stessa Corte di Giustizia CE 4 ottobre 2001, in C-294/99, punto 32, ha chiarito che i diritti attribuiti agli operatori economici dall’art. 5, comma 1, della Direttiva 90/453/CE sono assoluti ed uno stato membro non può farne dipendere la loro osservanza da una Convenzione conclusa con un altro stato membro, sebbene l’art. 1 della medesima Direttiva ai commi 1 e 2 lasci impregiudicata la possibilità di disposizioni convenzionali o statali per evitare frodi o abusi.
Tantomeno è configurabile una violazione dell’art. 26 della Convenzione di Vienna sulla diritto dei trattati, poiché l’applicazione della convenzione di Vienna presuppone proprio che sia applicabile la Convenzione Italia-Francia che, tuttavia, è cedevole rispetto alla Direttiva madre-figlia, nel senso in precedenza spiegato, cioè di alternatività della disciplina a scelta dell’operatore economico.
Correttamente, dunque, la CTR ha ritenuto che fosse precluso accedere dapprima alla detassazione “nel Paese di destino del reddito derivante da utili distribuiti dalle controllate residenti in Italia (conformemente a quanto previsto dalla Direttiva) e poi, richiedere il credito d’imposta (nella misura della metà di quello, come detto, che sarebbe spettato in Italia) previsto dall’art. 10 comma 4 lett.b) della Convenzione”.
Il ricorso è, quindi, infondato e deve essere rigettato.
Le spese meritano di essere compensate in ragione del momento del consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale di riferimento.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 la Corte condanna il ricorrente principale al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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