CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 giugno 2022, n. 19178
Licenziamento senza preavviso – Auto-approvazione della lavoratrice – Indoneità della sanzione – Tipizzazione non vincolante della contrattazione collettiva
Rilevato che
1. con sentenza 17 luglio 2019, la Corte d’appello di Roma ha rigettato il reclamo principale di L. D.N. e, in accoglimento dell’incidentale di B. T. Italy s.p.a. unipers., tutte le domande della lavoratrice di impugnazione del licenziamento intimatole, con lettera del 28 giugno 2016, dalla società datrice per giustificato motivo soggettivo chiedendone, in gradato ordine subordinato, le pronunce di accertamento e di conseguenti tutele stabilite dal novellato testo dell’art. 18, primo, secondo, quarto, quinto e sesto comma l. 300/1970: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato le riunite opposizioni delle parti all’ordinanza dello stesso Tribunale di risoluzione del rapporto di lavoro tra le stesse e di condanna della società al pagamento della somma di € 58.297,00, in favore della lavoratrice a titolo di indennità pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, sul presupposto dell’esistenza e antigiuridicità delle condotte contestate ma di sproporzione della sanzione espulsiva, in relazione alla loro gravità;
2. in particolare, essa ha ritenuto dimostrati gli addebiti contestati alla lavoratrice con la lettera del 16 giugno 2016 (di utilizzazione della propria utenza di Amministratore di Sistema per l’inserimento in esso, in auto-approvazione ossia senza la previa autorizzazione del responsabile, delle ore di straordinario effettuate tra il 5 e il 22 aprile 2016; di timbratura in ingresso il 4 aprile 2016 alle ore 10,31 con la causale “indisposizione”, senza richiesta di autorizzazione scritta del responsabile; di inserimento nel sistema della pausa pranzo del 20 aprile 2016 dalle ore 13,06 alle ore 14,06 senza approvazione del responsabile), riconducibili al comune elemento essenziale della auto-approvazione, anche in riferimento alla peculiare mansione svolta. E ciò sulla base della normativa regolamentare (in particolare, art. 3 di un manuale operativo del 2004, prescrittivo di una procedura non osservata), non integrabile dalla prassi aziendale e con irrilevanza delle deduzioni della reclamante, siccome nuove, relative a giustificazioni offerte dalla lavoratrice medesima in riferimento alla concreta possibilità di acquisizione e inserimento nel sistema operativo delle autorizzazioni rispetto ai tempi di chiusura contabile dei rendiconti relativi alle ore lavorative effettivamente prestate dai dipendenti;
3. la Corte capitolina, ravvisata la piena consapevolezza e volontarietà dei comportamenti ascritti alla lavoratrice, ne ha escluso la coincidenza con quelli sanzionati in via conservativa dall’art. 9 del CCNL applicato e ritenuto l’idoneità, in ragione della loro pluralità, gravità e intenzionalità, in considerazione delle mansioni svolte, a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, così da integrare l’ipotesi dell’art. 10, lett. B), di licenziamento senza preavviso (lett. A);
4. con atto notificato il 16 settembre 2019, la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui la società ha resistito con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c.
Considerato che
1. la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 c.c., 7, 18 l. 300/1970, 1, comma 51 l. 92/2012, per la mancata considerazione dell’esistenza di una prassi aziendale (a seguito dell’avviso del 12 novembre 2015) giustificante la condotta della ricorrente, sull’erroneo presupposto di un suo consolidamento soltanto in assenza di una positiva regolamentazione (nel caso di specie: manuale operativo del 2004, in particolare al suo art. 3, non più aggiornato), invece integrativa dei regolamenti aziendali e tale da ricondurre i comportamenti contestati alla lavoratrice al codice disciplinare, con la conseguente insussistenza del fatto, sotto il profilo della sua non antigiuridicità per irrilevanza disciplinare. E ciò in base a fatti non accertati, nonostante la loro deduzione con il ricorso introduttivo della fase di opposizione, avente a norma dell’art. 1, comma 51 l. 92/2012 i requisiti dell’art. 414 c.p.c., sull’erroneo assunto di una preclusione a tale momento di ulteriori deduzioni in fatto, oggetto di capitolazione probatoria, indotto dall’evidente refuso (per l’indicazione del documento, di approvazione dello straordinario della ricorrente dalla sua responsabile, come allegato sub 1 al reclamo, anziché all’atto di opposizione come evidente dalla integrale trascrizione, a pgg. da 12 a 16 del ricorso, delle suddette circostanze), non colto dalla Corte territoriale, in ordine al suo implicito riferimento all’art. 434 c.p.c. (primo motivo);
2. esso è infondato;
3. in via di premessa, giova ribadire in linea di diritto che l’uso aziendale, integrato dalla reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, appartiene al novero delle cosiddette fonti sociali – tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda, così da agire sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale (Cass. 8 aprile 2010, n. 8342; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3296; Cass. 19 gennaio 2017, n. 1321);
3.1. tuttavia, al di là della correzione in punto di diritto della motivazione a norma dell’art. 384, ultimo comma c.p.c., dell’affermazione, invero marginale nell’economia del percorso decisionale della Corte territoriale e consequenzialmente tratta de relato dalla sentenza del Tribunale (sub specie di omessa censura del passaggio motivazionale di questa da parte della reclamante “rispetto ad altre prassi”, neppure indicate), “secondo cui la prassi può consolidarsi solo in assenza di positiva regolamentazione” (così agli ultimi tre alinea del primo capoverso di pg. 15 della sentenza), il rilievo non è affatto decisivo;
4. come è nella chiara consapevolezza anche della lavoratrice (come si trae dal primo capoverso di pg. 8 del ricorso), la questione centrale, a fondamento degli illeciti disciplinari contestati, è “l’autoapprovazione da parte del lavoratore”, non giustificata, né attinta dalla “censura relativa al rigetto delle istanze istruttorie volte a dimostrare la prassi aziendale che privilegia l’effettuazione dello straordinario prima della formale autorizzazione presso la B. s.r.l.”, essendo questa “circostanza pacifica” (così ai primi sei alinea del primo capoverso di pg. 15 della sentenza);
4.1. né può essere revocata in dubbio la violazione dell’obbligo di diligenza, ai sensi dell’art. 2104 c.c., quale specificazione del più generale principio di adempimento della prestazione lavorativa secondo i principi di correttezza e buona fede (artt. 1175, 1176, 1375 c.c.), in assenza pure di confutazione dei passaggi motivazionali della sentenza del Tribunale relativi alla riconducibilità a tali regole (così al quarto capoverso di pg. 14 della sentenza della Corte d’appello), da parte della lavoratrice (con mansioni di gestione del personale di Roma e amministratore di Sistema, dalla cui utenza aveva proceduto alla detta autoapprovazione, pure essendo edotta della spettanza dell’autorizzazione alle richieste, così da sé medesima approvate, alla propria responsabile); dovendo il grado di diligenza del lavoratore, variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto, essere apprezzate in base a due distinti parametri: della natura della prestazione ovvero dalla complessità delle mansioni svolte anche con riferimento all’assunzione di responsabilità alle stesse collegata; dell’interesse dell’impresa ovvero dal raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale in funzione della quale è resa (Cass. 12 gennaio 2018, n. 663);
5. nell’illustrato contesto di valutazione globale operato dalla Corte capitolina si comprende allora l’irrilevanza del profilo di doglianza relativo alla ritenuta preclusione, siccome erroneamente riferita al reclamo avverso alla sentenza del Tribunale anziché all’atto di opposizione alla sua ordinanza, di ulteriori deduzioni in fatto, oggetto di capitolazione probatoria (peraltro già ritenuta tale dalla medesima Corte territoriale: come indicato al superiore p.to 4);
5.1. senza con ciò contraddire, nell’insignificanza di una tale censura per la ragione detta, il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità e da ribadire, secondo cui nel cd. “rito Fornero” il giudizio di primo grado sia unico a composizione bifasica: con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore ed una seconda, a cognizione piena, che non costituisce un grado diverso (Cass. 17 febbraio 2015, n. 3136; Cass. 3 marzo 2016, n. 4223) rispetto al giudizio a cognizione sommaria, che non è una revisio prioris instantiae, ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente (Cass. 21 novembre 2017, n. 27655; Cass. 6 settembre 2018, n. 21720); con la conseguenza che non costituisce domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi, la deduzione di ulteriori motivi di invalidità del recesso, ove fondata sui medesimi fatti costitutivi rispetto a quelli dedotti nella fase sommaria (Cass. 4 aprile 2019, n. 9458, in specifico riferimento ad ipotesi di superamento del periodo di comporto); tanto meno sussistendo preclusioni nella formazione della prova in ragione della produzione di documenti, nella prima fase e successivamente, in sede di opposizione, di altri, potendosi valutare unitariamente tutte le prove formatesi nel corso del giudizio di primo grado; essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori: il che esclude che la fase di opposizione, nell’ambito del giudizio di primo grado in cui la cognizione si espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte dalle parti, quanto meno in sede di discussione e nelle eventuali note difensive, possa configurarsi come la riproduzione dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta (Cass. 6 luglio 2016, n. 13788, con richiamo puntuale di Corte cost. 13 maggio 2015, n. 78): così conservando la parte nel giudizio di opposizione integra ogni opzione istruttoria, a prescindere dalle scelte processuali in precedenza operate (Cass. 14 luglio 2020, n. 14976);
6. la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3 l. 604/1966, 8, 9, 10 CCNL applicato al rapporto, 18 l. 300/1970, per inesistenza di motivazione, neppure per relationem, in assenza di alcun esame del CCNL applicabile, così da (non) poter ricondurre il fatto (relativo ai tre addebiti suindicati), sanzionato con il licenziamento senza preavviso, alla fattispecie astratta regolata dalle previsioni degli artt. 8 (tipologia delle sanzioni), 9 (condotte punibili con sanzione conservativa) e 10 (Licenziamento con preavviso) del CCNL (secondo motivo);
7. esso è inammissibile;
8. la Corte territoriale ha operato una valutazione, congruamente argomentata, per la quale ha escluso (all’ultimo capoverso di pg. 16 e al primo di pg. 17 della sentenza) la coincidenza delle condotte della lavoratrice con la previsione di ipotesi sanzionabili in via conservativa (art. 9 del CCNL) e pure la loro riconducibilità al licenziamento con preavviso (art. 10, lett. A del CCNL); e così ritenuto, in base alla pluralità delle condotte, alla loro gravità e intenzionalità, in considerazione delle mansioni svolte da L. D.N., il suo comportamento idoneo a lederne irreparabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro e la medesima (secondo capoverso di pg. 17 della sentenza);
8.1. la censura non pone una questione sindacabile, secondo il suo consolidato orientamento (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 2 settembre 2016, n. 17539; Cass. 10 luglio 2018, n. 18170; Cass. 6 settembre 2019, n. 22358) da questa Corte, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514); potendo la Corte di cassazione sindacare l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095), come invece evidente nel caso di specie;
8.2. deve essere ribadito, infine, il principio secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma dovendo la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Cass. 23 maggio 2019, n. 14063; Cass. 6 agosto 2020, n. 16784; Cass. 19 agosto 2020, n. 17321): qui peraltro improduttivo di effetti;
9. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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