CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 18482 depositata il 28 giugno 2023
Lavoro – Licenziamento – Reintegrazione – Articolo 18, Legge n. 300/1970 – Requisito dimensionale società – Onere probatorio – Giusta causa – Rigetto
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano in riforma della sentenza del Tribunale di Busto Arsizio ha accertato che il licenziamento intimato da D. s.r.l. a M.D. era illegittimo e per l’effetto ha ordinato la reintegrazione del lavoratore condannando la società al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra e comunque in misura non superiore a dodici mensilità.
2. Il giudice di secondo grado, in esito ad una articolata valutazione del materiale probatorio, ha ritenuto che la datrice di lavoro non avesse provato il fatto addebitato al lavoratore (responsabile di magazzino cui era stato addebitato di essersi impossessato di prodotti scomparsi in azienda).
Perciò, esclusa la sussistenza del fatto addebitato, ha applicato l’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970 dopo aver verificato che non era stata offerta la prova della insussistenza dei presupposti dimensionali per /applicare la tutela prevista dal citato art. 18.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice di lavoro affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso M.D.. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’articolo 360 n. 3 e n. 4 c.p.c. per avere la Corte d’appello, anche a dispetto della mancata contestazione avversaria della prova documentale attestante il requisito dimensionale della società, applicato la tutela di cui all’articolo 18 della legge numero 300 del 1970 invece che quella di cui alla legge numero 604 del 1966. La società ricorrente deduce di aver prodotto in giudizio, fin dal primo grado, documentazione attestante l’inesistenza del requisito dimensionale e che tale documentazione non era mai stata contestata dal lavoratore. Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, pertanto, il fatto avrebbe dovuto essere ritenuto provato posto che era onere del lavoratore contestare tale documentazione. In tale prospettiva, pertanto, la società ritiene che la Corte di merito sia incorsa nella violazione dell’art. 115 c.p.c. quando ha ritenuto che non fosse stata data la prova dell’insussistenza dei requisiti dimensionali necessari per poter applicare la tutela prevista dall’art. 18 dello Statuto procedendo all’esame ed alla valutazione della prova prodotta in giudizio attesa la sua mancata contestazione.
5. La censura prima ancora che infondata è inammissibile poiché nella sostanza si risolve in un diverso apprezzamento dei fatti allegati, delle prove prodotte e delle contestazioni mosse in giudizio. Va rilevato che dalla lettura della sentenza si evince che il ricorrente aveva allegato in primo grado che la società aveva più di 15 dipendenti e la società aveva replicato portando documentazione attestante, a suo dire, l’inesistenza del requisito dimensionale. Risulta altresì che nella replica alla domanda riconvenzionale avanzata in primo grado dalla società, prima difesa utile per il lavoratore per replicare anche alle allegazioni della convenuta, si era ribadita l’esistenza del requisito dimensionale. La documentazione allegata a sostegno della insussistenza del requisito dimensionale era stata contestata dal lavoratore nella sua prima difesa utile e, conseguentemente, il giudice era tenuto, come ha fatto, a verificarne il contenuto e la valutazione del materiale probatorio appartiene al merito e non può essere qui sindacata. In tale contesto, neppure è stato violato l’art.2697 c.c. atteso che la Corte di merito, correttamente ha verificato se la società che ne era onerata aveva dimostrato che non sussistevano i presupposti per l’applicazione della tutela reale e lo ha escluso in esito all’esame proprio di quella documentazione che era stata prodotta all’atto della costituzione in giudizio dalla datrice di lavoro. Nessuna inversione dell’onere probatorio che è stato correttamente posto a carico della datrice di lavoro. In tema di riparto dell’ onere probatorio, ai fini dell’applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, sono fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento, esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 st.lav., costituiscono, insieme alla giusta causa o al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. L’assolvimento di un siffatto onere probatorio consente a quest’ultimo di dimostrare, ex art. 1218 c.c., che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio da lui esercitato al risarcimento pecuniario, perseguendo, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa (cfr. Cass. 19/04/2017 n. 9867 e già Sez. U 10/01/2006 n. 141).
6. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nella parte in cui la Corte di merito avrebbe omesso di considerare l’elemento fattuale decisivo costituito dalla corrispondenza tra i prodotti sottratti dal magazzino e la merce rinvenuta presso l’abitazione del lavoratore, ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c..
7. Con il terzo motivo di ricorso denunciata ancora la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nella parte in cui la Corte attribuisce rilevanza decisiva quale elemento di fatto determinante per l’identificazione dei prodotti, alla carenza del codice a barre sui cinquantacinque prodotti a marchio D. s.r.l. rinvenuti presso l’abitazione del lavoratore.
8. Con il quarto motivo di ricorso, infine, è denunciata di nuovo la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nella parte in cui la Corte di appello non attribuisce rilevanza decisiva agli elementi di fatto già acquisiti nel giudizio di primo grado.
9. Le censure sono tutte inammissibili poiché si risolvono nella sostanza nella richiesta di un diverso apprezzamento del materiale probatorio che la Corte di appello con valutazione plausibile e coerente con il contenuto delle prove stesse ha preso in esame fornendo una ricostruzione del fatto compatibile con le stesse e perciò non censurabile davanti a questa Corte atteso che la questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. tra le tante Cass. 27/12/2016 n. 27000). Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt.115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità e denunciabile come errore di fatto che va censurato però nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. 12/10/2021 n. 27847) che, come è noto per effetto della sua riformulazione con l’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ed alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, va interpretato nel senso della riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione con possibilità di denunciare solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Inoltre il vizio specifico di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), in disparte le condizioni di ammissibilità della censura ( che deve indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”) non può riguardare comunque l’omesso esame di elementi istruttori che infatti non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. per tutte Cass. s.u. 07/04/2014 n. 8354).
9.1. Nella specie la Corte territoriale non ha affatto trascurato di prendere in esame il fatto che dei prodotti a marchio D. erano stati rinvenuti presso l’abitazione del lavoratore ed anzi ha chiarito le ragioni per le quali tale circostanza non fosse decisiva per provare l’addebito e ciò ha fatto avvalendosi delle risultanze istruttorie che ha valutato con una ricostruzione coerente che non rivela affatto che siano state trascurate circostanze decisive tali non essendo neppure le dichiarazioni del teste che si assume trascurato dal giudice di appello. Ancora una volta è riservata al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (cfr. Cass. 10/06/2014 n. 13054)
10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.