CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 20239 depositata il 14 luglio 2023
Lavoro – Patto di prova – Nullità – Mancata specificazione delle concrete mansioni e dell’indicazione del profilo professionale attribuito – Recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova – Tutela indennitaria – Automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio – Rigetto
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano, respingendo gli appelli di M.G.V. e di C.I. s.p.a., ha confermato la sentenza di primo grado che, accertata la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro stipulato tra le parti, aveva dichiarato la estinzione del rapporto di lavoro per effetto del recesso datoriale motivato con il mancato superamento del periodo di prova e condannato la società datrice di lavoro a corrispondere alla lavoratrice, ai sensi dell’art. 3, comma, 1 d. lgs. n.23 del 2015, un’indennità corrispondente a quattro mensilità della retribuzione, quantificata in complessivi € 8.333, 32, oltre accessori, dalla data del recesso al saldo.
2. La Corte distrettuale ha condiviso la valutazione di prime cure in punto di nullità del patto di prova per mancata specificazione delle concrete mansioni alle quali sarebbe stata adibita la lavoratrice e per mancata indicazione del profilo professionale attribuito;
ha escluso la esistenza di un motivo illecito determinante il licenziamento; ha ritenuto che le conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale intimato sulla base di un patto di prova nullo non fossero riconducibili alla fattispecie regolata dal comma 2 dell’art. 3 d. lgs. n. 23 del 2015, implicante l’applicazione della tutela reale, ma regolate dal comma 1 dell’art. 3 d. lgs. cit., con applicazione, quindi, della sola tutela cd. indennitaria, in concreto determinata in quattro mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso M.G.V. sulla base di quattro motivi. C.I. s.p.a. ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
4. Il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2 d. lgs. n. 23 del 2015 o, in subordine, dell’art. 1418 cod. civ. Sostiene che in carenza di un valido ed efficace patto di prova il licenziamento intimato per mancato superamento della stessa è nullo, ai sensi dell’art. 1418 cod. civ., per contrasto con l’art. 1 della legge n. 604 del 1966, norma imperativa posta a tutela di interessi rilevanti ai sensi degli artt. 1, 4, 35, 36, 41, comma 2, Cost.; rimarca la “totale carenza” di potere in capo alla parte recedente per essere il licenziamento stato intimato al di fuori delle causali tipizzate dalla legge, collocandosi, quindi, all’esterno del perimetro nell’ambito del quale l’ordinamento, con disposizione di natura imperativa (art. 1 cit.), consente l’esplicazione del potere datoriale di recesso; osserva che sul piano delle tutele applicabili, la configurazione come nullo del recesso datoriale comportava l’applicazione della tutela reintegratoria piena ex art. 2, comma 1, d. lgs. n. 23 del 2015, o, in subordine, della tutela di diritto comune – ripristino del rapporto e risarcimento del danno-; contesta la applicabilità della sola tutela indennitaria ai sensi dell’art. 3 d. lgs. cit. sul rilievo che il licenziamento in oggetto non era ingiustificato ma illecito per assenza di causale; evidenzia che a fronte dell’allegazione datoriale del diritto di recedere ad nutum ai sensi degli artt. 2096 c.c. e 10 della l. n. 604 del 1966, la verifica giudiziale non potrebbe investire il diverso profilo della fondatezza del recesso per il principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento e della tipizzazione delle cause di recesso.
1.1. Prospetta la questione di legittimità costituzionale, per eccesso di delega, ove la tutela ex art. 2 comma 1, d. lgs. cit. dovesse ritenersi preclusa dalla necessità di previsione espressa della nullità dell’atto di recesso.
2. Con il secondo motivo di ricorso, svolto in via gradata, deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto per avere il Giudice d’appello, sul presupposto che il licenziamento de qua fosse da considerare semplicemente privo di giusta causa, ritenuta applicabile la tutela di cui all’art. 3, comma 1, d. lgs. n. 23 del2015; reitera l’argomentazione a conforto della nullità del recesso, perché fondato su un giudizio di asserita inidoneità della lavoratrice, non consentito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966, ed invoca in relazione a tale aspetto la tutela piena accordata dall’art. 2 d. lgs n. 23 del 2015 (ovvero, in subordine, la tutela cd. di diritto comune.
3. Con il terzo motivo, svolto in via ulteriormente gradata, deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio per avere la sentenza impugnata, sul presupposto che il licenziamento de qua fosse da considerare semplicemente privo di giusta causa, ritenuta applicabile la tutela dell’art. 3 comma 1 d. lgs n. 23 del 2015, omettendo di considerare, alla luce della allegazioni della lavoratrice e delle stesse difese della società, la natura ontologicamente disciplinare del licenziamento e la pacifica insussistenza di qualsivoglia fatto materiale contestato, attesa la inosservanza della procedura prescritta dall’art. 7 l. n. 300 del 1970 in ipotesi di licenziamento intimato per motivi disciplinari.
4. Con il quarto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione di norma di diritto censurando la sentenza impugnata in punto di conferma della misura della indennità risarcitoria, misura che assume frutto dell’applicazione del solo parametro aritmetico rappresentato dall’anzianità di servizio, laddove l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 3, comma 1 d. lgs. n. 23 del 2015 avrebbe imposto di differenziare il trattamento di situazioni eterogenee, nel rispetto dell’art. 3 Cost secondo l’insegnamento della sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale.
5. Il primo motivo di ricorso è da respingere in quanto la ricostruzione alla base delle censure articolate, seppure suggestiva, non ha fondamento normativo.
5.1. E’ noto che l’art. 2096 cod. civ., in tema di patto di prova, sancisce la regola generale del recesso libero in ogni momento del periodo di prova (a meno che le parti, nell’esercizio della loro autonomia, abbiano ritenuto di dover fissare un termine minimo di durata), regola confermata dall’art. 10 della l. n. 604 del 1966, che ha testualmente escluso dal proprio ambito di applicazione il periodo di prova. In base alla previsione dell’art. 2096 cod. civ., il datore di lavoro nel corso del periodo di prova può risolvere unilateralmente il rapporto, senza addurre alcuna giustificazione, né rispettare il preavviso.
Il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha carattere discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quel che accade nel licenziamento assoggettato alla legge n. 604 del 1966.
5.3. L’esercizio del potere di recesso datoriale è stato nel tempo rivisitato nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione codicistica; in questa prospettiva limiti alla discrezionalità datoriale, suscettibili di sindacato in sede giurisdizionale, sono stati rinvenuti nella necessità che il recesso sia stato determinato da ragioni inerenti all’esito dell’esperimento in prova (in coerenza con la causa del patto di prova) e non sia riconducibile ad un motivo illecito ed è stata riconosciuta la possibilità per il lavoratore di dedurre in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, con onere a suo carico di provare, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova (Corte cost. n. 189 del 1980, Corte cost. n. 255 del 1989, Corte cost. n. 541 del 2000, Cass. n. 1180 del 2017; Cass. n. 469 del 2015, Cass. n. 21784 del 2009, Cass. n. 1213 del 2004, Cass. n. 19354 del 2003, Cass. Sez. Un. n. 11633 del 2002, Cass. n. 2228 del 1999).
5.4. In relazione al tema più direttamente investito dalla questione in controversia, concernente il rapporto tra recesso ad nutum intimato sulla base di un patto di prova rivelatosi nullo, occorre premettere che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che la nullità della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio, in conformità del meccanismo prefigurato dall’art. 1419, comma 2 cod. civ. (Cass. n. 21698 del 2006, Cass. n. 14538 del 1999, Cass. n. 5811 del 1995, Cass. n. 11427 del 1993).
5.5. Sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento ad nutum intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalle legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.
Per costante enunciato del giudice di legittimità, infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato – ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo (Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).
In base a tale ricostruzione, condivisa dal Collegio, il potere esercitato dal datore di lavoro non risulta radicalmente insussistente come, viceversa, sostenuto dalla parte ricorrente, ma è soggetto alle limitazioni connesse al principio di causalità e tipicità del licenziamento, non venendo in rilievo l’an ma solo il quomodo del relativo esercizio. E poiché il recesso motivato dal mancato superamento della prova non è riconducibile ad alcune delle cause tipiche per le quali può essere intimato il licenziamento nell’ambito del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quale è quello frutto della “conversione” dell’originario rapporto con patto di prova invalido, si pone il problema dell’inquadramento del vizio da cui è affetto il recesso.
5.6. Tale questione ha assunto concreto rilievo alla luce del mutato contesto normativo conseguente alla disciplina dettata dal d. lgs. n. 23 del 2015 – ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame ai sensi dell’art. 1 d. lgs. cit. per essere il contratto di lavoro stato stipulato il 3 agosto 2015 con decorrenza dal settembre successivo- essendo venuta meno, ai fini della individuazione della tutela applicabile, già a partire dalle modifiche all’art. 18 l. n. 300 del 1970 introdotte dalla l. n. 92 del 2012 ed, in maniera più significativa, con il d. lgs. n. 23 del 2015, la pregressa equivalenza a tal fine dei vizi del licenziamento, la quale, in presenza dei prescritti requisiti dimensionali, aveva comportato l’applicazione in maniera uniforme della tutela cd. reale.
5.7. Nel contesto normativo risultante dalla riformulazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970, ad opera della legge n. 92 del 2012, il licenziamento ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova è stato ritenuto illegittimo per mancanza di “giusta causa” e di “giustificato motivo”, con applicazione della reintegrazione e della indennità risarcitoria ex art. 18, comma 4, st. lav. sul rilievo che “in tale ambito, tuttavia, il richiamo al mancato superamento della prova è totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo, ed il vizio è tale da determinare l’applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, che è stata prevista dal IV comma del nuovo art. 18 della L. n. 300 del 1970 – come modificato dalla L. n. 92 del 2012, applicabile ratione temporis – per le ipotesi più evidenti di discostamento del recesso dalle relative fattispecie legittimanti” (Cass. n 16214/2016 cit.). Invero, la novella del 2012 non richiedeva di procedere, come viceversa necessario in relazione all’articolazione di tutele prevista dal d. lgs n. 23/2015, ad ulteriore specifica qualificazione del vizio in oggetto in termini di riconducibilità alla categoria della “giusta causa”, del “giustificato motivo soggettivo” o del “ giustificato motivo oggettivo”, perché tali ipotesi erano tutte connotate, da punto di vista sanzionatorio, dall’applicabilità della tutela reintegratoria in ipotesi di <<manifesta insussistenza del fatto>> o della << insussistenza del fatto >>, categorie nelle quali poteva agevolmente ricondursi, senza ulteriori approfondimenti quella del recesso ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova.
5.8. Nel sistema introdotto dal d. lgs. n. 23 del 2015, connotato, invece, dal disallineamento delle tutele apprestate per il licenziamento disciplinare e per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che ammette solo la tutela indennitaria, art. 3, comma 1 d. lgs. cit.) il tema della corretta qualificazione del vizio del recesso datoriale diviene ineludibile.
E così, per i cosiddetti “nuovi assunti”: − l’art. 2 del d.lgs. cit. prevede, a prescindere dal requisito dimensionale e dalla natura del datore di lavoro, una tutela reintegratoria “piena” in presenza di nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’art. 15 st. lav. ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge. La stessa tutela trova applicazione in caso di licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale o nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, della l. n. 68 del 1999; − l’art. 3, comma 2, del d.lgs. cit. prevede, nella ricorrenza del requisito dimensionale, la tutela reintegratoria “attenuata” esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento; − l’art. 3, comma 1, del d.lgs. cit. prevede, nella ricorrenza del requisito dimensionale, la tutela indennitaria “forte” nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo ovvero, in via residuale rispetto all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa; − l’art. 4 del d.lgs. cit. prevede, nella ricorrenza del requisito dimensionale, la tutela indennitaria “debole” nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 st. lav. L’art. 9 del d.lgs. cit. prevede che ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, St. lav., non si applica la tutela reintegratoria “attenuata” di cui all’art. 3, comma 2, e l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art. 3, comma 1, e dall’art. 4, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.
5.9. Tanto premesso, ritiene il Collegio che occorre innanzitutto ribadire che, anche nel vigore del d. lgs. n. 23 del 2015 – che non ha modificato sotto il profilo sostanziale l’assetto della legge n. 604 del 1966 in punto di necessaria causalità del recesso datoriale – in continuità con la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata (v. paragrafo 5.5.), dalla quale non vi è motivo di discostarsi, il recesso ad nutum intimato in assenza di un valido patto di prova non è radicalmente nullo per assenza del relativo potere in capo al soggetto datore di lavoro ma è un licenziamento intimato per ragioni che non sono riconducibili ad alcuna di quelle in presenza delle quali la l. n. 604 del 1966 consente al datore di lavoro la unilaterale risoluzione del rapporto.
Tale considerazione dà conto del fatto che la concreta fattispecie non può essere ricondotta all’ambito delle nullità del recesso disciplinate dall’art. 2 d. lgs. cit.; dà conto, inoltre, della conseguente irrilevanza, al fine del decidere, della prospettata questione di legittimità costituzionale del citato art. 2, formulata sotto il profilo della eccesso di delega con riferimento alla previsione che limita l’applicazione della tutela prefigurata dall’art. 2 cit. oltre che all’ipotesi di licenziamento discriminatorio <<agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge>>.
5.10. La verifica della tutela applicabile si incentra quindi sull’art. 3 d. lgs cit. in relazione al quale risulta decisiva la considerazione del carattere solo residuale che nell’impianto normativo del legislatore del cd. Jobs Act assume la tutela reintegratoria, come reso palese dall’incipit che apre il primo comma dell’art. 3 “ Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità …>>. Il comma 2, infatti, stabilisce la applicazione della reintegrazione solo nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
Nel disegno del legislatore del 2015, quindi, la forma di tutela comune a tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo è costituita dalla tutela indennitaria, anch’essa variamente articolata, e tale scelta non presta il fianco a dubbi di costituzionalità avendo il Giudice delle Leggi riconosciuto al legislatore, pur nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, ampio margine di discrezionalità nella previsione delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, precisando che la reintegrazione non costituisce l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali di cui agli artt. 4 e 35 Cost. (Corte cost. n. 125 del 2022, Corte cost. n. 59 del 2021, Corte cost. n. 254 del 2020 , Corte cost. n. 194 del 2018).
5.11. Dalle complessive considerazioni che precedono scaturisce che il recesso ad nutum in oggetto, intimato in assenza di valido patto di prova, non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 3 d. lgs n. 23 del 2015 nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria. La soluzione prefigurata appare del resto la più coerente con il principio, sotteso all’impianto normativo del d. lgs. n. 23 del 2015 in oggetto, ispirato alla tendenziale graduazione delle sanzioni in funzione della gravità del vizio del licenziamento, apparendo distonico, rispetto a tale impianto, attribuire la tutela reintegratoria per l’ipotesi in esame laddove il legislatore del 2015 ha volutamente inteso escluderla per fattispecie obiettivamente connotate da maggiore gravità come l’assenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, o come il licenziamento non proporzionato.
6. Il secondo motivo di ricorso deve essere respinto alla luce delle complessive considerazioni alla base del rigetto del primo motivo; va qui infatti ribadito che il licenziamento in prova non può essere ricondotto alla categoria dei provvedimenti affetti da nullità difettando nell’ordinamento un’espressa previsione che lo preveda e neppure essendo possibile pervenire su base ricostruttiva dei principi generali a tale conclusione. Come argomentato dal giudice di seconde cure la presente fattispecie non è assimilabile a quella in cui, già a livello formale nella comunicazione del recesso, manchi la indicazione di qualsivoglia ragione giustificativa, ipotesi nella quale effettivamente potrebbe porsi una questione di contrasto con la norma imperativa di fondo in tema di necessaria causalità del licenziamento rappresentata dall’art. 1 legge n. 604/1966. Laddove, invece, come nella ipotesi in esame, una causale risulti comunque enunciata nella comunicazione di recesso , anche se ab origine inidonea a determinare lo scioglimento del rapporto per difetto del presupposto legittimante rappresentato da un valido patto di prova, la fattispecie si allinea alle altre ipotesi nelle quali il recesso datoriale, pur formalmente non riconducibile ad una delle causali tipiche nelle quali è consentito al datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro in via unilaterale, risulti in concreto inidoneo a produrre dette effetto.
7. Il terzo motivo di ricorso deve essere respinto per la dirimente considerazione che le censure articolate si sostanziano nella richiesta di una diversa qualificazione delle ragioni poste a base del recesso e quindi investono direttamente, come non consentito in sede di legittimità, un apprezzamento riservato al giudice di merito, dovendo ulteriormente rilevarsi che la statuizione sul punto non potrebbe neppure essere incrinata dalla denunzia di vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., preclusa dalla esistenza di << doppia conforme>> Nello specifico, la Corte distrettuale, confermando sul punto la decisione del giudice di prime cure, ha chiarito che il recesso in oggetto non era riconducibile all’ambito del licenziamento per motivi disciplinari risultando <<completamente disancorato da questo genere di profili qualificanti siccome originato nell’alveo di un rapporto a tempo indeterminato così divenuto in quanto “ depurato” dalla condizionante prerogativa risolutoria tipica del rapporto di lavoro in prova, essendo venuta meno tale tipo di limitazione pattizia, affetta da radicale nullità” e tale accertamento non risulta validamente inficiato dalle censure formulate che si limitano a prospettare la possibilità di un diverso apprezzamento.
8. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per la dirimente considerazione che la Corte di appello non si è espressa sulla specifica questione della misura della indennità risarcitoria liquidata in prime cure, questione che, alla stregua dello storico di lite della sentenza impugnata, non risulta essere stata devoluta al giudice di seconde cure.
Costituiva pertanto onere della odierna ricorrente allegare e dimostrarne la rituale deduzione nelle fasi di merito e denunziare riaspetto ad essa la omessa pronunzia (Cass. n. 20694 del 2018, Cass. n. 15430 del 2018, Cass. n. 23675 del 2013), come, viceversa, non avvenuto.
8. La novità e complessità delle questioni trattate giustificano la integrale compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
9. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’art.13 d. P.R. n. 115/2002 (Cass. Sez. Un. n. 23535 del 2019),
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa le spese di lite.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.