CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 23425 depositata il 1° agosto 2023
Lavoro – Licenziamento – Indennità risarcitoria omnicomprensiva – Giusta causa – Contratto collettivo autoferrotranvieri – Retribuzione globale di fatto – Reato contro il patrimonio – Volontario inadempimento doveri di ufficio – Negligenza
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1136/2017, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento del reclamo proposto da A.T.M. s.p.a. e in riforma della sentenza di primo grado (che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da detta società ad A. F. ed applicato in favore di quest’ultimo la tutela di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970), aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro dell’A. con la società convenuta, con effetto dalla data del licenziamento, ed aveva condannato la stessa società al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva, commisurata a 14 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge; aveva dichiarato compensato tra le parti un terzo delle spese di entrambi i gradi del giudizio, condannando il lavoratore alla rifusione dei residui due terzi.
2. Con sentenza n. 32500/2018, questa Corte accoglieva il terzo motivo del ricorso principale proposto dall’A. contro la suddetta sentenza, assorbiti il quarto ed il quinto motivo e rigettati il primo e il secondo motivo dello stesso ricorso principale, e rigettava il ricorso incidentale di A.T.M. s.p.a.; cassava, quindi, la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinviava alla stessa Corte d’appello, in diversa composizione, cui demandava di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
3. Questa Corte Suprema, nel ritenere fondato il terzo motivo di quel ricorso per cassazione dell’A. (con il quale veniva denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 5, anziché del comma 4, L. n. 300/1970), dopo diverse considerazioni di ordine strettamente giuridico, aveva osservato: “29. Nel caso di specie, e senza la necessità di affrontare il problema di individuazione del soggetto su cui grava l’onere di allegare e provare la riconducibilità (o meno) della condotta contestata ad ipotesi punite con sanzione conservativa, il lavoratore ha chiesto nel ricorso introduttivo di primo grado (le cui conclusioni sono trascritte a pag. 2 del ricorso per cassazione) che fosse dichiarato illegittimo il licenziamento ed applicata la tutela reintegratoria. 30. La Corte d’appello di Milano, accertata la sussistenza della condotta contestata, disciplinarmente rilevante, ed esclusa la giusta causa di licenziamento per essere non proporzionata la sanzione espulsiva (rilevando come la condotta non integrasse gli estremi del furto o del tentativo di furto, puniti con la destituzione), ha omesso di valutare la riconducibilità della condotta accertata ad ipotesi punite con sanzione conservativa adducendo la mancata allegazione da parte del lavoratore circa la “esistenza di specifica sanzione conservativa prevista dalla contrattazione collettiva”; ciò, tuttavia, senza considerare come nel caso di specie la valutazione di proporzionalità attraverso il parametro costituito delle previsioni del contratto collettivo, al fine di individuare la tutela applicabile, non abbisognasse di alcuna specifica allegazione per essere il contratto collettivo degli autoferrotranvieri recepito dal R.D. n. 148 del 1931, applicabile ratione temporis, e quindi conoscibile dal giudice, senza necessità di collaborazione delle parti, in base al principio iura novit curia, e similmente a quanto accade per il contratto collettivo nazionale del pubblico impiego (cfr. Cass. n. 19507 del 2014). 31. Ricorre quindi la denunciata violazione di legge avendo la Corte d’appello escluso la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, cit., senza valutare la riconducibilità dell’addebito ad ipotesi punite con sanzioni conservative e contemplate dal regio decreto applicabile al caso di specie e richiamato dalle parti, sull’erroneo presupposto dell’inadempimento di un onere di allegazione sul punto”. Questa Corte, perciò, disponeva la cassazione della sentenza allora impugnata in relazione all’unico motivo accolto, con rinvio alla medesima Corte d’appello affinché procedesse alla verifica omessa, ai fini dell’art. 18, comma 4, cit., in base alle norme del regio decreto pure cit. (cfr. § 33 di detta decisione).
4. Riassunto il giudizio da parte dell’A., con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Milano, in sede di rinvio, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra l’A. e l’A.T.M. con effetto dalla data del licenziamento e condannava quest’ultima a corrispondere all’A. una indennità risarcitoria pari a 14 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali sulle somme rivalutate dalla data del recesso al saldo; compensava interamente tra le parti le spese della fase di legittimità e condannava l’appellante in riassunzione a rifondere all’A.T.M. quelle del giudizio di rinvio, come liquidate.
5. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, riepilogando le principali scansioni della vicenda processuale, rilevava che, con la sentenza che aveva disposto il rinvio, questa Corte di cassazione non aveva censurato la ricostruzione operata nella sentenza cassata, e considerava quanto ritenuto dalla stessa decisione nell’accogliere il terzo motivo del precedente ricorso per cassazione. Osservava, poi, “che, con la pronuncia sottoposta al vaglio della Cassazione, questa Corte avesse a suo tempo ben acclarato e dichiarato che nel caso di specie l’A., conformemente all’esatto tenore della contestazione rivoltagli (con l’esposizione del fatto nei suoi estremi oggettivi), non fosse incorso in una fattispecie di furto anche solo a livello di tentativo, ma avesse invece compiuto, tramite il suo temporaneo allontanamento dal deposito aziendale giustificato solo dalla realizzazione delle operazioni sopra descritte in pieno contrasto con gli interessi della datrice di lavoro, un insieme di atti semplicemente preparatori di quel tipo di reato contro il patrimonio, arrestatisi a quella soglia – puramente preparatoria, appunto – in modo tale da non potersi scorgere nella vicenda (neanche) i canonici estremi del tentativo”. Concludeva, pertanto, che, leggendo la casistica del R.D. 148/1931, l’unica fonte pertinente a disciplinare il rapporto di lavoro in questione, non si riusciva “a rinvenire una sanzione conservativa cui possa corrispondere la condotta tenuta nel suddetto frangente dal lavoratore”. Riteneva, in definitiva, di nuovo applicabile al caso la tutela di cui al comma 5 dell’art. 18 L. n. 300/1970.
6. Avverso tale decisione A. F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
7. Ha resistito l’intimata con controricorso.
8. Il P.G., con nota scritta, ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso.
9. L’A.T.M. ha depositato memoria in vista dell’udienza pubblica del 2.2.2022, non tenutasi per questo procedimento a seguito di rimessione della causa sul ruolo e fissazione di nuova udienza, con nomina di diverso relatore.
10. L’Ufficio del P.G. ha depositato nuova memoria, nella quale ha ribadito la richiesta di rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione dell’art. 18 comma 4 L. 300/1970 modificato dalla L. 92/2012 per erronea ricognizione della fattispecie contestata al lavoratore e disciplinata dal R.D. n. 148/1931 e per omessa interpretazione estensiva delle clausole della contrattazione collettiva”. Richiamati testualmente i passi motivazionali della sentenza impugnata oggetto di censura, deduce che la Corte d’appello aveva operato la verifica omessa, ai fini dell’art. 18, comma 4, cit. in base al R.D. n. 148/1931, richiesta dalla Corte di Cassazione con la sentenza 32500/2018, sul presupposto errato che la stessa Corte d’appello di Milano, nella sentenza n. 1136/2017, avesse qualificato il fatto contestato all’A. quale “un insieme di atti semplicemente preparatori di quel tipo di reato contro il patrimonio”; laddove, secondo il ricorrente, in tale precedente sentenza la Corte territoriale aveva qualificato i fatti addebitatigli come fatti di grave inadempimento. Inoltre, secondo il ricorrente, i fatti a lui specificamente contestati, ossia, “l’utilizzo del radiobus aziendale per la accertata movimentazione di una tanica fra l’autovettura del capo operatore P. e, in precedenza, per scopi meramente personali”, “nonché l’anomala e ammessa movimentazione di taniche che avrebbero dovuto contenere i detergenti e la conoscenza da parte del sig. A. dell’esistenza di taniche piene di gasolio insieme alle taniche contenenti detergenti”, sono ben diversi dalla commissione di atti preparatori al reato di furto di carburante. Per l’impugnante, ancora, l’art. 42 R.D. cit., in merito ai fatti di grave inadempimento come quelli a lui contestati, prevede espressamente al punto 10 la sanzione conservativa della sospensione dal servizio “per volontario inadempimento dei doveri di ufficio o per negligenza, la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell’azienda”, oppure a quanto previsto dal punto 16 dello stesso R.D. che prevede la sanzione conservativa della sospensione “per mancanze da cui siano derivate irregolarità sull’esercizio e da cui avrebbe potuto derivare danno alla sicurezza dell’esercizio”.
2. Con il secondo motivo denuncia: “assenza di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per la quantificazione dell’indennità risarcitoria”. Rispetto al capo dell’impugnata sentenza recante la condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria pari a 14 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto richiama giurisprudenza di legittimità secondo cui la determinazione tra il minimo e il massimo della misura dell’indennità risarcitoria prevista dalla legge n. 604 del 1966 spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per assenza o vizio di motivazione. Deduce allora che la Corte d’appello non ha dato conto nella propria sentenza dei principi dettati dalla normativa e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in merito alla quantificazione della predetta indennità, quali l’anzianità del lavoratore, le dimensioni dell’impresa, le condizioni soggettive delle parti con particolare riferimento alla gravità del fatto lesivo.
3. Con un terzo motivo denuncia: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. – illegittimità della sentenza nella parte in cui ha compensato le spese del giudizio di legittimità”. Lamenta che nell’impugnata sentenza, non solo non è stato preso in considerazione il parziale accoglimento del precedente proprio ricorso per cassazione, con conseguente rinvio alla Corte di appello, ma non è stato altresì preso in considerazione, ai fini della liquidazione e della quantificazione delle spese legali del giudizio di legittimità, neppure il non accoglimento dell’intero controricorso in cassazione presentato dalla A.T.M., non applicando la soccombenza ex art. 91 c.p.c. nei confronti della A.T.M.
Quest’ultima doveva, pertanto, essere condannata a rifondere al ricorrente anche le spese del pregresso giudizio di legittimità, ai sensi del D.M. n. 55/2014.
4. Il primo motivo è privo di fondamento.
4.1. Tale censura presenta profili d’inammissibilità per la parte in cui vi si lamenta un’ “erronea ricognizione della fattispecie contestata al lavoratore”, il che all’evidenza si pone al di fuori del perimetro dell’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, ossia, dell’unica norma della quale il ricorrente denuncia la violazione.
Il primo motivo, infatti, pur non essendo stato per la verità specificato, dev’essere ricondotto al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.
Per vero, la gran parte delle deduzioni del ricorrente attiene piuttosto, non alla violazione di norme di diritto, e, segnatamente, dell’art. 18, comma 4, cit., ma a quanto i giudici del rinvio hanno ritenuto contestato al lavoratore e poi già provato.
4.2. Più in particolare, la Corte del rinvio, nella sua narrativa, ha dato conto che la sentenza resa in sede di reclamo, poi, cassata da questa Corte sotto lo specifico profilo sopra riferito, aveva “considerato che nella specie l’addebito rivolto all’A. non era propriamente quello inteso dal Tribunale dal momento che, con la lettera del 2.2.2014, non era stata ascritta al lavoratore la commissione di un furto consumato o tentato, ma gli era stato piuttosto contestato un episodio che vedeva origine in una condotta (invero di tipo preliminare rispetto a quella ritenuta e vagliata dal Tribunale) fondatamente consistente in un’inspiegabile ed equivoca sua uscita da una pertinenza aziendale a bordo di un automezzo per recarsi in una strada laterale dove il dipendente aveva prelevato dal bagagliaio di un’auto in sosta, risultata poi di proprietà di tale sig. P. (collega dell’incolpato, che aveva poi confermato all’Azienda di aver partecipato al furto che era in programma), una tanica contenente tracce di gasolio, poi indebitamente collocata all’interno dell’Azienda in mezzo ad altri fusti contenenti detersivi e lì rinvenuta dalla datrice di lavoro, esattamente presso il deposito di cui il giorno del fatto era uscito il lavoratore, in mezzo alle altre taniche, talune delle quali colme di quel tipo di carburante”.
I giudici del rinvio hanno, poi, ritenuto che questa Corte di legittimità “non ha censurato la ricostruzione operata dal Collegio milanese”.
Diversamente, poi, da quanto opinato dal ricorrente, la stessa Corte, in sede di rinvio, non ha attribuito alla precedente sentenza di secondo grado una qualificazione dei fatti suddetti diversa da quella effettivamente operata.
Piuttosto, come già premesso, ha constatato che la Corte territoriale in precedenza aveva “ben acclarato e dichiarato che nel caso di specie l’A., conformemente all’esatto tenore della contestazione rivoltagli (con l’esposizione del fatto nei suoi estremi oggettivi), non fosse incorso in una fattispecie di furto anche solo a livello di tentativo, ma avesse invece compiuto, tramite il suo temporaneo allontanamento dal deposito aziendale giustificato solo dalla realizzazione delle operazioni sopra descritte in pieno contrasto con gli interessi della datrice di lavoro, un insieme di atti semplicemente preparatori di quel tipo di reato contro il patrimonio, arrestatisi a quella soglia – puramente preparatoria, appunto – in modo tale da non potersi scorgere nella vicenda (neanche) i canonici estremi del tentativo”.
4.3. Obietta ora il ricorrente che la Corte d’appello, in sede di reclamo, dopo aver escluso sia un furto che un tentativo di furto, aveva ritenuto che: “Sono stati invece ampiamente dimostrati i fatti di grave inadempimento contestati, vale a dire l’utilizzo del radiobus aziendale per la accertata movimentazione di una tanica fra l’autovettura del capo operatore P. e, in precedenza, per scopi meramente personali, nonché l’anomala e ammessa movimentazione di taniche che avrebbero dovuto contenere i detergenti e la conoscenza da parte del sig. A. dell’esistenza di taniche piene di gasolio insieme alle taniche contenenti detergenti”.
Ma, a prescindere dal rilievo che detto accertamento non differisce da quello più analiticamente riportato dai giudici di rinvio (a termini di contestazione disciplinare), il ricorrente non considera che la Corte del rinvio ha alla fine osservato che “il fatto commesso dal lavoratore, pur sostanziandosi in un grave inadempimento degli obblighi di correttezza, non aveva una portata tale da poter essere represso con la destituzione dal momento che esso si collocava – per così dire – appena “un gradino sotto” il tentato furto (cui testualmente si riferisce l’art. 45 c. 1 n. 4 del R.D. n. 148/1931)” (così a pag. 8 dell’impugnata sentenza).
Dunque, come peraltro si evince da altri passi della sua motivazione (v. infra), anche la Corte del rinvio aveva ricondotto la complessiva condotta contestata al lavoratore, come accertata, al terreno di un “grave inadempimento”.
4.4. In parte qua, perciò, il primo motivo è inammissibile anzitutto perché non vi si denuncia un vizio di sussunzione rispetto alla previsione di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, novellato, ma anche per difetto di specificità in termini di pertinenza rispetto a quanto effettivamente considerato dai giudici in sede di rinvio.
5. La seconda parte in cui si articola la censura, ossia, quella in cui si assume sempre la violazione dell’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, ma perché la Corte territoriale avrebbe omesso una “interpretazione estensiva delle clausole della contrattazione collettiva”, è invece infondata nel merito.
5.1. E’ pur vero che questa Corte di recente ha chiarito in precipuo principio di diritto che: “In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo” (così Cass. civ., sez. lav., sent. 11.4.2022, n. 11665).
E con particolare riferimento al caso che ci occupa, in cui trova applicazione in subjecta materia il r.d. n. 148/1931, nella precedente sent. n. 32500/2018, come riferito in narrativa, era stato già chiarito che il contratto collettivo degli autoferrotranvieri in illo tempore era stato recepito dal cit. r.d.
5.2. L’impugnata sentenza, tuttavia, si sottrae ad ogni censura anche rispetto al su riportato principio di diritto.
Innanzitutto, la Corte distrettuale ha, questa volta, dato estesamente conto delle previsioni che venivano in considerazione, contenute nel Titolo VI, in tema di “Disposizioni disciplinari”, del cit. R.D. n. 148/1931 (cfr. pagg. 4-7 della sua sentenza), ed ha, poi, svolto altrettanto diffuse considerazioni per spiegare “l’impossibilità di sussumere le connotazioni pratiche del fatto – della cui gravità si è occupata l’altra pronuncia di questa Corte non cassata per questo motivo – in alcuno dei casi considerati dalle norme degli artt. da 40 a 44 del RD 148/1931” (cfr. in extenso pagg. 7-8 della stessa sentenza).
5.3. Come si è accennato, il ricorrente propone di ricondurre i fatti addebitatigli o all’ipotesi di cui all’art. 42, n. 10) o a quella di cui all’art. 42, n. 16), R.D. n. 148/1931.
Ora, a prescindere dal rilievo che la stessa alternatività di differenti ipotesi prospettata già pone in forse l’avanzata proposta ermeneutica, il ricorrente neppure specifica la chiave di una possibile interpretazione estensiva di tali previsioni (o di una di esse), interpretazione che per giunta denomina anche “analogica” (cfr. fine di pag. 14 del ricorso).
In ogni caso, l’ipotesi di “mancanze da cui siano derivate irregolarità nell’esercizio o da cui avrebbe potuto derivare danno alla sicurezza dell’esercizio”, sub n. 16) dell’art. 42 cit., anche nella sua più lata considerazione, facendo riferimento comunque a “mancanze” attinenti all’“esercizio”, è all’evidenza aliena da ciò che fu contestato e poi ritenuto provato a carico dell’A..
Quanto, poi, all’ipotesi sub n. 10) dello stesso art. 42, pure evocata dall’impugnante, la norma recita: “per volontario inadempimento dei doveri di ufficio o per negligenza, la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell’azienda”.
Ebbene, al lavoratore non era affatto addebitata una condotta negligente, vale a dire, di natura colposa sotto forma appunto di negligenza, sicché neppure può venire in considerazione la specificazione seguente: “la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell’azienda” (che si riferisce solo al caso di “negligenza”).
Circa, poi, il “volontario inadempimento dei doveri di ufficio”, l’ipotesi è sì riferibile a comportamenti di carattere doloso, ma specificamente integranti “inadempimenti” “dei doveri di ufficio”, vale a dire, a condotte dovute per l’ufficio ricoperto e che, se non tenute volontariamente, infatti, configurano inadempimento.
In entrambi i casi richiamati dal ricorrente, infine, difetta completamente un elemento letterale leggibile anche estensivamente in termini di gravità (magari con l’uso di aggettivi quali “notevole”, “ingente”, “rilevante”, riferiti alle condotte considerate in tali previsioni).
5.4. Per contro, la Corte territoriale, in sede di rinvio, come già rilevato, ha riassuntivamente riscontrato alla fine nel fatto commesso dal lavoratore “un grave inadempimento degli obblighi di correttezza”, e non di specifici “doveri di ufficio”.
In tal senso, aveva in precedenza considerato che: “In rapporto al disvalore del contegno tenuto dal dipendente assecondando finalità senz’altro equivoche e, nel loro generale contesto attuativo, assai sospette (di fronte all’univocità si sarebbe infatti trattato del tentativo di compiere il reato contro il patrimonio in questione), per la portata di allarme che esse ingeneravano nel contesto aziendale di appartenenza, non poteva dirsi esclusa una loro incidenza sulla perfetta integrità dell’elemento fiduciario alla base della relazione lavorativa pur senza comprometterlo”.
Aveva, altresì, considerato che l’azione dell’incolpato “non rientrava neppure in quelle catene di ipotesi, conducenti all’applicazione di una sanzione di tipo conservativo, di tipologia e consistenza esattamente pari ad una di quelle dianzi ricordate trattando delle previsioni degli artt. da 40 a 44 del RD 148/1931, se non altro per la peculiarità della condotta del lavoratore in tutti i suoi risvolti pratico attuativi anche per come contrassegnati da circostanze ambientali e temporali che rimarcavano i tratti di una pratica occulta e affatto lineare o giustificabile”.
Incensurabilmente, perciò, la Corte milanese ha ritenuto che: “In nessuna parte di quell’articolato è infatti possibile cogliere un nesso valevole anche solo ad assimilare quel che aveva compiuto il lavoratore coi campi fattuali di operatività delle sanzioni conservative ivi enumerate, con ciò smentendosi il fondamento della tesi propugnata dall’appellante in riassunzione”.
La stessa Corte, pertanto, fedele a quanto statuito nella decisione che aveva cassato con rinvio la precedente sentenza resa in sede di reclamo, e tenendo conto che l’A. in sede di riassunzione, “consapevole del problema messo in luce dalla sentenza della Cassazione”, svolgeva “una serie di argomentazioni tendenti alla riconduzione del fatto contestato al novero dei casi punibili con una semplice sanzione conservativa secondo la fonte regolatrice”, si è posta anche il problema di tentare una lata riconduzione dei fatti accertati a ipotesi sanzionatorie disciplinate nel R.D. n. 148/1931, ma conservative; e però ha fondatamente ha dato risposta negativa a riguardo.
Ha, infatti, conclusivamente osservato che “nella specie non appare nemmeno conferente rifarsi alla casistica delle condotte annoverate come foriere di pregiudizi patrimoniali o idonee a concreare forma di pericolo alle persone e/o alle cose per come menzionate in seno all’art. 44 della fonte del 1931 dal momento che da nessuna di queste ultime è desumibile la traccia stigmatizzante di atti preordinati – senza raggiungere la soglia del tentativo – alla commissione di un furto o altro reato contro il patrimonio”.
6. Il secondo motivo è invece fondato nei termini qui di seguito illustrati.
6.1. Esso erroneamente fa riferimento al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. (che riguarda l’ “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”); tuttavia già nella rubrica si lamenta l’ “assenza di motivazione … per la quantificazione dell’indennità risarcitoria”, e nello sviluppo della censura, si fa chiaro riferimento all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, novellato, ed ai dati che in esso sono menzionati per quantificare l’indennità risarcitoria omnicomprensiva.
6.2. Ebbene, il comma 5 dell’art. 18 ora cit. impone esplicitamente al giudice del merito che applichi la relativa tutela indennitaria c.d. forte un “onere di specifica motivazione a tale riguardo”, vale a dire, “in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”. E la Corte del rinvio, in effetti, ha omesso qualsivoglia motivazione su questo punto, men che meno riferita agli indici da considerare ai fini della quantificazione dell’indennità risarcitoria (cfr. in particolare l’ultima facciata della sua decisione). Inoltre, siccome in sede di rinvio, e per effetto della precedente sentenza di cassazione, era rimasta ancora sub iudice anzitutto la questione della tutela da applicare nel caso di specie, a riguardo non si era formato alcun giudicato interno né si era avverata qualsiasi preclusione, perché soltanto una volta confermata la tutela solo indennitaria il giudice del rinvio era tenuto a motivare in modo specifico la determinazione del numero di mensilità, non potendosi limitare, senza alcuna motivazione, a ribadire la misura di 14 mensilità, decisa nella sentenza di reclamo cassata in precedenza. Peraltro, nella motivazione della sua sentenza a riguardo neppure è contenuta alcuna relatio alla precedente sentenza, e l’indicazione delle 14 mensilità compare soltanto nel dispositivo della decisione qui gravata.
7. Resta assorbito il terzo motivo di ricorso, che concerne il regolamento delle spese processuali operato dalla Corte di rinvio, regolamento che dovrà comunque essere completamente di nuovo eseguito per effetto della presente decisione di cassazione con rinvio.
8. Pertanto, rigettato il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il terzo, la sentenza dev’essere cassata per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, con rinvio alla Corte territoriale, la quale, in differente composizione, ferma restando la già acclarata tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, novellato, dovrà rivedere la quantificazione dell’indennità risarcitoria omnicomprensiva da accordare al lavoratore, specificamente motivandola in relazione agli indici in tale norma riportati.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo e dichiarato assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.