Corte di Cassazione sentenza n. 6596 depositata il 16 marzo 2018
BLOCCO DELLO STABILIMENTO – DOMANDA DI CASSA INTEGRAZIONE – ESITO NEGATIVO – NON SUSSISTE
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 5802/2012, depositata il 29 novembre 2012, la Corte di appello di Napoli confermava la pronuncia di primo grado, che aveva respinto il ricorso di B.D. e altri dipendenti di Plastic Components and Modules Automotive S.p.A. diretto all’accertamento del diritto alla retribuzione per il periodo (dal 19/6 al 23/6/2006) di sospensione delle attività unilateralmente disposta dal datore di lavoro.
2. La Corte rilevava come in tali giorni si fosse verificato, nel corso di agitazioni sindacali, un blocco dei cancelli ai varchi di accesso allo stabilimento, tale da determinare un impedimento totale per l’ingresso dei materiali e per l’uscita dei prodotti lavorati e da risultare causa di impossibilità della prestazione lavorativa non imputabile al datore di lavoro, il quale, di conseguenza, era da ritenersi esonerato dall’adempimento dell’obbligo retributivo; rilevava, d’altra parte, come la società, con l’intesa raggiunta il 13/7/2006 con i sindacati, si fosse semplicemente impegnata a chiedere il trattamento di CIGO, per i giorni dal 19 al 23 giugno 2006, come emergeva dal chiaro tenore letterale dello stesso, senza assunzione di alcun obbligo di corrispondere il trattamento retributivo in caso di esito negativo della pratica.
3. Hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza, con unico motivo, B.D., B.A., D.L.A. e N.N.A..
4. La società ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo proposto i lavoratori ricorrenti deducono la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione all’art. 1362 c.c., sul rilievo che la Corte aveva operato una lettura “estensiva” dell’accordo del 13 luglio 2006, tra l’impresa e le organizzazioni sindacali, quando invece una interpretazione letterale dello stesso avrebbe dovuto condurla a ritenere che il datore di lavoro si era obbligato a corrispondere il trattamento retributivo per le giornate di blocco, nel caso in cui la sospensione dell’attività produttiva non fosse stata valutata dall’INPS come idonea a giustificare la concessione della CIGO.
2. Il ricorso non può essere accolto.
3. La Corte di merito, dopo avere rilevato che nei giorni dal 19 al 23 giugno 2006 si era verificato “un impedimento totale” all’ingresso dei materiali e all’uscita della merce per effetto del blocco dei cancelli ai varchi di accesso allo stabilimento (e cioè si era verificato un “avvenimento esterno”, come tale non imputabile al datore di lavoro, che aveva “oggettivamente impedito lo svolgimento dell’attività produttiva”), ha osservato come “il tenore letterale dell’accordo, chiaro ed inequivoco” non potesse prestarsi ad una lettura “estensiva, non avendo” l’azienda “assunto alcun tipo di impegno per il caso di esito negativo della pratica”, diversamente da quanto affermato dai lavoratori ricorrenti che avevano ritenuto di poter desumere dal contenuto dell’accordo l’obbligo ulteriore (rispetto all’impegno a richiedere la CIGO) di pagare la retribuzione per le giornate di sospensione dell’attività.
4. Come più volte precisato da questa Corte, con orientamento risalente e consolidato, la parte che intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nella interpretazione di un contratto da parte del giudice di merito “non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., ma deve specificare i canoni in concreto violati ed il punto ed il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato perché in caso diverso la critica della ricostruzione della volontà contrattuale operata dal giudice e la proposta di una diversa interpretazione investe il merito delle valutazioni del giudice ed è, perciò, inammissibile in sede di legittimità” (cfr., fra le molte, Cass. n. 7641/1994).
5. È stato altresì più di recente precisato che “l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonché, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorché la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione deve essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (Cass. n. 4178/2007).
6. A tali criteri non risulta che i lavoratori ricorrenti si siano attenuti, nella formulazione delle ragioni di censura, a fronte di sentenza che – esaminato il testo dell’accordo – ne ha valorizzato proprio il dato letterale, pervenendo alla statuizione di rigetto attraverso un percorso motivazionale adeguato e coerente (cfr. sentenza, p. 4, secondo capoverso).
7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13 comma 1 bis.
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