La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 25729 depositata il 15 novembre 2013 intervenendo in tema di demansionamento e relativo danno ha statuito che nei casi di demansionamento, il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente. Inoltre ha precisato che è da considerarsi pienamente legittima la liquidazione equitativa del risarcimento del danno biologico e alla professionalità disposta a carico dell’impresa a favore del dipendente demansionato (da ispettore a mero addetto alle vendite), che pur ha conservato l’inquadramento formale.
La vicenda ha riguardato un dipendente di una società che era stato trasferito ad altra sede e che pur mantenendo lo stesso livello retributivo gli venivano assegnate funzioni meramente esecutive. Il dipendente per tale circostanza adì al Tribunale, in veste di giudice del lavoro, per il riconoscimento del demansionamento ed il conseguenziale riconoscimento del danno subito. Il giudice del lavoro accolse la domanda del ricorrente riconoscendo a favore del dipendente il danno alla professionalità e quello biologico in conseguenza del demansionamento patito e condannando la società datrice di lavoro al pagamento del danno. La società impugnò la sentenza del giudice di prime cure inanzi alla Corte di Appello. I giudici territoriali confermarono la sentenza di primo grado , riducendo il relativo importo in misura pari al 50% delle retribuzioni previste per i dipendenti di I livello dal novembre 1998 fino a quando il lavoratore non fosse stato adibito a mansioni corrispondenti alla suddetta qualifica.
La società per la cassazione della sentenza del giudice di merito ha propose ricorso, basato su cinque motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettano il ricorso del datore di lavoro. In particolare i giudici di legittimità, nel ritenere corretto l’operato della Corte Territoriale, hanno evidenziato che in base all’orientamento della Corte di Cassazione, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 6572/2006; 4063/2010).
Nel caso di specie, i giudici del Palazzaccio hanno affermato che la dequalificazione del lavoratore, avvenuta senza il suo consenso, comporta un risarcimento pari al 50% della retribuzione lorda per tutto il periodo di demansionamento, a ristoro della lesione alla salute e della perdita di chance lavorative.
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