La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2338 depositata il 24 gennaio 2024, intervenendo in tema di nullità dei negozi giuridici, ha statuito che “… in tema di nullità negoziali questa Corte ha affermato che la rilevabilità d’ufficio si estende anche a quelle c.d. di protezione, in quanto configurabili, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza eurounitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 4/06/2009, in causa C-243/08, Pannon), come una species del più ampio genus rappresentato dalle prime, risultando le stesse volte a tutelare interessi e valori fondamentali che trascendono quelli del singolo, quali il corretto funzionamento del mercato e l’uguaglianza non solo formale tra contraenti in posizione asimmetrica (cfr. Cass., Sez. Un., 12/12/2014, n. 24242 e 26243). Tale principio è stato ritenuto applicabile anche ai contratti bancari, in relazione ai quali è stato affermato che la nullità prevista dall’art. 117, commi primo e terzo, del d.lgs. n. 385 del 1993 per l’ipotesi in cui il contratto non sia stato stipulato in forma scritta si configura come una nullità di protezione, rilevabile anche d’ufficio, stante l’inequivocabile disposto dell’art. 127, comma secondo, del d.lgs. n. 385 cit. (cfr. Cass., Sez. I, 6/09/2019, n. 22385). E’ stato tuttavia precisato che, caratterizzandosi le nullità di protezione «per una precipua natura ancipite, siccome funzionali nel contempo alla tutela di un interesse tanto generale (l’integrità e l’efficienza del mercato, secondo l’insegnamento della giurisprudenza europea) quanto particolare/seriale (quello di cui risulta esponenziale la classe dei consumatori o dei clienti)», la rilevazione officiosa delle stesse, in mancanza della quale risulterebbe frustrata o comunque sminuita la funzione di tutela del bene primario consistente nella deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole, incontra il limite della conformità del rilievo «al solo interesse del contraente debole, ovvero del soggetto legittimato a proporre l’azione di nullità, in tal modo evitando che la controparte possa, se vi abbia interesse, sollecitare i poteri officiosi del giudice per un interesse suo proprio, destinato a rimanere fuori dall’orbita della tutela» (cfr. Cass., Sez. Un., 12/12/2014, n. 26242). …”
La vicenda ha riguardato una società correntista ed i suoi soci che convennero in giudizio la Banca, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo con cui il Tribunale aveva intimato alla prima, in qualità di debitrice principale, ed agli altri, in qualità di fideiussori, il pagamento a titolo di saldo debitore di un conto corrente, restituzione dell’importo di una fattura anticipata salvo buon fine e tornata insoluta, e rimborso di un mutuo. Gli attori dedussero l’erroneità del calcolo degl’interessi, l’illegittimità dell’addebito della commissione di massimo scoperto e la violazione dell’art. 118 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e degli obblighi di buona fede gravanti sulla Banca nell’esecuzione del contratto, chiedendo, in via riconvenzionale, la restituzione delle somme illegittimamente addebitate o riscosse, oltre al risarcimento del danno. Il Tribunale di Modena accolse parzialmente l’opposizione. Avverso la decisione dei giudici di prime cure gli attori proposero appello. La Corte territoriale rigettava l’opposizione sulla circostanza che l’onere di fornire la relativa prova grava sul correntista che agisce in ripetizione, ed evidenziava che dai documenti prodotti e dagli accertamenti compiuti dal c.t.u. risultava l’insussistenza di un affidamento ed escludeva la possibilità di fornire la prova di affidamento di fatto, in mancanza del contratto, dichiarando pertanto prescritto il diritto alla restituzione. Avverso la sentenza di appello veniva proposto ricorso in cassazione fondato su tre motivi.
I giudici di legittimità accolgono il primo motivo di ricorso, dichiarano assorbiti gli altri motivi, cassano la sentenza impugnata.
Per i giudici di piazza Cavour ha errato la Corte di Appello “… nella parte in cui, ai fini dell’esclusione della natura ripristinatoria delle rimesse affluite sul conto corrente intrattenuto dalla T.M. con la BPER, ha ritenuto insussistente una apertura di credito, per il solo fatto che gli opponenti non avevano fornito la prova della stipulazione del contratto in forma scritta, affermandone la nullità, per difetto del requisito di cui all’art. 117, comma primo, del d.lgs. n. 385 del 1993, senza considerare che la rilevazione di tale vizio, nel caso specifico, non corrispondeva all’interesse della correntista e dei fideiussori, ai quali restava in tal modo precluso l’accoglimento della domanda riconvenzionale: la insussistenza di un affidamento, imponendo di attribuire natura solutoria a tutti i versamenti effettuati sul conto corrente nel corso del rapporto, comportava infatti, conformemente all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. Un., 2/12/2010, n. 24418; Cass., Sez. I, 26/09/2019, n. 24051; 24/03/2014, n. 6857), la necessità di ancorare la decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione alla data di effettuazione dei singoli addebiti, anziché a quella (più recente) di chiusura del conto, in tal modo impedendo alla correntista ed ai fideiussori di ottenere la restituzione degl’importi illegittimamente addebitati o corrisposti in epoca anteriore al decennio che aveva preceduto la proposizione della domanda. …”
Pertanto la decisione in commento statuisce che il correntista può dimostrare l’affidamento, con fatti concludenti, anche producendo gli estratti conto o i riassunti scalari, dai quali emerge che la banca ha adempiuto ordini di pagamento anche in assenza di provvista; altrettanto vale per le risultanze del libro fidi e la segnalazione alla Centrale rischi di Bankitalia se emerge l’esistenza di un accordo sull’affidamento.
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