La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 20716 del 10 settembre 2013 intervenendo in tema di demansionamento ha chiarito che nel caso in cui nel passaggio di dipendenti da un’azienda ad un’altra si verifichi un demansionamento professionale sussiste la responsabilità solidale: entrambe le azienda sono, pertanto, tenute a risarcire il danno subito dai lavoratori.
Nel caso di specie, nell’ambito di una cessione di ramo d’azienda, i lavoratori erano passati dal settore produzione all’attività di pulizia. Il danno è stato quantificato nella misura del 30% della retribuzione. Secondo la Corte il diritto al risarcimento genera un credito suscettibile di essere fatto valere in via solidale nei confronti dell’azienda cessionaria.
Gli Ermellini rigettando il ricorso principale e quello incidentale hanno evidenziato che “problema di equivalenza si pone solitamente tra mansioni appartenenti al medesimo livello di inquadramento ed in ogni caso la valutazione comparativa attiene ad un accertamento di merito non denunziaste in sede di legittimità se non in relazione a incongruenze e palesi vizi logici dell’iter argomentativo seguito. La Corte del merito ha fatto corretta applicazione del principio di diritto, atteso che la equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell’esercizio dello “ius variandi”, a norma dell’art. 2103 cod. ctv. – e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in cassazione, ove sorretto da una motivazione logica, coerente e completa – va verificata sia sul piano oggettivo, e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due mansioni siano professionalmente affini, nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità professionali già acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi. (Cfr. 8.6.2009 n. 13173, Cass. 23.3,2005 n. 6326). “
Inoltre i giudici di legittimità hanno confermato che “in tema di demansionamento e relativo onere probatorio, il lavoratore può reagire al potere direttivo che assume esercitato illegittimamente prospettando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia e, quindi, con un onere di allegazione di elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio, mentre il datore di lavoro, convenuto in giudizio, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegarne altri, indicativi, per converso, del legittimo esercizio del potere direttivo (v. Cass. 4766/2006, s. u. 5454/2009). L’imprenditore ha l’onere di provare l’adempimento dell’obbligazione posta a suo carico, rispetto alla lesione prospettata dal lavoratore.”
In merito alla prova del danno da demansionamento la Corte Suprema evidenzia che “proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore” e quest’ultimo deve in primo luogo precisare quali danni ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergerne la prova. E’ stato evidenziato che “non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art. 421 cod. proc. civ. – non può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto” ( in senso conforme, v. Cass. 19.12.2008 n. 29832, Cass. 17.9.2010 n. 19785).”
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