CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 agosto 2013, n. 19751
Accertamento Iva – Controversia – Polizza fideiussoria prestata dal contribuente – Annullamento dell’accertamento con sentenza passata in giudicato – Diritto del contribuente al rimborso dei costi delle polizze – Sussistenza – Mancanza del regolamento ministeriale di attuazione – Irrilevanza – Devoluzione della causa al giudice tributario – Motivi
Svolgimento del processo
Con sentenza 26.1.2011 n. 4 la Commissione tributaria della regione Veneto ha rigettato l’appello dell’Ufficio di Castelfranco Veneto della Agenzia delle Entrate e confermato la pronuncia di primo grado con la quale l’ente impostore veniva condannato alla restituzione in favore di A.I. s.r.l. della somma di € 48.211,00 – oltre interessi – pari al costo delle polizze fidejussorie sostenuto dalla società, ai sensi dell’art. 38 bis comma 6 Dpr n. 633/1972, per evitare la restituzione delle somme rimborsate a titolo IVA per gli anni 2001 e 2002 in attesa della definizione del giudizio avente ad oggetto la impugnazione dell’avviso di accertamento notificato successivamente all’eseguito rimborso.
I Giudici territoriali affermavano la propria giurisdizione dovendo ricondursi la pretesa restitutorie della società nella materia devoluta alle Commissione tributarie dall’art. 2 Dlgs n. 546/21992, trattandosi di credito – “accessorio” al rapporto tributario, e non potendosi ritenere ostativa alla restituzione del costo delle polizze fidejussorie la assenza del regolamento attuativo di cui all’art. 8 comma 6 legge n. 212/2000.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate insistendo nel difetto di giurisdizione e contestando il diritto alla restituzione ed alla compensazione del credito.
Ha resistito con controricorso la società che ha depositato anche memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. II primo motivo con il quale Agenzia deduce la carenza di giurisdizione del Giudice tributario ed impugna la sentenza per violazione degli art. 2 e 19 Dlgs n. 546/1992, in relazione all’art. 360 co 1 nn. 1 e 3 c.p.c. è infondato.
1.1 Occorre premettere che la indicazione contestuale in rubrica, ai fini della eccepita questione di giurisdizione, delle norme di cui all’art. 2 – che definisce l’ambito della materia devoluta alla giurisdizione dei Giudici tributari – e dell’art. 19 – che, invece, individua i provvedimenti impugnabili della Amministrazione finanziaria, deve ritenersi affetta da imprecisione concettuale, atteso che “l’ambito della potestas judicandi non trova il suo referente normativo nell’art. 19 ma nell’art. 2 dello stesso Decreto Legislativo, per il primo comma (prima proposizione) secondo il quale (nel testo applicabile alla specie ratione temporis introdotto con l’art. 12 della legge 28 dicembre 2001 n. 448) “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversia aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie…nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio”. L’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19, invero, non è idoneo ,di per sé, a delimitare la giurisdizione del giudice tributario in quanto gli stessi non sono tutti, né necessariamente, atti tipicamente fiscali: essi infatti, come chiarito da queste sezioni unite (sentenza 11 febbraio 2008 n. 3171) sono “atti neutri”perché “utilizzabili a sostegno di qualsiasi pretesa patrimoniale (tributaria o no) della mano pubblica”. Di conseguenza, per il riparto della giurisdizione, è rilevante unicamente il titolo giuridico della “pretesa patrimoniale” e non già l’atto che la contiene: l’inclusione di un atto nell’elenco dell’art. 19, pertanto, è indice della sua impugnabilità (per la tutela del diritto ritenuto violato dall ‘interessato) davanti al giudice tributario e non già della giurisdizione di questo” (cfr. Corte cass. SU 8.10.2008 n. 24775, in motivazione).
1.2 Tanto premesso la tesi della Agenzia secondo cui, essendosi concluso favorevolmente alla contribuente, con sentenza di annullamento, passata in giudicato, dell’avviso di accertamento IVA notificato ai sensi dell’art. 38 bis comma 6 Dpr n. 633/1972, il diritto della società alla restituzione dei costi delle polizze fidejussorie rilasciate per evitare in attesa dell’indicato giudizio la immediata restituzione delle somme già ricevute a rimborso avrebbe perso ogni collegamento con la controversia tributaria non può essere condivisa, tanto in considerazione del sistema normativo in cui la prestazione della garanzia si inserisce (l’art. 38 bis comma 6 Dpr n. 633/1972 è volto ad assicurare la eventuale maggiore pretesa tributaria accertata dalla PA in ordine al medesimo periodo di imposta in cui si è formato il credito di rimborso, ovvero ad attuare il diritto potestativo della Amministrazione finanziaria – in seguito alla notifica di avviso di accertamento o di rettifica, relativo ad altre annualità d’imposta, sopravvenuta alla avvenuta erogazione del rimborso IVA richiesto dal medesimo contribuente ai sensi dell’art. 30 Dpr n. 633/1972 – alla immediata compensazione del proprio credito tributario – anche se contestato – con quello al rimborso fatto valere dal contribuente – in tal senso pare doversi argomentare dalla espressione secondo cui il contribuente “deve versare all’ufficio le somme che in base all’avviso stesso risultano indebitamente rimborsate”; il sistema è completato dalla espressa previsione legislativa dell’art. 8 comma 4 legge 27.7.2000 n. 212 – in vigore dall’1.8.2000 – che, in applicazione del principio secondo cui non possono gravare sul contribuente che ha ragione le spese dallo stesso sostenute a favore della Amministrazione finanziaria a garanzia di pretese tributarie risultate inesistenti, ha disposto l’obbligo a carico della PA del rimborso del costo delle fidejussioni che il contribuente “ha dovuto richiedere per ottenere la sospensione del pagamento, o la rateizzazione o il rimborso dei tributi”), essendo destinata ad assicurare il credito tributario “successivamente” accertato dall’Erario, quanto in considerazione della giurisprudenza di questa Corte – concernente il rimborso di imposte indebite – secondo cui va ravvisata la giurisdizione del Giudice tributario in ordine al diritto alla restituzione di somme ritenute indebite, tutte le volte in cui le stesse “siano state versate per uno dei titoli indicati nell’art. 2 d.lgs n. 546 del 1992…in mancanza del riconoscimento da parte dell’amministrazione dell’obbligo di rimborso e dell’entità dello stesso, non potendosi ritenere tale mancanza superata dalla suddetta sentenza di annullamento [ndr, dell’avviso di accertamento], che costituisce solo titolo per fondare la pretesa di restituzione e non già titolo giudiziario per ottenerla” (cfr. Corte cass. SU Sentenza «. 24774 del 08/10/2008; id. SU Ordinanza n. 21893 del 15/10/2009 secondo cui il giudicato di annullamento dell’atto impositivo non integra il presupposto della giurisdizione ordinaria che si verifica esclusivamente nel caso in cui “l’Amministrazione abbia formalmente riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, sicché non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il “quantum” del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato”; id. SU Sentenza n. 25931 del 05/12/2011).
1.3 La giurisdizione tributaria in materia di rimborso dei costi sostenuti dal contribuente per la prestazione delle garanzie richieste dalla disciplina normativa sui rimborsi dei credito d’imposta è stata esplicitamente affermata da questa Corte a SS.UU. con la sentenza 16.6.2010 n. 14499 che ha esaminato il caso in cui il contribuente, conseguito l’annullamento dell’avviso di accertamento con il quale veniva preteso un maggior debito IRPEF con corrispondente recupero del credito d’imposta (relativo all’anno 1992), aveva quindi agito, con separata domanda, per ottenere la condanna della PA al pagamento degli interessi di mora sul predetto credito d’imposta (che era stato rimborsato in ritardo), del risarcimento del maggior danno ex art. 1224 co 2 c.c., nonché la refusione dell’importo pagato per la prestazione di una cauzione senza la quale non gli sarebbe stato effettuato il rimborso di altro credito d’imposta relativo al diverso anno d’imposta 1994. La Corte ha dichiarato la giurisdizione tributaria statuendo che “in base al principio della concentrazione della tutela le Commissioni Tributarie possono riconoscere al contribuente non soltanto il rimborso delle imposte indebitamente versate, ma pure gli accessori come gli interessi ovvero il maggior danno o l’importo eventualmente pagato per la prestazioni di cauzioni non dovute”.
Erra del tutto, quindi, la Agenzia fiscale laddove sostiene che nel caso di specie – a differenza di quello esaminato dalle SSUU – non vi è contestazione sul tributo in seguito ad annullamento dell’avviso di accertamento IVA successivamente notificato alla società. Se da un lato, come si è visto, il giudicato di annullamento relativo all’atto impositivo non preclude, infatti, al Giudice tributario di pronunciare sulla restituzione dell’indebito, dall’altro, nella presente causa, è proprio il diritto al rimborso del costo indebitamente sostenuto dalla società per le polizze fidejussorie che è attualmente in contestazione, rimanendo quindi escluso lo stesso presupposto (riconoscimento del credito vantato dal contribuente) al quale la giurisprudenza della Corte riconduce il veni meno della “accessorietà” tra la pretesa patrimoniale e la “materia tributaria” controversa.
Del tutto inconferente deve ritenersi, poi, la invocazione del precedente di Corte cass. SU 16.4.2007 n. 8958 (concernente domanda di risarcimento del danno per le spese sostenute dal contribuente per iscrizione ipotecaria) che analogamente ad altre ipotesi esaminate da Sex. U, Sentenza n. 10826 del 29/04/2008 (risarcimento delle somme esborsate dal contribuente a titolo di spese legali) e da Sez. U, Ordinanza n. 20323 del 20/11/2012 (risarcimento del danno subito dal contribuente per mancato tempestivo adeguamento a direttiva comunitaria), atteso che le domande risarcitorie risultano tutte fondate nei predetti casi sulla contestazione della condotta illecita della Amministrazione finanziaria, e dunque concernenti obbligazioni patrimoniali fondate sul generale principio del “neminem laedere” ex art. 2043 c.c. ovvero sull’inadempimento ex contractu cui viene assimilata la violazione della corretta trasposizione della direttive comunitarie, mentre nel caso che occupa il presente giudizio la pretesa di rimborso non trova fondamento in un illecito (condotta della PA “non jure e contra jus”) sibbene in un atto amministrativo lecito (esercizio dell’attività di accertamento tributario), rispondendo l’onere di prestazione della garanzia, stabilito dalla legge a carico del contribuente, al principio di adeguatezza e proporzionalità rispetto all’interesse erariale che l’art. 38 bis comma 6 Dpr n. 633/1972 intende proteggere, e corrispondentemente ai medesimi principi assolve l’obbligo di rimborso del costo della garanzia qualora l’interesse erariale venga meno (in conseguenza del definitivo accertamento negativo, totale o parziale, della pretesa tributaria) dovendo in tal caso essere reintegrato il contribuente – quanto alle spese sostenute per detta garanzia – nella situazione patrimoniale ex ante. A differenza delle ipotesi di illecito civile sopra indicate, pertanto, il rimborso dei costi per le polizze fidejussorie trova specifico ed esclusivo fondamento nella previsione di legge di cui all’art. 8 comma 4 della legge n. 212/2000 che prescrive tale obbligo alla PA in relazione al solo dato oggettivo dell’accertamento della inesistenza della imposta o maggiore imposta richiesta al contribuente, rimanendo esclusa qualsiasi rilevanza dell’elemento soggettivo (colpa della PA) dalla fattispecie normativa. Tanto è sufficiente a riconoscere al diritto al rimborso dei costi per le polizza fidejussorie il carattere di “ogni altro accessorio” relativo alla controversia tributaria (sia che la stessa debba individuarsi con riferimento al credito d’imposta vantato dal contribuente, sia che debba invece individuarsi, come nella specie, con riferimento alla imposta o maggiore imposta pretesa dall’Amministrazione finanziaria in seguito all’avvenuto rimborso del credito IVA).
2. Il secondo motivo con il quale la Agenzia delle Entrate sostiene che sia stato violato l’art. 8 della legge n.212/2000 in relazione all’art. 360 co 1 n. 3) c.p.c., è infondato.
2.1 L’ipotesi secondo cui l’azione amministrativa dell’Ufficio finanziario sarebbe condizionata dalla previa emanazione del regolamento di attuazione del Ministero della Economia e delle Finanze – ancora oggi non adottato – previsto dall’art. 8 comma 6 della legge n. 212/2000, non trova alcun fondamento normativo e si pone in evidente contrasto con la natura precettiva, e non meramente programmatica, della norma di legge (“l’Amministrazione finanziaria è tenuta a rimborsare…”), che – contrariamente a quanto sostiene la ricorrente – non si limita ad enunciare un generico principio ma stabilisce un preciso obbligo di condotta della PA al ricorrere di determinati presupposti (“quando sia stato definitivamente accertato che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore di quella accertata”) che integrano lo stesso fatto costitutivo della pretesa di rimborso del contribuente (titolare di un diritto soggettivo di natura patrimoniale nei confronti della PA).
2.2 Asserire che in difetto della emanazione del regolamento risulterebbe violato il principio di legalità cui deve attenersi l’azione della PA:
a) non tiene conto che l’obbligo di rimborso disciplinato direttamente dalla legge configura una condotta “interamente vincolata” nell’ “an” (il rimborso va disposto in seguito all’accertamento della inesistenza del tributo “garantito”) e nel “quid” (la prestazione ha ad oggetto una somma pari all’importo corrisposto per il rilascio della polizza fidejussoria) che esclude qualsiasi margine di discrezionalità (intesa come potere di adeguamento e scelta della condotta amministrativa ritenuta più opportuna in vista del perseguimento dell’interesse pubblico – demandato alla cura della singola Amministrazione – a costituire il nuovo assetto degli interessi coinvolti con effetti immediatamente incidenti nella sfera giuridica dei soggetti privati) iscrivendosi nello schema tipico della obbligazione di natura patrimoniale avente titolo “ex lege”.
b) collide con la stessa configurazione della pretesa di rimborso come diritto soggettivo di credito, la cui insorgenza non è subordinata alle disposizioni regolamentari: se infatti la legge deve intendersi immediatamente precettiva – contenendo una compiuta predeterminazione degli elementi costitutivi della fattispecie, lasciando dunque al regolamento, da qualificarsi come meramente esecutivo, soltanto la specificazione di elementi di dettaglio volti a regolare in modo ordinato lo svolgimento dei materiali adempimenti degli Uffici e dei contribuenti connessi alla attuazione del rapporto tributario – ne segue che il diritto di credito non può che ritenersi immediatamente esigibile indipendentemente dalla emanazione della normativa secondaria di dettaglio (la mancanza di un regolamento ministeriale, previsto dalla legge, non è stata ritenuta ostativa alla applicazione dei tributi, laddove la fattispecie normativa impositiva descriveva compiutamente i presupposti d’imposta, i soggetti passivi, e le aliquote applicabili: cfr. in materia di cd. “ecotassa” istituita dall’art. 17 legge n. 449/1997, Corte cass. V sez. 30.7.2008 n. 20665 e n. 20667; id. V sez. 21.12.2009 n. 26859 e n. 26860; analogamente in materia di ICI la mancata emanazione del regolamento comunale di cui all’art. 59 Dlgs n. 446/1997 non è stata ritenuta ostativa alla esigibilità del tributo: Corte cass. V sez. 8.10.2010 n. 20872): appare significativo che, con riferimento alla facoltà di estinzione della obbligazione tributaria mediante compensazione – art. 8 commi 1 e 8 legge n. 212/2000. Il Legislatore non abbia inteso completare la disciplina della fattispecie, delegando espressamente alla fonte normativa secondaria di definire le modalità ed i limiti di attuazione della compensazione individuando anche i tributi per i quali tale istituto “attualmente non è previsto” (inequivoco il rinvio al ben più rilevante regolamento “cd. autorizzato” di cui all’art. 17 comma 2 della legge 23.8.1988 n. 400, essendosi limitata la norma di legge soltanto a determinare “le norme generali regolatrici della materia”, mentre nel caso del diritto al rimborso il rinvio al regolamento ministeriale di cui all’art. 17 comma 3 della legge n. 400/1988, unitamente alla chiara definizione legislativa del diritto al rimborso, relega l’intervento della normazione secondaria alla regolamentazioni di aspetti organizzativi interni alla PA o meramente esecutivi, non incidenti sul momento della insorgenza e della esigibilità del dritto al rimborso dei costi delle fidejussioni).
Questa Corte, peraltro, ha già esaminato la questione della rimborsabilità dei costi delle fidejussioni risolvendo, implicitamente, nei termini sopra indicati entrambe le questioni della giurisdizione tributaria e della attuale esigibilità del credito restitutorio (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 14024 del 17/06/2009).
Va in conseguenza affermato il seguente principio di diritto: “nel caso in cui il contribuente che abbia conseguito il rimborso del credito IVA, ai sensi dell’art. 30 e 38 bis del Dpr n. 633/1972, abbia prestato la garanzia richiesta dal medesimo articolo 38 bis al fine di evitare la immediata restituzione delle somme “indebitamente rimborsate” fino a concorrenza dell’importo della pretesa tributaria fatta valere con successivo avviso di accertamento o rettifica dalla Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 38 bis comma 6 Dpr n. 633/1972, lo stesso contribuente, qualora la controversia avente ad oggetto la opposizione avverso detto avviso si sia risolta a suo favore con sentenza – passata in giudicato – di annullamento dell’atto impositivo, è legittimato a richiedere alla Amministrazione – e ad esperire la tutela avverso l’eventuale atto di diniego o silenzio rifiuto – il rimborso dei costi sostenuti per le fidejussioni, ai sensi dell’art. 8 comma 4 della legge 27 luglio 2000 n. 212, non ostando al riconoscimento del diritto al rimborso, la perdurante mancata adozione del regolamento ministeriale di attuazione previsto dal comma 6 del medesimo articolo, atteso che la norma di legge definisce in modo completo tutti gli elementi costitutivi del diritto di credito (soggetti, contenuto della prestazione, termine di adempimento ed insorgenza del diritto), a fronte del quale corrisponde non l’esercizio di una potestà discrezionale della PA, ma una condotta dell’Ufficio finanziario interamente vincolata nell’ “an” (l’obbligo di rimborso insorge al momento del definitivo accertamento della insussistenza del tributo per il quale la garanzia è stata prestata) e nel “quid” (importo dovuto a rimborso, corrispondete al costo della garanzia) che deve inquadrarsi nello schema tipico della obbligazione di natura patrimoniale avente titolo nella legge”.
3. Il terzo motivo con il quale – contraddittoriamente – viene censurata la medesima statuizione della CTR veneta, sia in relazione all’art. 360 co 1 n. 4) c.p.c., per vizio di nullità della sentenza di appello in conseguenza della omessa pronuncia sul motivo di gravame con il quale era stata impugnata la decisione di prime cure per ultrapetizione, sia in relazione all’art. 360 co 1 n. 5) c.p.c., per vizio di omessa motivazione (che implica, al contrario, che la CTR abbia invece assolto all’obbligo di pronuncia sul predetto motivo di gravame), è inammissibile:
– sia in quanto la formulazione contraddittoria dei vizi di legittimità, risolvendosi nella incertezza della individuazione del motivo di ricorso, impedisce l’accesso al sindacato di legittimità (art. 366 co 1 n. 4 c.p.c.) non potendosi sostituire la Corte – in luogo della parte ricorrente – nella scelta della censura alla stregua della quale deve essere condotto il controllo di legittimità della sentenza impugnata;
– sia in quanto le censure appaiono rivolte a criticare, non la pronuncia impugnata, ma la decisione di primo grado che, secondo la Agenzia ricorrente, avrebbe riconosciuto – senza che fosse stata proposta domanda dalla società contribuente – la generale compensabilità (con altri tributi) del credito di rimborso dei costi per le polizze fidejussorie: i Giudici di appello, infatti, sia pure con lessico sintatticamente stentato ed incerto, non hanno affatto inteso riconoscere efficacia di autonoma statuizione alla pronuncia del Giudice di primo grado, avendo piuttosto rilevato che il richiamo operato nella sentenza di prime cure all’istituto della compensazione (con specifico riguardo alla facoltà del contribuente di avvalersi della compensazione anche in assenza di regolamento di attuazione previsto dall’art. 8 comma 8 della legge n. 212/2000) non integrava un autonomo capo della decisione, ma svolgeva la mera funzione di argomento “ad abundantiam” – integralmente “ripreso” dal ricorso introduttivo della società contribuente – utilizzato a supporto del riconoscimento del diritto al rimborso dei costi delle polizze fidejussorie (unico oggetto della decisione) anche in difetto della emanazione del regolamento di attuazione di cui all’art. 8 comma 6 della legge n. 212/2000 (cfr. sentenza CTR: “è da ritenersi quindi che la compensazione…sia stato un motivo di cui si sono avvalsi i giudici di prime cure in ausilio alla ratio delle disposizioni di cui all’art. 8, 1° comma della legge n. 212/2000 e art. 8, 4° comma legge n. 212/2000”): tanto trova conferma anche nel richiamo al precedente di questa Corte n. 2272/2006 – concernente le modalità di esercizio del diritto alla compensazione in materia tributaria – contenuto nel passaggio motivazionale immediatamente successivo della stessa sentenza di appello, e che viene operato dai Giudici territoriali esclusivamente in funzione di critica alla tesi dell’Ufficio finanziario secondo cui il diritto al rimborso de costi di polizza non poteva essere riconosciuto in mancanza del regolamento ministeriale.
Pertanto, sostituendosi la pronuncia di appello a quella del giudice di primo grado e non avendo adottato la CTR veneta statuizioni dirette a riconoscere la compensazione (è appena il caso di rilevare come una pronuncia di mero accertamento della “compensabilità in astratto” di un credito, esuli del tutto dai limiti interni della “potestas judicandi” del Giudice tributario il quale, ove ritenga sussistenti i presupposti, deve dichiarare estinti i reciproci crediti) delle somme da rimborsare con eventuali ed ipotetiche imposte dovute dalla medesima contribuente, il motivo di ricorso per cassazione appare all’evidenza inammissibile.
4. Il quarto motivo con il quale si denuncia la violazione dell’art. 8 legge n. 212/2000 e degli artt. 1241, 1242 e 1243 c.c., in relazione all’art. 360 co 1 n. 3) c.p.c. deve ritenersi anch’esso inammissibile in quanto rivolto a criticare una proposizione della sentenza di appello, estrapolata dal contesto motivazionale nel quale assume ben diverso significato, e che non costituisce autonoma “ratio decidendi” della decisione di secondo grado suscettibile di impugnazione (cfr. sentenza CTR: “… si rileva pure come la giurisprudenza di legittimità sia indirizzata a riconoscere la compensarne anche in assenza dei regolamenti attuativi (Cass. civ. n. 22872/2006)…”).
Come è stato già rilevato nell’esame del precedente motivo, l’affermazione della CTR del Veneto, è ripresa dalle tesi difensive svolte dalla società contribuente e riprodotte nella sentenza di prime cure, ed assolve meramente alla funzione di argomento comparativo-analogico per affermare la azionabilità del diritto al rimborso dei costi delle polizze fidejussorie, anche in mancanza della adozione del regolamento ministeriale previsto dall’art. 8 comma 6 della legge n. 212/2000, così come era già stato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo alla diversa questione (non oggetto della presente causa) del diritto alla compensazione dei crediti di imposta esercitatale, appunto, anche in difetto della emanazione del regolamento attuativo previsto dall’art. 8 comma 8 della medesima legge n. 212/2000.
Alcuna statuizione è stata adottata pertanto dai Giudici territoriali in ordine alla compensazione del credito di rimborso – oggetto della presente controversia – con altri ipotetici debiti d’imposta della società, e dunque il motivo del ricorso principale, in quanto palesemente inconferente rispetto al decisum, va dichiarato inammissibile.
5. In conseguenza il ricorso deve essere rigettato e la Agenzia fiscale condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso e condanna la Agenzia fiscale soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in € 7.000,00 per compensi professionali, oltre gli accessori di legge.
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